Rassegna stampa d'epoca: Mirror Ball / Broken Arrow
MIRROR BALL – 1995
Non è un segreto che Neil Young ami i Pearl Jam e viceversa. Quando nel 1993 il gruppo aprì per Young, spesso li richiamò sul palco per una versione di “Rockin’ in the free world”; quando venne introdotto nella Rock ‘n’ roll hall of fame, fu Eddie Vedder dei Pearl Jam a fare gli onori di casa, decretando il cantante un “grande autore, un grande esecutore, un grande canadese”. Perciò, il fatto che questa società di mutua ammirazione si potesse tramutare in un album era probabilmente inevitabile, ma anche sapendo questo è difficile non restare sorpresi dalla forza che Mirror Ball riesce a infondere a questa relazione.
Anche se Young è il partner dominante, dopotutto il concetto, le canzoni e l’album sono farina del suo sacco, sono i Pearl Jam che finiscono per determinare le forme e il sapore di questa musica, fornendo un livello di idee e di energia che va ben aldilà del dovuto per un gruppo di accompagnamento. Giusto per capire quanto i Pearl Jam sappiano trasportare in queste canzoni basterà confrontare questa versione di “Act of love” con quella di Young assieme ai Crazy Horse ascoltata all’inizio di quest’anno dal vivo. Sia alla rock ‘n’ roll hall of fame che al concerto “Voters for Choice” a Washington, la versione di “Act of love” dei Crazy Horse era un gigante legnoso, una lenta maratona di accordi e assoli divaganti. Non è solo la minore durata (poco meno di cinque minuti) e la relativa assenza di assoli di chitarra che distingue la versione dei Pearl Jam, ma anche la vitalità ritmica. Dove i Crazy Horse risultavano essere lugubri e muscolosi, i Pearl Jam hanno la pulizia di un campione di pesi welter, azzannando gli accordi forti del ritornello con agilità dal piede leggero e con la sicurezza di chi sa graffiare le orecchie. Non è solo una questione di stile musicale, perché abbiamo una differenza quasi generazionale all’opera. I Crazy Horse si cullano nell’eccesso della grandeur acid rock superamplificata, i Pearl Jam preferiscono la cruda bellezza del minimalismo anfetaminico del punk. Young comunque è affascinato da entrambi gli stili e dopo aver trascorso gran parte di Sleeps With Angels a passare in rassegna la generazione del rock alternativo attraverso il calore dei Crazy Horse, qui fa ruotare il telescopio per capire che effetto fa l’hippismo visto con le lenti dei Pearl Jam.
A essere onesti, la visione può essere anche divertente, perché “Downtown” per esempio rimanda la nozione dei fighissimi ’60 con hippie fumettistici che vanno tutti in un posto dove “danzano il Charleston/ e anche il Limbo”. Ma per quanto divertimento Young e il gruppo riescano a vivere con quest’immagine (assieme al gigioneggiare della canzone da tre accordi), non scherzano sull’eredità più forte e duratura dell’epoca, cioè la sua musica: “Jimi sta suonando là dietro”, canta Young “I Led Zeppelin son sul palco” e anche se la musica non cerca di evocare quel sound, ne tramanda comunque lo spirito. Ma non finisce qui. Con “Peace and love” Young e i Pearl Jam vanno al cuore del legame tra ’60 e ’90. Dopo aver invocato l’ideale mistico con Young che canta di trovare “amore nella gente/ che vive in terra sacra”, Eddie Vedder offre una sorta di contrappunto generazionale cantando “ho trovato l’amore, ho trovato l’odio, ho visto il mio errore” per poi concludere con “ho sbriciolato le mura del dolore per camminare di nuovo”. Due diversi generi di trascendenza di sicuro, ma come suggerisce il finale in crescendo e da inno, sono molto più vicini di quello che ogni generazione pensa.
Non tutte le questioni sollevate da Mirror Ball sono risolte agevolmente: “Act of love” per esempio attacca il tema dell’aborto senza offrire una soluzione politica netta, anzi le parole di Young giocano con l’ironia di così tanto odio e disperazione che si sollevano dopo un atto d’amore. Dipinge il movimento antiabortista come una “guerra santa… che sta lentamente sorgendo” poi descrive un prossimo padre riluttante che mette sotto pressione l’amante per farle terminare la gravidanza: “Ecco il portafoglio/ chiamami qualche volta”. È un correndo di immagini brutte e l’attacco del gruppo è inesorabile come le notizie che gli danno la sua valuta. Piuttosto che lottare contro il corso degli eventi, Young e i Pearl Jam decidono invece di lasciare l’onda, proprio come l’incidente imminente che Young descrive all’inizio di “I’m the ocean” dove il protagonista decide di “far durare l’attimo” invece di sbattere sui freni. E al proprio meglio Mirror Ball prende quell’attimo contraddittorio e da brividi per tutto ciò che vale: dal sollievo dell’accattivante e insistente “Throw your hatred down” alla grandeur telegenica del “cowboy cancerogeno” di “Big green country” sino alla dolorosa rassegnazione di una canzone spossata dal mondo come “Truth be known”.
