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Peace Trail: recensioni internazionali


Neil Young è sempre stato un forte eco-guerriero, sbandierando le sue preoccupazioni in merito all'ambiente sin da After The Gold Rush nel 1970. Ma nella sua evoluzione in un rinomato statista del rock sembra aver messo sempre più a fuoco il suo obiettivo. The Monsanto Years del 2015 aveva una doppia natura: una supplica per un mondo sostenibile e un'amara accusa verso il gigante americano della biotecnologia menzionato nel titolo. Il tour, con i Promise of the Real come band di supporto, ha portato all'uscita di Earth la scorsa estate, un non-del-tutto live album dove le canzoni riguardanti una vita salubre e il cibo OGM sono mixate insieme a suoni del mondo naturale.
Peace Trail segue a grandi linee lo stesso tema, sebbene in modo musicalmente più convenzionale. Al posto della sua più recente band, Young ha scelto di reclutare il bassista Paul Bushnell e il veterano batterista Jim Keltner per un set di canzoni di stampo acustico e roots, registrate in pochi giorni allo studio di Rick Rubin a Malibu. Per via di questo approccio informale (tutto registrato in uno o due takes) Peace Trail è piacevolmente ruvido nei suoi bordi e gli arrangiamenti sommessi fanno da sfondo alle riflessioni musicali di Young.
"Indian Givers" è un ottimo esempio di dove si focalizza oggi la sua energia. Su una semplice impalcatura di chitarra e percussioni, Young offre supporto ai Nativi Americani che protestano al Dakota Access Pipeline. "C'è una battaglia che infuria sulla terra sacra", dichiara nei suoi tipici toni bollenti. "I nostri fratelli e sorelle devono prendere posizione". Come molte delle cose dell'album, la canzone è anche un più ampio commento sulle politiche governative e federali.
Uno dei momenti più rilevanti dell'album è "Terrorist Suicide Hang Gliders". E' una canzone che affronta l'istituzionalizzazione della xenofobia e della politica della paura, una forte critica all'intolleranza in un momento dove questa sembra essere diventata parte dell'agenda politica dell'America: "Penso di sapere chi incolpare / Sono tutte quelle persone con i nomi buffi / Che si trasferiscono nel nostro quartiere".
La gentilezza della musica è rotta all'improvviso, in modo strategico, in alcuni punti delle canzoni, dove Young sfoga la sua rabbia con scoppi rauchi di armonica o, più frequentemente, forti convulsioni di chitarra. E' ammirevole vederlo così infiammato contro la brutalità della polizia ("John Oaks") o lamentarsi di una nazione in crisi spirituale ("My Pledge"). E anche se non è l'album più musicalmente coinvolgende della sua cinquantennale carriera, è una prova evidente che Young ha ancora molto da dare.


