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Harvest Moon / Lucky Thirteen / Unplugged - The Rolling Stone archives

HARVEST MOON - 1992

Neil Young ha trascorso gli ultimi vent’anni svolazzando da uno stile all’altro come una falena in un negozio di lampadine. Per cui non ci si dovrebbe sorprendere se dopo aver esplorato i limiti estremi del guitar noise in un paio di album, Young abbia staccato la spina, ripreso a frustare la chitarra acustica e fatto girare la ruota della pedal steel per Harvest Moon. Il titolo si rifà a Harvest, l’album countreggiante di due decenni fa, e la musica si richiama a quell’aroma gentile. Harvest fu un dolce campione di vendite, una non caratterizzante fermata nella trappola dello stare “in mezzo alla strada” in un decennio di pubblicazione profondamente personali e qualche volta altamente eccentriche. Anche Harvest Moon suona fatto per pomeriggi trascorsi a ondeggiare pigramente sulla propria amaca. Ma accanto alla placida superficie, ci sono le rocciose cicatrici della mezza età, quando tenersi stretto e coccolare un amore è molto più difficile che trovarlo.
L’ultima volta che Young ha esplorato il soggeto in Ragged Glory nel 1990, aveva sollevato fuligginose nubi di feedback; Harvest Moon sembra la quiete dopo la tempesta, con un paesaggio musicale silenzioso, talvolta popolato da un’evanescente armonica, poche linee di basso e la rotta e triste voce tenorile di Young. La serie di canzoni in apertura traccia un sentiero dall’irrequietezza alla riaffermazione in cui il narratore senza radici di “Unknown legend” e quello pieno di dubbi di “From Hank to Hendrix” alla fine trovano contentezza sotto la Luna del Raccolto. Per mostrare quanto sia cambiata la sua prospettiva, Young usa un’orchestrazione simile a quella di “A man needs a maid” di Harvest in “Such a woman”, ma la prospettiva senza tempo della prima si trasforma solo in un omaggio. In “One of these days”, Young riguarda gli amici perduti (le cui iniziali sono forse C, S e N?), e anche nella banale “Old king” devia brevemente verso l’autocommiserazione e il triviale. Ma “War of man” e l’altissima “Natural beauty” vanno in collera con la rabbia paternalistica di uno che apprezza la fragilità di tutte le cose del pianeta, incluso il pianeta stesso. Gli Stray Gators e uno stormo di cantanti, tra cui Linda Ronstadt, Nicolette Larson e James Taylor, danno il giusto massaggio a queste melodie e all’interno di questa povertà d’impianto, la ricerca di un riparo dalla tempesta risuona come una palpitazione del cuore. 
Greg Kot, Rolling Stone 1992

