Neil Young: Peace Trail (Reprise Records, 2016)
Peace Trail si presenta come un altro tassello nella serie degli instant-protest-records realizzati da Neil Young nell'ultima dozzina d'anni, diventando il n°5 in quella che ora possiamo definire la "pentalogia del Messaggio" (Greendale, Living With War, Fork In The Road, The Monsanto Years e ora Peace Trail).
“Siamo più interessati in ciò che diciamo che non in come lo diciamo”, dice Young sul nuovo album, e questo attualmente è il suo modo di pensare e di lavorare. Non stupisce quindi che Peace Trail sia un disco grezzo, essenziale: il minimalismo degli arrangiamenti è voluto, ci sono soltanto Keltner alla batteria e Bushnell al basso, oltre a Young a chitarra, armonica e voce. Non stupisce, visti i precedenti e le attuali posizioni prese da Young pubblicamente, che l'attivismo pro-ambiente e i commenti all'attualità socio-politica americana e globale siano la tematica centrale delle canzoni. E non stupisce, dunque, che Peace Trail sia un album fatto di alti e bassi, di momenti eccellenti e di cadute, di punti forti e punti deboli.
L'eccellenza dell'album sta nel non essere monotematico (o mono-accusatore) come il precedente Monsanto Years. Anziché puntare il dito contro una cosa soltanto, qui Young spazia tra l'attualità e il sentimento personale, con almeno tre canzoni (“Peace Trail”, “Can't Stop Workin'” e “Glass Accident”) in cui si concentra del tutto su se stesso. In altre parti queste osservazioni vengono accostate a passaggi che, invece, suonano come titoli o testi di giornale (purtroppo era già capitato in Monsanto Years). Sulla title-track di apertura vale la pena di soffermarsi: se c'è una canzone che vale l'album è proprio “Peace Trail”, brano dalla melodia accattivante nella sua semplicità degno del miglior Neil Young semiacustico. L'arrangiamento accosta la jam di studio alla sovraincisione curata, esaltando così le potenzialità delle sessions volute da Young per l'album. Il problema, però, è che di fatto questa è l'unica canzone a risultare perfetta e raggiante: tutte le altre non raggiungono questa eccellenza, trasformando “Peace Trail” nell'assaggio di un piatto buonissimo che ci viene subito portato via, o quasi.
La prima scelta di Young per registrare l'album furono i Promise Of The Real, la band con cui è stato in tour negli ultimi due anni e ha prodotto The Monsanto Years e Earth, ma purtorppo i ragazzi erano in tour per conto proprio, così Neil ha chiamato Keltner e Bushnell. Che non sono certo gli ultimi arrivati, tuttavia se proviamo a confrontare le canzoni dell'album con le loro versioni dal vivo, apparse alla fine dello scorso tour americano con i Promise, abbiamo l'impressione che se Peace Trail fosse stato inciso con i Promise, pur mantenendo la sua natura acustica, avrebbe avuto una o due marce in più. Anche in Monsanto Years il sound era uno dei punti forti. Ancora una volta (sebbene questa volta non sia del tutto colpa sua) appena Neil trova un nuovo e promettente sound, trova le giuste dosi per mescolare gli ingredienti, raggiuge insomma quell'alchimia così difficile al di fuori delle sue più storiche formazioni, butta via tutto e ricomincia daccapo con qualcosa di diverso. E a noi resta l'acquolina in bocca e ci viene sempre in mente quella canzone che faceva "It Might Have Been"...
“Siamo più interessati in ciò che diciamo che non in come lo diciamo”, dice Young sul nuovo album, e questo attualmente è il suo modo di pensare e di lavorare. Non stupisce quindi che Peace Trail sia un disco grezzo, essenziale: il minimalismo degli arrangiamenti è voluto, ci sono soltanto Keltner alla batteria e Bushnell al basso, oltre a Young a chitarra, armonica e voce. Non stupisce, visti i precedenti e le attuali posizioni prese da Young pubblicamente, che l'attivismo pro-ambiente e i commenti all'attualità socio-politica americana e globale siano la tematica centrale delle canzoni. E non stupisce, dunque, che Peace Trail sia un album fatto di alti e bassi, di momenti eccellenti e di cadute, di punti forti e punti deboli.