Ancora prima di iniziare ad ascoltare queste canzoni - e prima di sentire l'auto-tune sbucare fuori - è evidente che l'album sfida le aspettative. L'anno scorso il pubblico è rimasto elettrizzato dalla profonda e crescente relazione tra Young e la sua attuale live band, i Promise of the Real [...]. Proprio quando siamo pronti a sentire come sarà il sound di un nuovo album, Young va in studio senza di loro. [...] A parte giusto un paio di eccezioni, Young si limita alla chitarra acustica, ma Peace Trail ha una resa molto più frastagliata e rugginosa di quanto possa sembrare dalla line-up. Lungo tutto l'album, registrato in quattro giorni, Brushnell fornisce quel perfetto genere di basso che si nota a stento. Le percussioni di Keltner sono un'altra cosa. Catturate per lo più tra il primo e il secondo take, più che tenere il tempo rispondono a ciò che Young sta facendo, improvvisando schemi dispari e disordinati. Il disco spesso diventa un duetto tra Young e Keltner. Su "Indian Givers", la prima traccia pubblicata, la batteria di Keltner è praticamente lo strumento principale.
Questa canzone, un trascinato inno di solidarietà verso i dimostranti Nativi Americani che tentano disperatamente di fermare l'espansione degli oleodotti Dakota Access nel loro territorio, fa di Peace Trail un nuovo protest-album di Young (e contiene un elemento distintivo del sound dell'album: l'armonica distorta e esplosiva di Young, portata quasi al punto di rottura).
Nonostante vengano alla luce le sue durature preoccupazioni ambientaliste - "John Oaks" è la ballata di un eco-attivista ucciso dalla polizia dal grilletto facile - questa non è una collezione di canzoni a tema unico come Monsanto. La trama è molto più vasta.
In "Terrorist Suicide Hang Gliders", una triste, minacciosa satira costruita intorno al ricordo della melodia di "Oh Yoko", Young adotta la prospettiva paranoica di uno xenofobo Trumpista. "Penso di sapere chi incolpare, è tutta quella gente dai nomi buffi, che si trasferisce nel nostro vicinato". In "Texas Rangers" invece osserva i rangers nei pickup color argento rastrellare le strade di confine, la violenza americana filmata con i telefonini. C'è poi un frammentario, infausto brano dal sapore jazz, il più strano da lui registrato dai giorni in cui passava il tempo con i Devo. E' in chiusura all'album ed è pazzoide, "My New Robot", che vede un inaspettato coro di tanti Neil e il vecchio vocoder usato su Trans.
Oltre alle osservazioni su come va il paese, ci sono comunque dichiarazioni più personali - più di una volta Young fa riferimento al suo daltonismo e agli acciacchi causati dall'invecchiare. Con un riff che ricorda "Down By The River" e una voce provata come su "On The Beach", "Can't Stop Working" è una semplice dichiarazione del fatto che Young, semmai, stia accelerando da quando è entrato nei Settanta. "Non posso smettere di lavorare... è un male per il corpo ma un bene per l'anima".
Un'analoga affermazione del suo destino futuro è inclusa nella stessa "Peace Trail": "Non credo che smetterò di incassare... Qualcosa di nuovo sta nascendo". La title-track in apertura è anche la canzone di spicco dell'album, dato che Young mette da parte l'acustica a favore della Old Black, strappando schegge infuocate. Qui c'è anche la prima apparizione dell'auto-tune, che poi ritorna più avanti, in un'altra canzone bellissima, "My Pledge".
Young ha adoperato esplicitamente l'auto-tune su Earth come metafora della modificazione genetica. Qui lo usa per uno scopo diverso, non satirico, più sperimentale. Ripetendo le parole di Young, la sua eterea voce in auto-tune diventa un malinconico eco di se stesso, il fantasma del futuro; uno dei momenti inspiegabilmente più commoventi è un errore dove la voce non umana canta una strofa - "Sapevo di averla vista da qualche parte" - prima che il vero Neil la canti. Dipanandosi dalle nebbie in cui navigava il Mayflower fino a oggi, la canzone è una fragile, tenace e sentita dichiarazione dell'intenzione di Young di mantenersi saldo in piedi mentre si sente "perduto nella nuova generazione, lasciato indietro", circondato da fanatici dello smart-phone "con le teste che guardano le mani".
E' una grande opera di Neil Young, una di quelle su cui si tornerà spesso. E' anche un paradosso. I media tradizionali hanno a lungo ignorato il dramma della protesta di cui parla "Indian Givers": "Vorrei che qualcuno condividesse la notizia", canta Young. Ma della loro battaglia hanno parlato gli attivisti online tramite i social, la gente con la testa che guarda le mani. Se non ci fossero contraddizioni, però, non sarebbe Neil Young.
Uncut  8 (su 10)


