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Homegrown: rassegna stampa italiana


In quegli anni Young stava attraversando un periodo difficile, mentre la relazione con l'attrice Carrie Snodgrass (i due erano legati dal 1971), stava finendo e molte delle canzoni che stava scrivendo erano riferite proprio a questa vicenda. Canzoni "troppo personali" disse Young a Cameron Crowe in un'intervista per Rolling Stone dell'epoca. Il cantautore aveva messo tutta la sua sofferenza nella musica, ma non si sentiva a suo agio nel farla ascoltare al mondo.
TGcom24, comunicato 

“Non chiederò scusa”, annuncia Young nella prima canzone, Separate Way, mentre le parole si fondono con la pedal steel di Ben Keith. In Mexico piange la sua perdita su poche note di pianoforte: “Il sentimento è svanito, perché è tanto difficile tenersi stretto un amore?”. La lenta Try è lievemente più ottimistica, con Young che canta in modo giocoso: “Tenterei la fortuna, ma cazzo, Mary, non so ballare”, una citazione di una delle battute preferite della madre di Snodgress. E poi c’è Vacancy, pezzo rock con Stan Szelest al Wurlitzer e la frase: “Ti guardo negli occhi e non capisco che cosa nascondono” che sembra rivolta a una ex che per l’uomo è diventata una specie di fantasma.
Rolling Stone Italia, voto ****½ (su 5)

Ma cosa dobbiamo aspettarci da un disco di “dolore” inciso fra il 1974 e il 1975? “Una specie di ponte fra Harvest e Comes a time”, come l’ha definito lo stesso cantautore canadese. Un ponte per attraversare il quale bisogna camminare con cautela su sei album non sempre stabili anche se in qualche caso ampiamente rivalutati, sinistri crepitii e ondeggiamenti poco confortanti, sprazzi di luce e rabbia cupa. D’altronde, nemmeno lui si aspettava, all’epoca, che le persone ascoltassero sempre la sua musica: “Se hai intenzione di mettere un disco alle 11:00 del mattino, Tonight’s the night non va bene. Meglio i Doobie Brothers.”
Auralcrave, voto ***** (su 5)

Bloccato nel suo mondo fitto di oscurità, il musicista non riusciva a dare un senso compiuto a quel suono così apparentemente semplice e disilluso, nonostante le troppe brutture affrontate: la separazione da Carrie Snodgress, la malattia diagnosticata al figlioletto Zeke e la morte per droga degli amici, il chitarrista nonché membro dei Crazy Horse, Danny Whitten prima e quella del roadie Bruce Berry poi, lo avevano di fatto chiuso in un tunnel di negatività dal quale sarebbe uscito solo diverso tempo dopo e con parecchie ammaccature. In “Homegrown” non ci sono però scatti nervosi, né afflizioni aggiuntive. Neil Young offre con fare quasi rassicurante la variegata gamma delle proprie tristezze, riappropriandosi di quelle radici folk in cui da sempre ha affondato la sua poetica. Tra acustica, armonica e slide, pianoforte e spazzole, le suggestioni bucoliche riempiono le atmosfere dell’album, alternando una moltitudine di umori contrastanti piuttosto lontani dagli ideali hippie evocati in “Harvest”.
Rockol, voto **** (su 5)

Si tratta di un disco potente, non meravigliosamente abbacinato in un dolore lattiginoso come On The Beach o febbricitante e dissestato come Time Fades Away, ma perfettamente in bilico tra dimensione acustica ed elettricità come se non fosse possibile tracciare una linea di demarcazione tra di esse, ma anzi componessero uno stesso profilo, la modulazione di una voce soggetta a imprevedibili variazioni di temperatura e (quindi) di fusione. Non si può paragonare tuttavia al lirismo ipnotico di After The Gold Rush, né al turgore levigato di Harvest: in Homegrown si consuma lo spettacolo d’arte varia di un’anima sfocata che ha recuperato in qualche modo un centro di gravità a cui aggrapparsi, anche se non è chiaro quanto sia solido.
Sentireascoltare, voto 7.4 (su 10) - album Top

“Un disco pieno di amor perduto” che Neil Young non si è sentito di far uscire quando sarebbe dovuto essere il suo momento per il semplice motivo che, forse, almeno per il suo autore, il momento giusto non era affatto quello. [...] La fiamma di un amore che si spegne, un artista che respinge i doveri discografici perché ritiene che il proprio stato d’animo sia più importante di qualunque contratto e dodici tracce che si perdono come “lacrime nella pioggia” e che forse mai nessuno più ascolterà.
Impatto Sonoro, rece positiva