L'eccellenza dell'album sta nel non essere monotematico (o mono-accusatore) come il precedente Monsanto Years. Anziché puntare il dito contro una cosa soltanto, qui Young spazia tra l'attualità e il sentimento personale, con almeno tre canzoni (“Peace Trail”, “Can't Stop Workin'” e “Glass Accident”) in cui si concentra del tutto su se stesso. In altre parti queste osservazioni vengono accostate a passaggi che, invece, suonano come titoli o testi di giornale (purtroppo era già capitato in Monsanto Years). Sulla title-track di apertura vale la pena di soffermarsi: se c'è una canzone che vale l'album è proprio “Peace Trail”, brano dalla melodia accattivante nella sua semplicità degno del miglior Neil Young semiacustico. L'arrangiamento accosta la jam di studio alla sovraincisione curata, esaltando così le potenzialità delle sessions volute da Young per l'album. Il problema, però, è che di fatto questa è l'unica canzone a risultare perfetta e raggiante: tutte le altre non raggiungono questa eccellenza, trasformando “Peace Trail” nell'assaggio di un piatto buonissimo che ci viene subito portato via, o quasi.
La prima scelta di Young per registrare l'album furono i Promise Of The Real, la band con cui è stato in tour negli ultimi due anni e ha prodotto The Monsanto Years e Earth, ma purtorppo i ragazzi erano in tour per conto proprio, così Neil ha chiamato Keltner e Bushnell. Che non sono certo gli ultimi arrivati, tuttavia se proviamo a confrontare le canzoni dell'album con le loro versioni dal vivo, apparse alla fine dello scorso tour americano con i Promise, abbiamo l'impressione che se Peace Trail fosse stato inciso con i Promise, pur mantenendo la sua natura acustica, avrebbe avuto una o due marce in più. Anche in Monsanto Years il sound era uno dei punti forti. Ancora una volta (sebbene questa volta non sia del tutto colpa sua) appena Neil trova un nuovo e promettente sound, trova le giuste dosi per mescolare gli ingredienti, raggiuge insomma quell'alchimia così difficile al di fuori delle sue più storiche formazioni, butta via tutto e ricomincia daccapo con qualcosa di diverso. E a noi resta l'acquolina in bocca e ci viene sempre in mente quella canzone che faceva "It Might Have Been"...
Musica e testi sono alla base del forte contrasto di opinioni e recensioni che sta apparendo per Peace Trail. Da diversi anni i dischi di Young dividono pubblico e critica, ma con questo (insieme forse a Fork In The Road) assistiamo a una spaccatura davvero marcata tra chi disdegna l'album (fioccando dei 2 e dei 3 e sostenendo che Young non ha più nulla da dire se non brontolare come un vecchio che guarda passare i giovani per strada) e chi lo elogia (non mancano gli 8 di chi sostiene, al contrario, che Young ha ancora molto da dire con il suo commentario a metà tra la sfera politica e quella personale). All'unanimità “Peace Trail” viene considerata una grande canzone, e sempre all'unanimità altre canzoni sono considerate troppo esili e poco convincenti (“Texas Rangers, “My New Robot”). Il resto oscilla a metà.
“Terrorist Suicide Hang Gliders”, per esempio, ha la forma di una ballad semplice e lineare, la cui dolcezza è rotta dall'armonica distorta che caratterizza l'album (era apparsa anche in Greendale), mentre il testo assume il provocatorio punto di vista dell'intolleranza religiosa dilagante nella odierna America a causa del terrorismo. Il blues “Can't Stop Workin'” è un altro momento semplice ed efficace per la sua natura “roots” e senza ghirigori. Così come “Indian Givers”, riuscito blues dove il testo, pur essendo interamente dedicato a un tema politico (la protesta a Standing Rock contro l'installazione di un oleodotto sul territorio dei Nativi Americani), non presenta quelle forzature o brutture poco musicali che emergevano qua e là in Fork In The Road e The Monsanto Years. “Glass Accident” è un'altra ballad malinconica di pochi accordi incentrata questa volta sulla fine del matrimonio con Pegi, che qui, metaforicamente, è il vetro infranto del titolo.