J.D. Considine, Rolling Stone 1995
Il disco Mirror Ball che esce domani, non rappresenta solamente la lungamente attesa collaborazione tra Neil Young e i Pearl Jam. Promette anche una superiore qualità sonora che non sarà nemmeno paragonabile ai compact disc che sono nelle case di milioni di persone. […] Dopo nove anni di sviluppo, la tecnologia chiamata HDCD (High Definition Compatible Digital) ha ricevuto largo consenso […]. Potrà quindi determinare un nuovo standard? […]
L'uso dell'HDCD da parte di Mr. Young è considerato una prova dato che lui è sempre stato diffidente verso il sound digitale. Sentimento condiviso anche da molti ingegneri del suono. […]
NY Times 1995
Non è un segreto che Neil Young ami i Pearl Jam e viceversa. Quando nel 1993 il gruppo aprì per Young, spesso li richiamò sul palco per una versione di “Rockin’ in the free world”; quando venne introdotto nella Rock ‘n’ roll hall of fame, fu Eddie Vedder dei Pearl Jam a fare gli onori di casa, decretando il cantante un “grande autore, un grande esecutore, un grande canadese”. Perciò, il fatto che questa società di mutua ammirazione si potesse tramutare in un album era probabilmente inevitabile, ma anche sapendo questo è difficile non restare sorpresi dalla forza che Mirror Ball riesce a infondere a questa relazione.
Anche se Young è il partner dominante, dopotutto il concetto, le canzoni e l’album sono farina del suo sacco, sono i Pearl Jam che finiscono per determinare le forme e il sapore di questa musica, fornendo un livello di idee e di energia che va ben aldilà del dovuto per un gruppo di accompagnamento. Giusto per capire quanto i Pearl Jam sappiano trasportare in queste canzoni basterà confrontare questa versione di “Act of love” con quella di Young assieme ai Crazy Horse ascoltata all’inizio di quest’anno dal vivo. Sia alla rock ‘n’ roll hall of fame che al concerto “Voters for Choice” a Washington, la versione di “Act of love” dei Crazy Horse era un gigante legnoso, una lenta maratona di accordi e assoli divaganti. Non è solo la minore durata (poco meno di cinque minuti) e la relativa assenza di assoli di chitarra che distingue la versione dei Pearl Jam, ma anche la vitalità ritmica. Dove i Crazy Horse risultavano essere lugubri e muscolosi, i Pearl Jam hanno la pulizia di un campione di pesi welter, azzannando gli accordi forti del ritornello con agilità dal piede leggero e con la sicurezza di chi sa graffiare le orecchie. Non è solo una questione di stile musicale, perché abbiamo una differenza quasi generazionale all’opera. I Crazy Horse si cullano nell’eccesso della grandeur acid rock superamplificata, i Pearl Jam preferiscono la cruda bellezza del minimalismo anfetaminico del punk. Young comunque è affascinato da entrambi gli stili e dopo aver trascorso gran parte di Sleeps With Angels a passare in rassegna la generazione del rock alternativo attraverso il calore dei Crazy Horse, qui fa ruotare il telescopio per capire che effetto fa l’hippismo visto con le lenti dei Pearl Jam.
A essere onesti, la visione può essere anche divertente, perché “Downtown” per esempio rimanda la nozione dei fighissimi ’60 con hippie fumettistici che vanno tutti in un posto dove “danzano il Charleston/ e anche il Limbo”. Ma per quanto divertimento Young e il gruppo riescano a vivere con quest’immagine (assieme al gigioneggiare della canzone da tre accordi), non scherzano sull’eredità più forte e duratura dell’epoca, cioè la sua musica: “Jimi sta suonando là dietro”, canta Young “I Led Zeppelin son sul palco” e anche se la musica non cerca di evocare quel sound, ne tramanda comunque lo spirito. Ma non finisce qui. Con “Peace and love” Young e i Pearl Jam vanno al cuore del legame tra ’60 e ’90. Dopo aver invocato l’ideale mistico con Young che canta di trovare “amore nella gente/ che vive in terra sacra”, Eddie Vedder offre una sorta di contrappunto generazionale cantando “ho trovato l’amore, ho trovato l’odio, ho visto il mio errore” per poi concludere con “ho sbriciolato le mura del dolore per camminare di nuovo”. Due diversi generi di trascendenza di sicuro, ma come suggerisce il finale in crescendo e da inno, sono molto più vicini di quello che ogni generazione pensa.