Gli appassionati del periodo Harvest / On The Beach hanno pane per i loro denti. Innanzitutto per il timbro di voce, poi per brani come Mexico (che può ricordare nella melodia A Man Needs a Maid), Separate Ways, Try. Ma i segnali di evoluzione arrivano presto con l’elettrica Vacancy, e i rumori e la spoken word in Florida. C’è poi una bella ballata country quale Love is a Rose, il blues di We Don’t Smoke It  e le stessa traccia titolo a fare bella mostra della loro qualità. Un disco forse non fondamentale (non troviamo una hit che sarebbe diventata inossidabile), ma utilissimo a riempire un tassello storico e con brani di livello alto come si conviene a un musicista del suo rango.
Il Popolo del Blues, rece positiva

Homegrown è semmai affascinante proprio nel mostrare un altro nebuloso scatto di quel caotico periodo, funestato dalle ombre del rapporto in frantumi con la prima moglie Carrie Snodgress e dai problemi di salute del figlio Zeke, integrando il discorso che già ricadeva a cascata sui contemporanei album ufficiali. Spezzato, impreciso, attraversato da bozzetti, vicoli ciechi, canzoni interrotte e momenti di pura illuminazione, Homegrown non possiede la provocatoria liberazione di Time Fades Away, radiografia dal vivo di un crollo umano, né la bellezza adamantita e languida del capolavoro On the Beach, e neppure il disarmonico quanto autentico grido di disperazione di Tonight’s the Night. È piuttosto un saliscendi di emozioni, incise sulla carne viva di Young, il quale, quando trova una pista fuori dalla coltre che lo avvolge, ottiene i risultati sperati, altre volte invece pare semplicemente abbadonarsi all’idea del momento.
Rootshighway, rece positiva

Se il dolore non lo si può non affrontare, allo stesso modo non si può non gioire per i piccoli miracoli, come una canzone, un fiore, un tramonto. E non c’è nulla di banale in tutto ciò, solo un sentimento di primitiva malinconia che Neil si tiene addosso da sempre come una coperta pesante ma confortevole. [...] Ascoltando Homegrown, perdendoci in quei 12 brani in perfetto stato di grazia, non sappiamo più che anno è. Non stiamo lì a pensare al genere musicale, a come incasellarlo, a chi somigliarlo, se suona nuovo, se suona vintage. Pensiamo solo a come siano fottutamente belle quelle canzoni. Tante piccole gemme, per un durata totale di 35 minuti. E dentro c’è tutto, il suo country rock, il suo folk, il suo psychedelic, il suo rock blues, il suo proto grunge.
Rock Garage, voto 10

Le canzoni che componevano Homegrown erano invece tante, visto che in origine doveva essere un doppio album. Tante di loro finiranno su album seguenti, alcune faranno capolino solo in concerto, altre vedono la luce solo ora. Finalmente! Altre ancora chissà quando? Registrate tra il Broken Arrow Ranch, al Quadrafonic Sound Studios di Nashville e al Village Recorders di Los Angeles, sotto la produzione di Elliot Mazer e Ben Keith con l'accompagnamento di musicisti come lo stesso Ben Keith (steel guitar), Tim Drummond (basso), Levon Helm e Karl Himmel alla batteria.
Enzo Curelli Blog, voto **** (su 5)

In "Homegrown" la profonda ispirazione rurale americana tocca vertici altissimi; suoni autentici di amplificatori, Les Paul e Martin d’annata, eco e riverberi naturali ottenuti con microfoni sapientemente posizionati in vecchi fienili o negli studi di Nashville e da qui il sound country/blues che la fa da padrone rispetto al folk dei classici lavori di Neil Young, unito a musicisti d’eccezione. Il tutto, è sono un toccasana per le orecchie dell’ascoltatore contemporaneo.
GuitarClubMagazine, rece positiva

Homegrown, raccolta di brani di fine ’74 e inizio ’75, ora che infine esce sul mercato viene annotato come “il” disco mancato di Neil Young. Meglio sarebbe dire “uno” dei dischi perduti: qualcosa è riaffiorato altrove, qualcosa era solo il sogno privato dei collezionisti. Eccolo qua, con tanto di copertina quietamente country: un ragazzino che potrebbe essere Huckleberry Finn di Mark Twain che addenta una pannocchia, un cagnolino interessato, bisonti e fogliame color pastello.
Il Giornale della Musica, rece positiva

“Semplicemente non potevo ascoltarle”. Questa la motivazione della lunga attesa. [...] Risultava impossibile per l’autore riascoltarsi in queste esternazioni sonore d’angoscia [...]. Apre il disco un brano che sarebbe potuto diventare un classico. Separate Ways [...] La speranza di fuggire dal dolore espressa in Mexico, lascia spazio alla canzone più nota dell’intero progetto [...] Love is a Rose.
LaScimmiaPensa, rece positiva