"Non posso smettere di lavorare perché adoro lavorare quando nient'altro sta succedendo", strilla Neil Young in una canzone di Peace Trail, e questo sembra essere il suo mantra più recente. [...] La prospettiva di Young di nuovo in studio per delle sessions prevalentemente acustiche ed essenziali, almeno sulla carta, pareva un respiro di aria fresca, musicalmente parlando. Non è così. Registrato in tutta velocità, le canzoni variano tra quelle ascoltabili e quelle che fanno trasalire, con la maggior parte che si situa a metà. Le cose iniziano promettendo bene con la title-track, il timbro ispirato e sentito della chitarra elettrica e Young che canta che "qualcosa di nuovo sta crescendo". L'armonica ultra-amplificata di Joe Yankee (un alias di Young) enfatizza come uno sparo "Can't Stop Working" (e appare su diverse altre spesso in modo improvviso) con l'effetto di un pugno in faccia sonoro, talvolta stupefacente e fantastico. Ma l'approccio inizia a perdere quota con l'arrivo della politica contemporanea in "Indian Givers" con strofe come "torniamo ai giorni dove il bene era bene" che suonano troppo semplicistiche. L'andamento blues di "Show Me" è molto meglio perché Young e la band vengono assorbiti da un confortevole mood rustico che viene loro naturale.
Nel momento in cui arriviamo a "Terrorist Suicide Hang Gliders", però, molto del senso della melodia se n'è andato, con Young che strimpella dissonante mentre la batteria di Jim Keltner tenta invano di trovare un groove e i colpi di armonica sono diventati irritanti, di troppo, messi lì quasi per distrarre dalla mancanza di coesione.
La lunga storia di "John Oaks", un uomo buono ucciso per essersi opposto al governo, è un cliché, lugubre e poco convincente, sebbene appassionato. Ma il canto simultaneo e il parlato ripetuto in "My Pledge" annoiano e distraggono presto, e la mancanza di melodie stimolanti in funzione di testi moralizzatori affondano tutte le buone motivazioni che spingono Young a convogliare la sua indignazione. Anche la chiusura di "My New Robot" fa cilecca, dove Young tenta di riprendere lo stile del vocoder usato su Trans per la voce, e menziona persino Amazon, portando qualsiasi fan a scuotere la testa.
Anche se concediamo un visto a Young per il fatto di creare nuova musica, e sebbene vi siano dei momenti validi in queste 10 canzoni (che non sfiorano i 40 minuti), qui si finisce per premere troppo spesso il tasto per passare alla traccia successiva, esasperati dall'ascoltare uno dei talenti nonché icone culturali di maggior spessore che si è assottigliato così tanto.
American Songwriter  5 (su 10)


Qualche volta Neil Young fa musica epocale; altre volte - come in questo suo secondo album del 2016, che segue l'amalgama folk-assurdista di Earth, uscito a giugno - Young fa musica a mo' di rassegna stampa.
Registrato in quattro giorni, Peace Trail contiene osservazioni sociali e politiche casuali trasformate in brani folk improvvisati insieme al batterista Jim Keltner e al bassista Paul Bushnell. Questa nuova manciata di brani di Young fa da commentario al Dakota Access Pipeline, ai poliziotti dal grilletto facile, agli abusi ambientali e agli zombie degli smart-phone.
Non c'è una "Ohio" nel mucchio, ma i piagnistei brizzolati di Young possono risultare teneri. La title-track, un'ode all'incertezza esistenziale musicalmente gloriosa, decorata con una deliziosa chitarra elettrica, evoca un "cielo arcobaleno teepee". Peace Trail contiene anche momenti personali. "Can't Stop Working" suggerisce cos'è che continua a guidare l'ossessiva determinazione di Young a comporre e registrate; il settantunenne, sopravvissuto a una lunga serie di problemi di salute nel corso della sua vita, canta di perseverare con la produttività: "Non posso smettere di lavorare / Perché adoro lavorare quando nient'altro sta succedendo". E coloro a cui interessano i sentimenti di Young riguardo il recente divorzio troveranno degli indizi, se non delle risposte, in "Glass Accident", nella quale lui si rifiuta di raccogliere i pezzi.
Quando arriva alla politica, Young esplode di indignazione ma non la mette bene a fuoco. Nelle blueseggianti "Indian Givers" e "Show Me" dedicate a Standing Rock, Young punta il dito ai molti soldi senza volto, mentre desidera qualcuno che "riporti indietro i giorni dove il bene era il bene", ed altri cliché. Nel lungo, casuale e discorsivo blues "John Oaks", un bevitore di chai, fumatore d'erba ed esperto di irrigazione viene ucciso per errore quando il suo camion ha un ritorno di fiamma. E "Texas Rangers" sembra confusamente sia elogiare che condannare i mitici eroi del western menzionati nel titolo, sopra uno dei riff di chitarra meno eleganti mai apparsi su un album di Neil Young.
Dopo un inizio che sembra una delle serenate d'amore acustiche tipiche di Young, la conclusiva "My New Robot" si trasforma all'improvviso in un ritorno a Trans (il suo esperimento di distopia elettronica del 1982, allora denigrato e oggi elogiato). L'arrivo di un pacco da Amazon - indovinate cosa c'è dentro - trasforma repetinamente la canzone in un episodio di Black Mirror, ma le istruzioni di programmazione e i riferimenti al daltonismo cantati al vocoder lasciano piuttosto perplessi. Un'altra canzone, "My Pledge", vede un vecchio gentleman lamentarsi maliconicamente della gente "che cammina con gli occhi che guardano lo schermo". Canzoni come queste sono un Neil in scarsa forma, ma sempre meglio avere Neil in scarsa forma che non averlo - e questo, considerando la sua produzione in questo secolo, non sembra un problema che avremo molto presto.
Rolling Stone  *** (su 5)