Non tutte le questioni sollevate da Mirror Ball sono risolte agevolmente: “Act of love” per esempio attacca il tema dell’aborto senza offrire una soluzione politica netta, anzi le parole di Young giocano con l’ironia di così tanto odio e disperazione che si sollevano dopo un atto d’amore. Dipinge il movimento antiabortista come una “guerra santa… che sta lentamente sorgendo” poi descrive un prossimo padre riluttante che mette sotto pressione l’amante per farle terminare la gravidanza: “Ecco il portafoglio/ chiamami qualche volta”. È un correndo di immagini brutte e l’attacco del gruppo è inesorabile come le notizie che gli danno la sua valuta. Piuttosto che lottare contro il corso degli eventi, Young e i Pearl Jam decidono invece di lasciare l’onda, proprio come l’incidente imminente che Young descrive all’inizio di “I’m the ocean” dove il protagonista decide di “far durare l’attimo” invece di sbattere sui freni. E al proprio meglio Mirror Ball prende quell’attimo contraddittorio e da brividi per tutto ciò che vale: dal sollievo dell’accattivante e insistente “Throw your hatred down” alla grandeur telegenica del “cowboy cancerogeno” di “Big green country” sino alla dolorosa rassegnazione di una canzone spossata dal mondo come “Truth be known”.
J.D. Considine, Rolling Stone 1995
Il disco Mirror Ball che esce domani, non rappresenta solamente la lungamente attesa collaborazione tra Neil Young e i Pearl Jam. Promette anche una superiore qualità sonora che non sarà nemmeno paragonabile ai compact disc che sono nelle case di milioni di persone. […] Dopo nove anni di sviluppo, la tecnologia chiamata HDCD (High Definition Compatible Digital) ha ricevuto largo consenso […]. Potrà quindi determinare un nuovo standard? […]
L'uso dell'HDCD da parte di Mr. Young è considerato una prova dato che lui è sempre stato diffidente verso il sound digitale. Sentimento condiviso anche da molti ingegneri del suono. […]
NY Times 1995
BROKEN ARROW – 1996
Nel nuovo album di Neil Young, Broken Arrow, è impossibile dire se le canzoni siano state scritte in cinque minuti o in cinque anni. Usano accordi e melodie rudimentali come le folk song; i testi sono semplici come questa strofa di “Scattered”: “Sono un po' nel giusto / Sono un po' in errore / Ho sentito il tuo nome nella notte”. Solo lo spessore e il fuzz grunge delle chitarre rivelano che l'album è stato registrato negli anni '90 e non in un qualunque altro momento degli scorsi decenni.
Young ha fatto Broken Arrow (Reprise) con i Crazy Horse, la sua costante e frivola band, ed è proprio quello che i fans di Young si aspettano dalla loro unione mirata a fare del rock: brani lenti e cadenzati con batterie legnose e chitarre grezze.
Broken Arrow non si rivela come particolarmente importante. Sono solo sette nuove canzoni di Young più una versione di “Baby What You Want Me To Do”. Per farlo durare quanto un lp (48 minuti), ci sono lunghi assoli di chitarra sullo stile delle jam anni '60. Broken Arrow non è una meditazione sulla mortalità come l'eccelso Sleeps With Angels del 1994, il precedente disco dei Crazy Horse. Nel ritmo e nel tono, è più vicino a Mirror Ball, la collaborazione del 1995 con i Pearl Jam, ma non ha le stesse grandi dichiarazioni a proposito dell'America. Invece, tratta di donne elusive e di viaggi senza scopo, di andare alla deriva e rimuginare. “Troppe distrazioni, devo tornare a casa / Entrare in qualcosa di solido, uscire dalla zona”, canta Young.
L'album resta sospeso sugli anni '60 come fumo di cannabis. “Loose Change” potrebbe ricordare un riff dei Creedence Clearwater Revival, mentre la musica di “Slip Away” potrebbe essere reintitolata “Cowgirl in the Hotel California”. Altrove vi sono echi di Bob Dylan, Beatles, Grateful Dead: una chiamata al rock dei '60. Le jam non sono proprio collettive – la chitarra di Young è sempre al centro – ma passeggiano svagate in un modo che gli imitatori alternativi di Young non possono simulare. Nei suoi soli di chitarra, Young lavora come uno scalatore con i suoi chiodi, dipanando metodicamente un riff, affondandovici dentro e poi scalando in alto verso un altro appoggio. Ma fa il suo lavoro essenziale; in “Loose Change”, lui e i Crazy Horse restano su un accordo di Mi per più di un minuto, sostenendolo con beatitudine minimale.
La bellezza dell'album sta nella sua brutalità apparente. Solo Young poteva uscire con versi come “Parlando di te e di me / Parlando dell'eternità / Parlando dei grandi giorni”. O con il titolo dell'album: non emerge mai nelle canzoni, e sembra non aver nulla a che fare coi crescendo orchestrali di “Broken Arrow”, la canzone che Young registrò con i Buffalo Springfield nel 1967. ma una “freccia spezzata” non ha direzione, come i narratori delle canzoni. “Davvero non intendo stare qui come ho fatto finora / Quindi mi muoverò”, sono le ultime parole dell'album di Young.