[…] A quarantasette anni Young ha tirato indietro l’orologio di ben vent’anni con il nuovo album Harvest Moon. Ricatturando le ampie melodie di Harvest del 1972, ancora il suo disco più popolare, Harvest Moon rappresenta la prima apparizione di Young nei Top 20 da quasi dieci anni a questa parte. Ma Harvest Moon è più complicato di un semplice trip nostalgico o di un remake. Accanto alla pedal steel e ai toni soavi di Harvest, lo Young ventiseienne sembrava più raggrinzito rispetto alla sua effettiva età per il modo in cui affrontava per la prima volta l’invecchiare e la mortalità. “Col passare dei giorni perderemo la nostra presa?” domandava con la voce pizzicata e misteriosa nella canzone del titolo. In “Are you ready for the country?” cantava: “Mi sono imbattuto nel boia che disse: è ora di morire”. Perfino “Heart of gold”, l’unico singolo nostalgico di Young che sia stato primo in classifica, finiva ciascuna strofa con “E sto invecchiando”. Harvest Moon è il resoconto di un sopravvissuto, concentrato sulla perdita e il compromesso uniti al definitivo senso di trionfo devastante dall’essere felicemente padre e marito all’alba dei cinquanta. È pieno di tributi agrodolci ad amici perduti, cani morti e amori invecchiati. “Questo album parla di questo sentimento, di questa capacità di sopravvivere e continuare, di crescere e salire sempre più in alto, non per come ci si mantiene, cioè non solo sul sentirsi bene, sono ancora vivo a quarantacinque anni. Si può essere più vivi”. […]
Harvest Moon può sembrare l’ultima concessione ai vecchi fan di Young, ma lui lo vede come un’impresa valida, perfino sperimentale: “La gente mi ha chiesto di farlo per vent’anni e all’inizio non riuscivo a immaginarmelo”, dice. Ma quando ha scritto una manciata di nuove canzoni e ne ha finite alcune più vecchie l’estate scorsa in Colorado, quello che aveva in mente era il suono di Harvest. “Questo è quello che è successo quando ho scoperto cosa diavolo stavo facendo, ma è stato così solo perché le canzoni mi hanno spinto a farlo” dice. “È successo di nuovo, qualunque cosa fosse successa allora”. “You and me”, un quieto quadretto domestico che cita “Old man”, uno dei successi di Harvest, è secondo Young l’anello che lega i due album: “Quella canzone l’ho cominciata nel 1975, ma non l’ho mai finita. Nel 1976 Tim Drummond (il bassista degli Stray Gators) l’ha sentita e ha detto: devi finirla, è come la roba di Harvest, facciamola, e questa cosa mi ha spaventato e mi ha infastidito perché era come se qualcuno dicesse come sarebbe stata, prima ancora che la facessimo. Non voglio sentirmi come se dovessi fare le cose a chili”. Ma insieme a una manciata di nuove composizioni arrivò anche una nuova introduzione e un’ultima strofa e così il salto di vent’anni è stato completato. Esprime ancora ambivalenza nei confronti di Harvest: “Quando la gente comincia a chiederti di continuare a rifare sempre le stesse cose, significa che la tua strada comincia ad essere troppo vicino a qualcosa a cui non vuoi essere accanto. Non posso prendere posizione contro qualcosa che ho fatto; certamente aveva la profondità degli altri dischi, ma c’è voluto un po’ per arrivare a ciò. Non volevo proprio fare la cosa ovvia, perché non mi sembrava giusto”. […] In “Unknown legend”, il brano che apre Harvest Moon, Young canta: “Lo sai che non è facile/ devi tener duro” e il riferimento a perseverare attraverso le difficoltà, anche nei momenti più tragici, è evidente quando parla della sua vita familiare. 
Alan Light, Rolling Stone 1993


LUCKY THIRTEEN – 1993

Le canzoni, i remix e i live presenti su Lucky Thirteen derivano dal tentativo di Neil Young di affiliarsi, negli anni Ottanta, alla Geffen Records, un periodo che lo ha visto subire insulti più che celebrazioni. In effetti, questa transizione spiega il passionale ed eterno impegno di Young nei confronti dell’emozione al di là dello stile; sperimentazioni di genere da parte di chi si è opposto allo stile Eagles dei primi Settanta, per esempio, con una musica che somiglia a un country rock suonato dai Sonic Youth. Lucky Thirteen rimette in fila e riconsidera il lavoro imperfetto ma fondamentale degli Ottanta di un artista che recentemente ha dichiarato le sue atmosfere acustiche, i suoi picchi distorti, la sua combattuta techno e i suoi voli sinfonici, sono in fondo “la solita roba”. È una visione straordinaria di musicista rock decollato nei Sessanta – un rifiuto di moralizzare sui generi – e, con questa compilation, Young comincia a disporre il suo percorso artistico.
Compilato da Young stesso, Lucky Thirteen s concentra a dimostrare il valore eclettico più che raccogliere le hits del periodo Geffen; molte canzoni memorabili non ci sono. Invece, Young cerca di mostrare che gli impulsi emotivi dietro alla composizione, all’esecuzione e all’incisione rimangono costanti anche se il genere varia. A partire da uno spettacolare remix, risoluto ed echeggiante, di “Sample And Hold” (Trans, 1982), seguito dalla fusione di una bramosia romantica e un rigore tecnologico in “Transformer Man”, dallo stesso album, Young compie l’audace passaggio all’analogico timbro chitarra-e-armonica dell’inedito “Depression Blues”. Nel contesto, l’incisivo effetto di una sequenza narrativa è attraversato da dubbi e speranze che lamentano la mancanza di “magia” nel mondo di oggi e che non è possibile esagerare. Queste canzoni da sole mostrano il punto di vista di Young molto chiaramente: quando non sei sposato a un particolare stile, la musica può essere libera di svilupparsi totalmente, senza paura nei confronti di quella che Young chiama la “superficie”.
Nel resto di Lucky Thirteen Young vince ulteriormente la sua battaglia non con la teoria ma con la musica: in una grezza e inedita versione dal vivo di “Don’t Take Your Love Away From Me” estende le parole in modo somigliante a George Jones. In “Hippie Dream” e “Pressure” (Landing On Water, 1986) canta dolori di paese insieme a crude chitarre elettriche. Racconta la storia di “Mideast Vacation” (Life, 1987) stendendo quella patina metallica stile “Like A Hurricane” che potrebbe essere, alla fine, il contributo musicale migliore di Young.
Una lunga retrospettiva chiamata Neil Young Archives seguirà Lucky Thirteen. Nel frattempo, c’è questo straordinario album, che ci mostra le ragioni cruciali del perché Neil Young continui a perseverare e trionfare. 
James Hunter, Rolling Stones 1993