Neil Young è un uomo evidentemente fiero della sua etica di lavoro. "Non posso smettere di lavorare, perché adoro lavorare quando nient'altro sta succedendo", canta a un certo punto durante Peace Trail [...].
Peace Trail è un album ispirato almeno in parte alle proteste per l'oleodotto nella riserva di Standing Rock, registrato in quattro giorni. [...] Contiene una giusta rabbia e un giusto desiderio di importanza abbinati a canzoni così esili che a stento paiono esserci: bozze di ritmi acustici a due accordi, deboli riff blues, cose che sembrano idee a metà salvate su nastro per poter essere lavorate più tardi in qualcosa di dignitoso, e ostinate riproposizioni di vecchio materiale ("Glass Accident" è "Sail Away" di Rust Never Sleeps con testo diverso e una melodia leggermente variata, in apparenza per renderla meno memorabile).
I fan del mitico Young testardo potrebbero trovare certo piacere perverso in "My New Robot", che ritorna agli esperimenti con il vocoder di Trans del 1982, dato lo sgomento che causarono in prima istanza, o nel modo in cui "Texas Rangers" sembra suonata da un batterista privo di collante, sebbene Jim Keltner sia un leggendario session-man. Ma la novità finisce alla svelta, in particolare in quest'ultimo brano, così imbarazzante che non sapere dove guardare mentre la si ascolta. Almeno una recensione l'ha descritta come "dal sapore jazz", il che vi dice tutto sull'infinita disponibilità dei fan più accaniti di Young nel fornirgli il beneficio del dubbio, più di quanto non faccia la canzone stessa, basata su un riff che ricorda il motivetto per bambini "This Old Man" e sembra jazz solo nel senso che sembra che Young la stia creando mentre la suona.
L'esilità della musica porta a concentrarsi sui testi, che magari potrebbero arrivare al punto, invece si rivelano un'arma a doppio taglio. "Show Me" ambisce a essere concisa e affilata quanto "Ohio" - entrambe si esauriscono in dieci versi - ma in qualche modo finisce per suonare lanuginosa, una massa di banalità confuse. "John Oaks" è un blues parlato di otto minuti che sembra infinito molto più della mezz'ora di jam e feedback che ha annoiato alcuni l'ultima volta che i Crazy Horse sono venuti in città. E' ovvio viste le premesse che l'eroe del titolo - "un ragazzo dolce... che beve chai e fuma erba" - farà una brutta fine per colpa della polizia la quale agisce all'ombra delle multinazionali. Già a metà canzone ci si trova a sperare che la polizia e la multinazionale nell'ombra si diano una mossa e lo pestino, il che non è certo l'obiettivo voluto da Young. Intanto, lo stizzoso ritornello di "Indian Givers" - "Vorrei che qualcuno condividesse la notizia" - urta sia quei post sui social che dicono che i media tradizionali non vogliono farci conoscere qualcosa che è stato sui media tradizionali in modo evidente quanto uno sfogo cutaneo, sia la convinzione apparentemente irremovibile di Young di essere l'unico musicista che oggi scrive canzoni di protesta: una teoria già ridicola nel 2006, anno di Living With War - album uscito 18 mesi dopo di American Idiot dei Green Day, disco da 15 milioni di copie - e che lo è ancora di più oggi, in un'epoca dove Beyoncé rende omaggio alle Pantere Nere al Superbowl e l'hip-hop è più esplicitamente politico di quanto non sia mai stato.
Detto questo, ci sono sporadici momenti in cui Peace Trail prende vita. Le frequenti esplosioni dell'armonica distorta che colpiscono in faccia sono adeguatamente disturbanti, e la title-track è veramente grandiosa: una canzone che ammette la confusione di Young riguardo gli eventi attuali, e ha un impatto infinitamente più grande e sentito di tutto il resto degli slogan e delle intimidazioni, non da ultimo perché si fa vanto del solitario e indelebile timbro dell'album.
Nel resto del disco è difficile fuggire dalla sensazione che questo lodevole desiderio di fare musica a commento di eventi che stanno accadendo venga schiacciato dal fatto che le canzoni non siano sufficientemente decenti perché l'esercizio riesca. Così com'è, Peace Trail è solo un altro album che si aggiunge alla fila e dimostra che la produzione attuale di Neil Young è più erratica e confusa di quanto lo sia stata sin dalla metà degli anni 80, quando venne accusato di fare album per infastidire di proposito la sua casa discografica. In effetti, Peace Trail non fa pensare a "Ohio" né ai vituperati album degli anni 80, ma piuttosto a una cosa che lui disse a proposito di uno di essi, Everybody's Rockin', un disastroso excursus nel rockabilly anni 50 realizzato, secondo quanto si dice, in due ore. "Cosa sono? Stupido? La gente pensa davvero che lo abbia pubblicato pensando che fosse la cosa più bella che abbia registrato? Ovviamente sono consapevole che non lo è". Viene da chiedersi se non provi lo stesso riguardo a ciò che offre qui, e se fare esattamente ciò che vuole sia oggi più importante della qualità di ciò che fa.
The Guardian  4 (su 10)