Eppure, Broken Arrow non è così casuale come sembra. Le canzoni sono tenute insieme dal sound e dal soggetto, e Young è orgoglioso del modo con cui ha coltivato il sound dei Crazy Horse; non resiste alla tentazione del grasso e riverberante accordo finale di “Scattered”. Anche quando è alla deriva, sceglie il suo veicolo.
Forse un esempio di Broken Arrow è “Baby What You Want Me To Do”, registrata live a Princeton-by-the-Seam, California. Young e i Crazy Horse lavorano alla dichiarazione di sbigottito amore di Jimmy Reed con un ronzante dialogo. Sotto, la voce di Young suona furtiva e disperata, mentre i suoi soli di chitarra giocano con il blues. Ma la conversazione sale e scende, facendo caso alla musica ma senza darci troppo pensiero. Il tuo cuore si può spezzare, suggerisce Young, e puoi non avere idea di dove vada a finire. Ma il resto del mondo va avanti indifferente.
Jon Pareles, NY Times 1996
Nel nuovo album di Neil Young, Broken Arrow, è impossibile dire se le canzoni siano state scritte in cinque minuti o in cinque anni. Usano accordi e melodie rudimentali come le folk song; i testi sono semplici come questa strofa di “Scattered”: “Sono un po' nel giusto / Sono un po' in errore / Ho sentito il tuo nome nella notte”. Solo lo spessore e il fuzz grunge delle chitarre rivelano che l'album è stato registrato negli anni '90 e non in un qualunque altro momento degli scorsi decenni.
Young ha fatto Broken Arrow (Reprise) con i Crazy Horse, la sua costante e frivola band, ed è proprio quello che i fans di Young si aspettano dalla loro unione mirata a fare del rock: brani lenti e cadenzati con batterie legnose e chitarre grezze.
Broken Arrow non si rivela come particolarmente importante. Sono solo sette nuove canzoni di Young più una versione di “Baby What You Want Me To Do”. Per farlo durare quanto un lp (48 minuti), ci sono lunghi assoli di chitarra sullo stile delle jam anni '60. Broken Arrow non è una meditazione sulla mortalità come l'eccelso Sleeps With Angels del 1994, il precedente disco dei Crazy Horse. Nel ritmo e nel tono, è più vicino a Mirror Ball, la collaborazione del 1995 con i Pearl Jam, ma non ha le stesse grandi dichiarazioni a proposito dell'America. Invece, tratta di donne elusive e di viaggi senza scopo, di andare alla deriva e rimuginare. “Troppe distrazioni, devo tornare a casa / Entrare in qualcosa di solido, uscire dalla zona”, canta Young.
L'album resta sospeso sugli anni '60 come fumo di cannabis. “Loose Change” potrebbe ricordare un riff dei Creedence Clearwater Revival, mentre la musica di “Slip Away” potrebbe essere reintitolata “Cowgirl in the Hotel California”. Altrove vi sono echi di Bob Dylan, Beatles, Grateful Dead: una chiamata al rock dei '60. Le jam non sono proprio collettive – la chitarra di Young è sempre al centro – ma passeggiano svagate in un modo che gli imitatori alternativi di Young non possono simulare. Nei suoi soli di chitarra, Young lavora come uno scalatore con i suoi chiodi, dipanando metodicamente un riff, affondandovici dentro e poi scalando in alto verso un altro appoggio. Ma fa il suo lavoro essenziale; in “Loose Change”, lui e i Crazy Horse restano su un accordo di Mi per più di un minuto, sostenendolo con beatitudine minimale.
La bellezza dell'album sta nella sua brutalità apparente. Solo Young poteva uscire con versi come “Parlando di te e di me / Parlando dell'eternità / Parlando dei grandi giorni”. O con il titolo dell'album: non emerge mai nelle canzoni, e sembra non aver nulla a che fare coi crescendo orchestrali di “Broken Arrow”, la canzone che Young registrò con i Buffalo Springfield nel 1967. ma una “freccia spezzata” non ha direzione, come i narratori delle canzoni. “Davvero non intendo stare qui come ho fatto finora / Quindi mi muoverò”, sono le ultime parole dell'album di Young.
Eppure, Broken Arrow non è così casuale come sembra. Le canzoni sono tenute insieme dal sound e dal soggetto, e Young è orgoglioso del modo con cui ha coltivato il sound dei Crazy Horse; non resiste alla tentazione del grasso e riverberante accordo finale di “Scattered”. Anche quando è alla deriva, sceglie il suo veicolo.