“My Pledge” passa dall'approdo dei coloni inglesi sulle coste americane nel 600 ai giovani che oggi camminano perennemente chini sullo smartphone. Young utilizza (qui e in altri punti del disco) l'auto-tune per sdoppiare la propria voce in risposte o echi che, come ha sottolineato un recensore, sembrano essere il suo “fantasma del futuro”. La resa di “My Pledge” è un po' confusa come diverse altre cose dell'album, ma comunque interessante. Lo stesso si può dire di “Show Me”, che pare non sviluppata appieno e indecisa anche da un punto di vista esecutivo, pur avendo un riff interessante. Magari se fosse stata registrata al take 3 o 4, anziché al primo...
“Terrorist Suicide Hang Gliders”, per esempio, ha la forma di una ballad semplice e lineare, la cui dolcezza è rotta dall'armonica distorta che caratterizza l'album (era apparsa anche in Greendale), mentre il testo assume il provocatorio punto di vista dell'intolleranza religiosa dilagante nella odierna America a causa del terrorismo. Il blues “Can't Stop Workin'” è un altro momento semplice ed efficace per la sua natura “roots” e senza ghirigori. Così come “Indian Givers”, riuscito blues dove il testo, pur essendo interamente dedicato a un tema politico (la protesta a Standing Rock contro l'installazione di un oleodotto sul territorio dei Nativi Americani), non presenta quelle forzature o brutture poco musicali che emergevano qua e là in Fork In The Road e The Monsanto Years. “Glass Accident” è un'altra ballad malinconica di pochi accordi incentrata questa volta sulla fine del matrimonio con Pegi, che qui, metaforicamente, è il vetro infranto del titolo.
“My Pledge” passa dall'approdo dei coloni inglesi sulle coste americane nel 600 ai giovani che oggi camminano perennemente chini sullo smartphone. Young utilizza (qui e in altri punti del disco) l'auto-tune per sdoppiare la propria voce in risposte o echi che, come ha sottolineato un recensore, sembrano essere il suo “fantasma del futuro”. La resa di “My Pledge” è un po' confusa come diverse altre cose dell'album, ma comunque interessante. Lo stesso si può dire di “Show Me”, che pare non sviluppata appieno e indecisa anche da un punto di vista esecutivo, pur avendo un riff interessante. Magari se fosse stata registrata al take 3 o 4, anziché al primo...
Probabilmente è vero che i momenti più confusi e meno riusciti sono “Texas Rangers”, già a partire dalla melodia ma anche da un testo che pare non centrare il punto, “John Oaks”, una lunga ma banale storia di violenza da parte della polizia sui protestanti di una manifestazione, e la conclusiva “My New Robot”. In quest'ultima le premesse erano ottime: su una melodia dapprima dolce Young introduce bruscamente non solo delle voci elettroniche ma anche il buon vecchio vocoder protagonista di Trans. Peccato che, in soli 2 minuti e mezzo e con versi che sembrano provenire da idee diverse ed esser stati fusi quasi a caso, il bersaglio viene solo sfiorato. Fosse stata concepita meglio, sarebbe stata una nuova “Sample And Hold”.
Nel complesso il problema più grande di Peace Trail è che non raggiunge le potenzialità che avrebbe avuto e le tracce oscillano tra l'alto e il basso, sia per forma che per contenuto. Un pizzico di cura in più, almeno nella forma, aiuterebbe a soddisfare più palati e vendere qualche copia in più... ma la direzione presa da Young è questa e non cambierà. E' così che va Neil Young da sempre, non è una novità, ma negli ultimi anni pare che stia passando dal semplice concetto di spontaneità a uno stream of consciousness incensurato, senza filtri, motivato da un'urgenza personale di "fare il proprio dovere" (come canta in "My Pledge") negli anni che gli restano. Il concetto di scrittura senza filtri, senza controllo e ri-scrittura, non è nuovo e non deve lasciare basiti. Nella letteratura anglosassone, Joyce e soprattutto la Beat Generation (Jack Kerouac, William Burroughs) sono esempi eclatanti dell'uso di questo metodo con risultati notevoli. Il cut-up di Burroughs è stato portato anche nella musica, in particolare da Patti Smith. Questa tradizione ci aiuta a capire e accettare il fatto che l'evoluzione espressiva di Neil Young possa averlo condotto, consapevolmente o meno, nell'ultima fase della carriera, all'adozione anche parziale di questo metodo. Anche la sua autobiografia Waging Heavy Peace sembra suggerirlo. Sebbene fedele a uno stile di scrittura convenzionale, si può dire che Young oggi più che mai abbia un "ordine delle cose" del tutto suo, deciso e motivato solamente "dall'interno". I risultati che ottiene sono suscettibili alle oscillazioni che il suo metodo comporta, e lui ne è perfettamente consapevole. Un recensore ha sollevato il caso di Everybody's Rockin' e della risposta di Young alle accuse a lui mosse a quei tempi: "Cosa sono? Stupido? La gente pensa davvero che lo abbia pubblicato pensando che fosse la cosa più bella che abbia registrato? Ovviamente sono consapevole che non lo è". Se così era già negli anni 80, perché non dovrebbe essere così oggi?