Altre recensioni in breve (da Metacritic.com)

Consequence of Sound  6.7 (su 10)
"L'inclinazione di Young a produrre sul momento e la sua profilicità danno spesso origine a dischi che sono dei miscugli, e Peace Trail non fa eccezione. Ma se l'esecuzione non centra il bersaglio, l'intenzione dietro a queste 10 canzoni è fortemente ispirata."

Pitchfork  6,7 (su 10)
"Sebbene le canzoni di Peace Trail siano inequivocabilmente tempestive e talvolta toccanti, il songwriting di Young come risposta immediata agli eventi spesso lo penalizza."

Mojo  6 (su 10)
"Con meno fretta di venire al dunque e più tempo speso nel renderlo ascoltabile, il messaggio espresso avrebbe avuto l'occasione di raggiungere molte più orecchie."

Boston Globe  5 (su 10)
"Le canzoni sono talmente ridotte all'osso - e talvolta dispersive - che sembrano raffazzonate."

Allmusic  4 (su 10)
"Uno dei dischi più gratuitamente strani di Neil Young, un insieme di decisioni incredibilmente sbagliate."

The Independent  4 (su 10)
"Con Peace Trail, Neil Young cade di nuovo nell'autoparodia con una serie di brani pacifisti frammentari, troppo semplicistici e paternalistici per essere presi sul serio."

Exclaim  3 (su 10)
"Che casino... L'album suona più come una session di prove che non come un disco finito."

Now Magazine (2 su 10)
"Qua e là c'è il barlume di alcune idee che avrebbero potuto creare un album molto più forte se esplorate in modo più profondo... Ma le canzoni hanno così poca anima e sono così telegrafiche che questi momenti sono troppo pochi e veloci."


Altre recensioni (si ringrazia Luca "Borderwolf" Vitali)

The Daily Californian  9 (su 10)
Cecildaily  9 (su 10)
Newsday  8.5 (su 10)
Renowned for Sound  8 (su 10)
The Music  8 (su 10)
The Times  8 (su 10)
Spiegel  7.9 (su 10)
Platten Test  7 (su 10)
Sun  7 (su 10)
Humo  7 (su 10)
Telerama  6 (su 10)
The Fire Note  6 (su 10)
USA Today  5 (su 10)
Sonic Magazine  5 (su 10)
The Arts Desk  4 (su 10)
The Irish Times  4 (su 10)

Traduzioni delle recensioni di MPB (Rockinfreeworld)




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