Forse un esempio di Broken Arrow è “Baby What You Want Me To Do”, registrata live a Princeton-by-the-Seam, California. Young e i Crazy Horse lavorano alla dichiarazione di sbigottito amore di Jimmy Reed con un ronzante dialogo. Sotto, la voce di Young suona furtiva e disperata, mentre i suoi soli di chitarra giocano con il blues. Ma la conversazione sale e scende, facendo caso alla musica ma senza darci troppo pensiero. Il tuo cuore si può spezzare, suggerisce Young, e puoi non avere idea di dove vada a finire. Ma il resto del mondo va avanti indifferente.
Jon Pareles, NY Times 1996
A un certo punto potreste aspettarvi che Neil Young butti giù il muro. Ma il suo nuovo album, Broken Arrow – su cui riunisce la sua band, i Crazy Horse – ce lo presenta in piena forma.
Semplice, bellissimo e per qualche ragione cupo, Broken Arrow suona come se registrarlo sia stato una quisquilia – il che significa che probabilmente non lo è stato, anche se non si può mai dire dall'ascolto. Grezzo e immediato, l'album ha una chiarezza che permette subito di entrarci dentro.
Non ci sono inni banali – niente “Rockin' In The Free World” - ma la musica è semplice e melodiosa, con facili e calmi soli di chitarra che possono trascinarsi anche per cinque minuti prima che ci si renda conto che la canzone sta andando avanti ancora. In effetti questo album è saturo della chitarra risonante di Young. La sua voce fragile convoglia una dose di stanchezza da mezza età, ma la sua chitarra è quasi gommosa nella sua espressività: un istante è ombreggiata, l'istante dopo è diretta e innocente.
Broken Arrow è il nome sia di una canzone dei Buffalo Springfield che del ranch californiano di Young, e suona molto simile al titolo di altri dischi di Neil Young. Ma Young sta costruendo su immagini e suoni familiari per ottenerne di nuovi. “Loose Change”, per esempio, evoca “Southern Man” dato che finisce in una jam di quasi 10 minuti. “Slip Away”, una dolce e malinconica opera su una ragazza che è difficile abbracciare, vi dà quella deliziosa sensazione del tipo “questa l'ho già sentita”, eppure non viene in mente nessun'altra canzone.
Il brano “Scattered (Let's Think About Livin')” ricorda la dritta ruvidità di Dead Man, il soundtrack che Young ha scritto per il film di Jim Jarmusch del 1996.
Il pezzo finale, “Baby What You Want me To Do” - una cover del blues di Jimmy Reed registrata in un piccolo bar della California lasciando tanto di pubblico rumoroso – all'inizio sembra fuori posto, del tutto diversa. Ma finisce per provvedere a un contrasto col tono cupo dell'album.
Cupo, nonostante vitale ed eternamente giovane – è facile dare per scontato di conoscere Neil Young e non aver bisogno di conoscerlo ulteriormente. Ma Broken Arrow ha la sua indispensabilità. Coperto dalla polvere della strada e dalla sabbia della spiaggia, è l'album che suonerete quando vorrete essere trasportati in un tempo e in un luogo in cui pensate di esser stati ma di cui non vi ricordate esattamente.
Teresa Gubbins, Lakeland Ledger 1996
Del suo nuovo album, Broken Arrow, è impossibile dire se Neil Young abbia scritto i pezzi in cinque minuti o in cinque anni. Sfruttano accordi rudimentali e melodie basilari come le canzoni folk; i testi possono essere semplici tanto questi versi da “Scattered”: “Ho un po' torto / Ho un po' ragione / Sento il tuo nome nella notte”.
Solo l'eccezionale sottigliezza delle chitarre, il timbro grunge distorto rivela che l'album è stato registrato negli anni 90 piuttosto che in un qualsiasi altro momento nell'ultimo quarto di secolo.
Young ha fatto Broken Arrow con i Crazy Horse, la sua instancabile e brutale band, ed è semplicemente ciò che i fan di Young si aspettano da loro quando fanno rock: pezzi lenti a ritmo di marcia con sgraziate percussioni e chitarre grossolane. Broken Arrow non è una pietra miliare. Sono solo sette nuove canzoni di Young più una cover di “Baby What You Want Me To Do”. Per farne un LP di lunghezza idonea (48 minuti) ci sono lunghi soli di chitarre, trascinati come jam degli anni 60.
Broken Arrow non è una meditazione sulla moralità come l'eccelso Sleeps With Angels del 1994, il precedente album di Young con i Crazy Horse; nonostante la musica sia più forzuta, le canzoni si rivolgono al personale. Nel ritmo e nel timbro Broken Arrow è più simile a Mirror Ball, la collaborazione di Young con i Pearl Jam del 1995, ma non lo riflette nelle grandi dichiarazioni sull'America.
Invece parla di sfuggevoli donne e viaggi senza scopo, di andare alla deriva e rimuginare. “Troppe distrazioni, devo tornare a casa / Tornare a qualcosa d stabile, uscire da questa zona” canta.