Nel complesso il problema più grande di Peace Trail è che non raggiunge le potenzialità che avrebbe avuto e le tracce oscillano tra l'alto e il basso, sia per forma che per contenuto. Un pizzico di cura in più, almeno nella forma, aiuterebbe a soddisfare più palati e vendere qualche copia in più... ma la direzione presa da Young è questa e non cambierà. E' così che va Neil Young da sempre, non è una novità, ma negli ultimi anni pare che stia passando dal semplice concetto di spontaneità a uno stream of consciousness incensurato, senza filtri, motivato da un'urgenza personale di "fare il proprio dovere" (come canta in "My Pledge") negli anni che gli restano. Il concetto di scrittura senza filtri, senza controllo e ri-scrittura, non è nuovo e non deve lasciare basiti. Nella letteratura anglosassone, Joyce e soprattutto la Beat Generation (Jack Kerouac, William Burroughs) sono esempi eclatanti dell'uso di questo metodo con risultati notevoli. Il cut-up di Burroughs è stato portato anche nella musica, in particolare da Patti Smith. Questa tradizione ci aiuta a capire e accettare il fatto che l'evoluzione espressiva di Neil Young possa averlo condotto, consapevolmente o meno, nell'ultima fase della carriera, all'adozione anche parziale di questo metodo. Anche la sua autobiografia Waging Heavy Peace sembra suggerirlo. Sebbene fedele a uno stile di scrittura convenzionale, si può dire che Young oggi più che mai abbia un "ordine delle cose" del tutto suo, deciso e motivato solamente "dall'interno". I risultati che ottiene sono suscettibili alle oscillazioni che il suo metodo comporta, e lui ne è perfettamente consapevole. Un recensore ha sollevato il caso di Everybody's Rockin' e della risposta di Young alle accuse a lui mosse a quei tempi: "Cosa sono? Stupido? La gente pensa davvero che lo abbia pubblicato pensando che fosse la cosa più bella che abbia registrato? Ovviamente sono consapevole che non lo è". Se così era già negli anni 80, perché non dovrebbe essere così oggi?
Peace Trail è indubbiamente rappresentativo di un'idea e di una scelta di fare musica, di adempiere al proprio ruolo di artista, che resta coerente, ispirata, personale, a suo modo originale. Come si dice, bene o male che se ne parli, l'importante è che se ne parli. D'altra parte è proprio grazie a questo approccio che nella discografia di Young possiamo trovare album come Time Fades Away, Trans o Greendale e riascoltarli oggi con orecchie diverse rispetto alla prima volta.
MPB, Rockinfreeworld
Peace Trail
Neil Young (Reprise Records, 2016)
Peace Trail
Can't Stop Workin'
Indian Givers
Show Me
Texas Rangers
Terrorist Suicide Hang Gliders
John Oaks
My Pledge
Glass Accident
My New Robot
Can't Stop Workin'
Indian Givers
Show Me
Texas Rangers
Terrorist Suicide Hang Gliders
John Oaks
My Pledge
Glass Accident
My New Robot
Guitar - Neil Young
Drums - Jim Kelter
Bass - Paul Bushnell
Vocal Group on "My New Robot" Young, Bushnell & Micah Nelson
Drums - Jim Kelter
Bass - Paul Bushnell
Vocal Group on "My New Robot" Young, Bushnell & Micah Nelson
Produced by Neil Young & John Hanlon
Recorded at Shangrila Zuma
Direction - Elliot Roberts
Mixed by John Hanlon
Recorded at Shangrila Zuma
Direction - Elliot Roberts
Mixed by John Hanlon