UNPLUGGED - 1993

Neil Young e Warren Zevon condividono una parentela talmente profonda che dovrebbe essere immediatamente ovvia. Nonostante stiano entrambi avvicinandosi ai cinquanta, rimangono insolentemente originali, lontani dal mainstream, amabili cinici. Dopo esser stati alla deriva (Young) o assenti (Zevon) per la maggior parte degli anni ottanta, entrambi stanno ora crogiolandosi in una rinascita di mezza età. Ma se volessero vendere nuove versioni di canzoni che i loro fan già conoscono, dovrebbero cercare di trascendere la moda crescente e vuota degli Unplugged. Perfino nello spoglio contesto della sua apparizione Unplugged, Young ha dato sprazzi di entrambe le sue personalità musicali: l’ardente folkettaro e lo spigoloso eretico. Il suo set è nettamente diviso a metà: le prime sette canzoni sono in completa solitudine e toccano il materiale più oscuro, come la pietra miliare dei Buffalo Springfield “Mr. Soul” e la desolata “Stringman”, una gemma inedita. Per le ultime sette canzoni è sostenuto dall’odierna incarnazione degli Stray Gators (sostenuti da Nils Lofgren) e si adagia su un folk più soffice, spaziando da “Helpless” a tre brani di Harvest Moon. Una seducente rivisitazione acustica di “Transformer man” e una versione all’organo a canne di “Like a hurricane” sono delle vere e proprie rivelazioni. In definitiva sembra un momento di riposo: la musica ha quell’aura rilassata di un amichevole canto folk accanto al fuoco, ma si intuisce che può sparare improvvisamente brandelli di gloria. Mentre Unplugged di Young è essenzialmente un altro episodio di “Neil, l’enigmatico folkettaro”, la raccolta di Zevon funge più da panoramica di una carriera. Entrambi gli album sono dei bei ricordi per i fan, ma sono l’equivalente sonico di una T-shirt souvenir, perfetta e molto carina, ma destinata a sbiadire.
Burl Gilyard, Rolling Stone 1993

Unplugged di Neil Young è più una conferma che una rivelazione: quando fa folk acustico non ha nulla da dimostrare, inoltre canzoni come “Helpless” e “Harvest Moon” risultano formidabilmente abbaglianti in qualunque versione vengano proposte. Fare “Like A Hurricane” all'organo è audace, mentre l'inedita “Stringman” è un regalo extra. Ma I piaceri di questo album stanno nelle cose familiari come la straordinaria voce di Young (in una registrazione cristallina) e la straziante sequenza dei suoi strambi successi.
Paul Evans, Rolling Stone 1993

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