Gli anni 60 serpeggiano per l'album come fumo di cannabis. “Loose Change” potrebbe essere mezzo derivato da un riff dei Creedence, mentre la musica di “Slip Away” potrebbe essere reintitolata a “Cowgirl in The Hotel California”.
Qui e là ci sono echi di Bob Dylan, dei Beatles, dei Grateful Dead: una chiamata al rock dei 60. Le jam non sono proprio in comunità – la chitarra di Young è sempre al centro – ma incalzano a lungo con quel senso di piacere che nemmeno gli imitatori alternative-rock di Young sanno emulare.
Nei suoi soli di chitarra, Young lavora come uno scalatore con i chiodi, metodicamente stendendo un riff, naufragandoci dentro, quindi scalando un altro po' per mettere il piede su un altro appoggio. Ma fa il lavoro essenziale; in “Loose Change” lui e i Crazy Horse tengono un accordo di Mi per oltre un minuto, sostenendolo con beatitudine minimalista.
La bellezza del disco sta nel suo apparire realizzato con una sola mano. Solo Young poteva saltar fuori con un verso così: “Parlando di te e di me / Parlando di eternità / Parlando del grande momento”. O prendiamo il titolo del disco: non è mai pronunciato nelle canzoni, e sembra disconnesso dal crescendo orchestrale di “Broken Arrow”, una canzone che Young registrò con i Buffalo Springfield nel 1967. Ma una “freccia spezzata” non ha una direzione, come i narratori delle canzoni. “Non volevo restare così a lungo come ho fatto / Quindi andrò avanti” sono le ultime parole scritte da Young sull'album.
Eppure Broken Arrow non è così casuale come sembra. Le canzoni sono omogeneizzate dal sound e dai soggetti, e Young è fiero del modo in cui ha coltivato il sound distorto dei Crazy Horse; non poteva trattenersi da quel grasso, riverberante accordo finale di “Scattered”. Anche quando è senza meta, sceglie il suo veicolo.
Forse un indizio di Broken Arrow è dato da “Baby What You Want Me To Do”, registrata dal vivo a Princeton-by-the-Sea, California. Young e gli Horse lavorano su Jimmy Reed e il suo amore perplesso in mezzo a un sottofondo vociante. La voce di Young suona furtiva e disperata, i suoi assoli giocano con il blues. Ma la conversazione sale e scende, facendo attenzione ma non troppo alla musica. Il tuo cuore potrà anche spezzarsi, suggerisce Young, e non potresti non avere idea di dove andare. Ma il resto del mondo prosegue indifferente.
Jon Pareles, Spokesman Review 1996
Semplice, bellissimo e per qualche ragione cupo, Broken Arrow suona come se registrarlo sia stato una quisquilia – il che significa che probabilmente non lo è stato, anche se non si può mai dire dall'ascolto. Grezzo e immediato, l'album ha una chiarezza che permette subito di entrarci dentro.
Non ci sono inni banali – niente “Rockin' In The Free World” - ma la musica è semplice e melodiosa, con facili e calmi soli di chitarra che possono trascinarsi anche per cinque minuti prima che ci si renda conto che la canzone sta andando avanti ancora. In effetti questo album è saturo della chitarra risonante di Young. La sua voce fragile convoglia una dose di stanchezza da mezza età, ma la sua chitarra è quasi gommosa nella sua espressività: un istante è ombreggiata, l'istante dopo è diretta e innocente.
Broken Arrow è il nome sia di una canzone dei Buffalo Springfield che del ranch californiano di Young, e suona molto simile al titolo di altri dischi di Neil Young. Ma Young sta costruendo su immagini e suoni familiari per ottenerne di nuovi. “Loose Change”, per esempio, evoca “Southern Man” dato che finisce in una jam di quasi 10 minuti. “Slip Away”, una dolce e malinconica opera su una ragazza che è difficile abbracciare, vi dà quella deliziosa sensazione del tipo “questa l'ho già sentita”, eppure non viene in mente nessun'altra canzone.
Il brano “Scattered (Let's Think About Livin')” ricorda la dritta ruvidità di Dead Man, il soundtrack che Young ha scritto per il film di Jim Jarmusch del 1996.
Il pezzo finale, “Baby What You Want me To Do” - una cover del blues di Jimmy Reed registrata in un piccolo bar della California lasciando tanto di pubblico rumoroso – all'inizio sembra fuori posto, del tutto diversa. Ma finisce per provvedere a un contrasto col tono cupo dell'album.
Cupo, nonostante vitale ed eternamente giovane – è facile dare per scontato di conoscere Neil Young e non aver bisogno di conoscerlo ulteriormente. Ma Broken Arrow ha la sua indispensabilità. Coperto dalla polvere della strada e dalla sabbia della spiaggia, è l'album che suonerete quando vorrete essere trasportati in un tempo e in un luogo in cui pensate di esser stati ma di cui non vi ricordate esattamente.