È interessante notare come, nonostante sia un’opera risalente a 45 anni fa, le tematiche affrontate, ovvero solitudine, malinconia, abbandono, riescano a essere universalmente comprensibili anche al pubblico di oggi e pezzi struggenti come Separate Ways, Love is a Rose e Star of Bethelem riusciranno a essere sempre attuali e non perderanno mai credibilità. Persino la parte strumentale, seppure per ovvie ragioni anacronistica rispetto ai canoni a cui siamo abituati oggi, riesce a essere apprezzabile con i suoi miscugli di chitarre, sia acustiche che elettriche, pianoforti e qualche memorabile assolo di fisarmonica (in Separate Ways e in We Don’t Smoke It No More).
HeyJudeMagazine, rece positiva

Young non ha rabbia nel parlare di questo amore finito, traspare anche un certo senso di gratitudine, d’altronde Carrie è pur sempre la madre del suo primo figlio. Sono i ricordi a dare conforto all’artista, alcuni più dolorosi e altri più lievi, più semplici da gestire. In “Separate Ways”, primo brano dell’album, dice “La felicità non è mai passata/è solo un cambio di piano”, poche parole, ma pesanti come 100 libri. La sua voce, stanca e triste, trova ogni tanto una luce più forte come in “We don’t smoke it” che sembra inserito solo per bloccare temporaneamente la tristezza e “Florida”, breve flusso confuso di intense parole.
Indelebili, rece positiva

Homegrown è un lavoro pieno di dolore e di rabbia, trasuda tutto il tormento di quei giorni che pian piano si trasforma in un racconto catartico, forse per questo Neil aspetterà così tanto a pubblicarlo; lui stesso ha raccontato che era lì, nascosto in un cassetto, pronto a venir fuori una volta passata la tempesta, una volta metabolizzata la perdita [...] L’anno ‘74-’75 sarà stato pure un periodo nero come la notte più buia per Neil, ma sicuramente rischiarato da sprazzi di profonda ispirazione, quel che ne risulta infatti è un mix perfetto tra dimensione acustica ed elettricità, fra intimità e potenza, come tutta la sua produzione del resto. L’unico difetto dell’album è che dura troppo poco
OffTopicMagazine, rece positiva

Circa metà dei brani gli younghiani di ferro li conoscono bene. Il resto è tutt’altro che scarto e accademia. Ad esempio la title track, uno di quei brani gonfi e vagamente ironici che quando li scrive Yioung vanno sempre a bersaglio, o perfino il bluesaccio da jam We Don’t Smoke it No More ( ma tono e clima sembrano dire esattamente il contrario). White Line è una pennellato di saggia melassa, Little Wing dolcezza su dolcezza, Florida una scombiccherata narrazione con tanto di bicchieri da vino percorsi coi polpastrelli. Qua e là a dare una mano Robbie Robertson e Levom Helm della Band, a proposito di specularità con Dylan, e la fata gentile Emmilou Harris. Il viaggio perduto, va da sé, vale tutto il prezzo del biglietto.
Discoclub, voto 8.7 (su 10)

Se Neil aveva dei dubbi all’epoca, lo si può comprendere, perché il disco mostra alcuni tratti poco convincenti, in particolare il tentativo di riproporre atmosfere  simili al precedente. La sequenza dal primo al quinto brano sembra infatti ricalcare quella di Harvest; brano per brano, nello stesso ordine, ognuno rimanda, più o meno, a quella tracklist (*). Dal sesto pezzo in poi succede di tutto e  un brano totalmente parlato come Florida risulta del tutto fuori posto, ora come allora… Anche la seguente Kansas sembra incompiuta e cruda, quasi un ritaglio della ben più riuscita Ambulance Blues di  On The Beach. Non va meglio con il rock-blues di We Don’t Smoke It Anymore, che avrebbe ben figurato su Tonight’s The Night. Il disco si riprende con una versione acustica della White Line poi su  Ragged Glory,  che qui fa da trait d’union  con il  disco  della  serenità, Comes A Time. Vacancy  invece  torna a ripercorrere atmosfere harvestiane, rispecchiando un po’ le sonorità di Words.
TomTomRock, voto 7

Più che un "Harvest" minore è, infatti, un "Tonight's The Night" rivolto al suo cuore infranto anziché ai lutti amicali. Di quel capolavoro condivide (oltre che lo stesso intorno d'anni) tanto il tono, meditabondo e tribolato, quanto la prassi zigzagante, gli arrangiamenti cangianti da brano a brano, che restituisce uno spettro espressivo eterogeneo per sondare e cantare il dolore da quanti più punti di vista possibili. E come "Tonight's" s'orienta al clima più che alle singole canzoni: nessuna davvero memorabile, ma qualcuna pur pregna di quella lirica tragicità dello Young del periodo. Qualche punto trascurabile tra cui un evitabilissimo interludio, "Florida". Tra le righe è pure il disco "The Band" del canadese (oltre a Robertson compaiono Stan Szelest e Levon Helm), ma c'è anche una Emmylou Harris ancora quasi esordiente.
Ondarock, voto 6 (su 10)



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