Teresa Gubbins, Lakeland Ledger 1996
Del suo nuovo album, Broken Arrow, è impossibile dire se Neil Young abbia scritto i pezzi in cinque minuti o in cinque anni. Sfruttano accordi rudimentali e melodie basilari come le canzoni folk; i testi possono essere semplici tanto questi versi da “Scattered”: “Ho un po' torto / Ho un po' ragione / Sento il tuo nome nella notte”.
Solo l'eccezionale sottigliezza delle chitarre, il timbro grunge distorto rivela che l'album è stato registrato negli anni 90 piuttosto che in un qualsiasi altro momento nell'ultimo quarto di secolo.
Young ha fatto Broken Arrow con i Crazy Horse, la sua instancabile e brutale band, ed è semplicemente ciò che i fan di Young si aspettano da loro quando fanno rock: pezzi lenti a ritmo di marcia con sgraziate percussioni e chitarre grossolane. Broken Arrow non è una pietra miliare. Sono solo sette nuove canzoni di Young più una cover di “Baby What You Want Me To Do”. Per farne un LP di lunghezza idonea (48 minuti) ci sono lunghi soli di chitarre, trascinati come jam degli anni 60.
Broken Arrow non è una meditazione sulla moralità come l'eccelso Sleeps With Angels del 1994, il precedente album di Young con i Crazy Horse; nonostante la musica sia più forzuta, le canzoni si rivolgono al personale. Nel ritmo e nel timbro Broken Arrow è più simile a Mirror Ball, la collaborazione di Young con i Pearl Jam del 1995, ma non lo riflette nelle grandi dichiarazioni sull'America.
Invece parla di sfuggevoli donne e viaggi senza scopo, di andare alla deriva e rimuginare. “Troppe distrazioni, devo tornare a casa / Tornare a qualcosa d stabile, uscire da questa zona” canta.
Gli anni 60 serpeggiano per l'album come fumo di cannabis. “Loose Change” potrebbe essere mezzo derivato da un riff dei Creedence, mentre la musica di “Slip Away” potrebbe essere reintitolata a “Cowgirl in The Hotel California”.
Qui e là ci sono echi di Bob Dylan, dei Beatles, dei Grateful Dead: una chiamata al rock dei 60. Le jam non sono proprio in comunità – la chitarra di Young è sempre al centro – ma incalzano a lungo con quel senso di piacere che nemmeno gli imitatori alternative-rock di Young sanno emulare.
Nei suoi soli di chitarra, Young lavora come uno scalatore con i chiodi, metodicamente stendendo un riff, naufragandoci dentro, quindi scalando un altro po' per mettere il piede su un altro appoggio. Ma fa il lavoro essenziale; in “Loose Change” lui e i Crazy Horse tengono un accordo di Mi per oltre un minuto, sostenendolo con beatitudine minimalista.
La bellezza del disco sta nel suo apparire realizzato con una sola mano. Solo Young poteva saltar fuori con un verso così: “Parlando di te e di me / Parlando di eternità / Parlando del grande momento”. O prendiamo il titolo del disco: non è mai pronunciato nelle canzoni, e sembra disconnesso dal crescendo orchestrale di “Broken Arrow”, una canzone che Young registrò con i Buffalo Springfield nel 1967. Ma una “freccia spezzata” non ha una direzione, come i narratori delle canzoni. “Non volevo restare così a lungo come ho fatto / Quindi andrò avanti” sono le ultime parole scritte da Young sull'album.
Eppure Broken Arrow non è così casuale come sembra. Le canzoni sono omogeneizzate dal sound e dai soggetti, e Young è fiero del modo in cui ha coltivato il sound distorto dei Crazy Horse; non poteva trattenersi da quel grasso, riverberante accordo finale di “Scattered”. Anche quando è senza meta, sceglie il suo veicolo.
Forse un indizio di Broken Arrow è dato da “Baby What You Want Me To Do”, registrata dal vivo a Princeton-by-the-Sea, California. Young e gli Horse lavorano su Jimmy Reed e il suo amore perplesso in mezzo a un sottofondo vociante. La voce di Young suona furtiva e disperata, i suoi assoli giocano con il blues. Ma la conversazione sale e scende, facendo attenzione ma non troppo alla musica. Il tuo cuore potrà anche spezzarsi, suggerisce Young, e non potresti non avere idea di dove andare. Ma il resto del mondo prosegue indifferente.
Jon Pareles, Spokesman Review 1996
Neil Young trascorse gli anni 80 con un tale mix musicale – un anno nel country, quello dopo del rockabilly, quello dopo nel sinth-pop – che la Geffen Record gli fece causa accusandolo di non essere se stesso. Chiedete a qualsiasi fan dei vecchi Crazy Horse e probabilmente darà ragione alla Geffen.
Con Freedom, nel 1989, Neil Young decise di ridiventare Neil Young, e da allora è stata una “gloria logora”. La ricetta non poteva essere più facile – vigorosa batteria e un po' di spazio per i suoi distorti e riverberati soli di chitarra.
I Crazy Horse sono sempre stati felici di questo. A parte la cover, il primo segno di speranza di Broken Arrow sta nella durata dei pezzi. I primi tre arrivano a 7:24, 9:49 e 8:36, rivelando senza dubbio cosa accadrà.
Di queste tre jams quella da 9:49 è la migliore, perché “Loose Change”
è qualcosa che non abbiamo ancora sentito. Con un raro incontro tra chitarre elettriche ed armonica, prosegue per oltre cinque minuti e a quel punto i Crazy Horse scivolano in un ritmo stile Bo Diddley perché Young cominci a picchiarci sopra.
L'ultima volta con i Crazy Horse è stata quando Neil era in lutto per Kurt Cobain, da cui Sleeps With Angels, pieno del suo songwriting più intimo, impregnato di morte e disperazione. Questa volta Neil ha più da dire con le sue dita che non con le parole, ciononostante dalla canzone numero quattro va al di là della chitarra. A rischio di diventare numerico – anche se il tempo di certe canzoni dice molto sulla musica di Young – non c'è niente di più lungo di 4:13 fino all'ultima traccia, una versione live tratta da un bootleg di “Baby What You Want Me To Do” di Jimmy Reed.
È un peccato che i brani più corti non aggiungano granché, con l'eccezione della sola “Music Arcade”, un'uscita sommessa che rimanda al nuovo approccio di Springsteen. In quello che suona come la sua dichiarazione più personale dell'intero disco, l'instancabile padrino del grunge canta “Ti sei mai perso? / Sei mai stato ritrovato? / Ti sei mai sentito solo / Alla fine della giornata?”
Forse Broken Arrow trarrebbe beneficio dal tasto “riproduzione casuale” del lettore cd. Mischierebbe le canzoni corte con quelle lunghe ottenendo un'andatura costante. Meglio ancora, Young doveva prendersi un altro po' di tempo al ranch per levigarlo con assemblare un disco più orecchiabile.
Broken Arrow sembra concepito tanto frettolosamente quanto Mirror Ball, il suo lungo weekend con i Pearl Jam. Anche la Reprise dovrebbe esigere tutto da Neil Young.
Scott Mervis, Pittsburgh Post-Gazette 1996
Con Freedom, nel 1989, Neil Young decise di ridiventare Neil Young, e da allora è stata una “gloria logora”. La ricetta non poteva essere più facile – vigorosa batteria e un po' di spazio per i suoi distorti e riverberati soli di chitarra.
I Crazy Horse sono sempre stati felici di questo. A parte la cover, il primo segno di speranza di Broken Arrow sta nella durata dei pezzi. I primi tre arrivano a 7:24, 9:49 e 8:36, rivelando senza dubbio cosa accadrà.
Di queste tre jams quella da 9:49 è la migliore, perché “Loose Change”
è qualcosa che non abbiamo ancora sentito. Con un raro incontro tra chitarre elettriche ed armonica, prosegue per oltre cinque minuti e a quel punto i Crazy Horse scivolano in un ritmo stile Bo Diddley perché Young cominci a picchiarci sopra.
L'ultima volta con i Crazy Horse è stata quando Neil era in lutto per Kurt Cobain, da cui Sleeps With Angels, pieno del suo songwriting più intimo, impregnato di morte e disperazione. Questa volta Neil ha più da dire con le sue dita che non con le parole, ciononostante dalla canzone numero quattro va al di là della chitarra. A rischio di diventare numerico – anche se il tempo di certe canzoni dice molto sulla musica di Young – non c'è niente di più lungo di 4:13 fino all'ultima traccia, una versione live tratta da un bootleg di “Baby What You Want Me To Do” di Jimmy Reed.
È un peccato che i brani più corti non aggiungano granché, con l'eccezione della sola “Music Arcade”, un'uscita sommessa che rimanda al nuovo approccio di Springsteen. In quello che suona come la sua dichiarazione più personale dell'intero disco, l'instancabile padrino del grunge canta “Ti sei mai perso? / Sei mai stato ritrovato? / Ti sei mai sentito solo / Alla fine della giornata?”
Forse Broken Arrow trarrebbe beneficio dal tasto “riproduzione casuale” del lettore cd. Mischierebbe le canzoni corte con quelle lunghe ottenendo un'andatura costante. Meglio ancora, Young doveva prendersi un altro po' di tempo al ranch per levigarlo con assemblare un disco più orecchiabile.
Broken Arrow sembra concepito tanto frettolosamente quanto Mirror Ball, il suo lungo weekend con i Pearl Jam. Anche la Reprise dovrebbe esigere tutto da Neil Young.
Scott Mervis, Pittsburgh Post-Gazette 1996