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Neil Young + Promise Of The Real: The Monsanto Years (Reprise, 2015)


1. A New Day For Love
2. Wolf Moon
3. People Want To Hear About Love
4. Big Box
5. A Rock Star Bucks A Coffee Shop
6. Workin’ Man
7. Rules Of Change
8. Monsanto Years
9. If I Don’t Know


Vent'anni fa, nel 1995, Neil Young arruolava i Pearl Jam per una veloce seduta in studio che si è trasformata in Mirror Ball, disco intenso nel sound, visivo nei testi, in parte acclamato e in parte sottovalutato, di certo qualcosa di potente e insolito che ha lasciato il segno.
Oggi, nel 2015, Young ripete la stessa esperienza con i Promise Of The Real, la band di Lukas e Micah Nelson (figli del noto Willie), una delle innumerevoli giovani band (ma nulla a che vedere con il grunge, qui) per cui Neil Young è stato un mentore o anche di più. Dopo averli incontrati al Farm Aid 2014 per un'improvvisata sul palco, Neil li ingaggia come backing band per una serie di nuove protest-songs. In gennaio vanno in studio in California (il prestigioso Teatro di proprietà di Daniel Lanois) e per marzo hanno in mano The Monsanto Years, costituito da nove tracce. Poi, Young e il gruppo appaiono a sorpresa dal vivo in due occasioni, in primavera, anticipando il nuovo materiale a un pubblico ristretto.
Di cosa si tratta? Negli ultimi due anni circa, abbiamo visto Neil vagare tra diversi interessi personali e progetti musicali disparati, ma già con il tour europeo 2014 dei Crazy Horse (le cui setlist che sono state un vero e proprio inno alla Terra e all'amore) la sua concentrazione si focalizza su agricoltura sostenibile, alimenti e tessuti biologici, depauperamento delle risorse naturali, e via dicendo. (Non che sia una novità: nel 2013 era contro l'estrazione petrolifera in Canada, per non parlare del progetto LincVolt in corso da anni.) Una questione in particolare gli viene a cuore: il predominio incontrastato del gigante agro-chimico Monsanto, multinazionale che comprende, tra i tanti, il marchio Starbucks (sorta di McDonald della colazione e dei dolciumi, a cui in Italia siamo stati refrattari, buon per noi, una volta tanto). Ci sono infinite diatribe sulle politiche agro-chimiche adottate da Monsanto e sull'uso legalizzato degli OGM (Organismi Geneticamente Modificati).
Young, padrino del Farm Aid da tempo immemore, si schiera con gli agricoltori e, in generale, con tutti coloro che per via diretta o indiretta subiscono i soprusi da parte delle corporazioni americane. La faccenda riguarda in termini generali l'America intera: è opinione diffusa che la democrazia venga controllata attraverso le campagne elettorali dalle multinazionali paganti, che piegano le leggi secondo il proprio volere. Young scrive e registra con i Promise Of The Real canzoni che parlano di questi temi.
The Monsanto Years – come lo è stato Mirror Ball – ha il pregio musicale di essere una boccata d'aria fresca, una sostenuta opera rock, densa, un muro sonoro che impatta anche meglio degli ultimi Crazy Horse, mai troppo caotico, sempre preciso e con ottimo dinamismo. Guardando la produzione musicale, è il miglior album di Young da dieci o vent'anni, almeno sul lato elettrico. Ma se il pregio fosse tutto qui, sarebbe solo un'occasione mancata. Neil non spreca i Promise Of The Real, li mette al servizio di canzoni che sono, per la stragrande maggioranza, ottime. Certo, abbastanza semplici e dritte (ma ci sono eccezioni), e niente di nuovo da un punto di vista compositivo: è un Neil Young che si riconosce, con tutti i suoi trademark. La regolarità dei brani è piacevolmente rotta da “Rules Of Change” e “If I Don't Know”, che non si può dire somiglino a nient'altro del canadese, dotate di densi giri in minore che li fa somigliare a brani psichedelici e dark di metà anni 70. Anche “Monsanto Years” e “Big Box”, più classiche in quanto simil-cavalcate crazyhorsiane, sono condotte con perizia dalla band che, sicuramente più degli Horse, sa fornire variazioni e dinamismo ai giri che si ripetono come mantra. L'uso di effetti sonori (come la chitarra elettrica suonata con l'archetto) e percussioni danno uno spessore e una stratificazione sonora che non si sentivano da Sleeps With Angels, nientemeno. L'impatto da rock anni 70 sostiene ottimamente anche “A New Day For Love”, “People Want To Hear About Love”, “A Star Bucks A Coffee Shop” e “Workin' Man”, sebbene quest'ultima è la sola a dare l'impressione di tappabuco (ricorda “Get Back To The Country” di cui è una copia meno bella). “Wolf Moon” è l'unico arrangiamento acustico: la pedal steel, le percussioni e lo charango forniscono un'atmosfera onirica e sospesa, rendendolo un momento molto migliore di quanto ci si aspetti dal giro principale di chitarra.
Fatti gli elogi, passiamo ora agli aspetti meno convincenti, quelli su cui fanno leva i detrattori dell'album che, come per tutti gli album younghiani dagli anni 2000, più o meno pareggiano i sostenitori dividendo a metà le opinioni. A nostro avviso The Monsanto Years è arrivato a tanto così dallo sfiorare la perfezione di un album dal vivo (è registrato in presa diretta, un po' come Time Fades Away ma senza pubblico). La cura del prodotto finale è a un pelo dall'essere la più amorevole, al di sopra di tutti i precedenti lavori fino a Prairie Wind (2005), e immensamente al di sopra degli altri album che costituiscono la quadrilogia del Messaggio (su questa definizione ci torniamo dopo), ovvero Greendale (2003, Crazy Horse azzoppati che tirano giù punti alle belle canzoni narrative), Living With War (2006, realizzato con una fretta indiavolata e mixaggio sballato), Fork In The Road (2009, meglio, ma molti direbbero che il suono qui è l'ultimo dei problemi). Il pelo mancante alla perfezione, ahinoi, è proprio la voce di Neil, che si ostina a cantare a ottave altissime e, questa volta, semplicemente non ce la fa. In certi punti, la voce è talmente rotta, imprecisa, fragile, che quasi sparisce soverchiata dalla musica (e questo probabilmente è un bene). Tutt'altra cosa rispetto alle stonature “artistiche” di Time Fades Away e Tonight's The Night: qui non è la tequila, c'è solo uno sforzo fisico oltre le proprie capacità, forse il non voler ammettere di essere quasi alla soglia dei 70. Brutto a dirsi, perché la fragilità del timbro di Neil è stata sempre, anche nel periodo recente, un tratto peculiare dell'artista in grado di sollevare le canzoni e i dischi. A tratti qui diviene invece un punto debole, specialmente se ricordiamo alcune gemme sorprendenti, cantate in basso, quasi parlate o sussurrate: “Without Rings” (Silver & Gold), “Music Arcade” (Broken Arrow), “Bandit” (Greendale). Perciò, se anziché strilli stentati Neil avesse optato per un suadente tono basso, con tutta la profondità di cui è capace la sua voce, The Monsanto Years sarebbe stato perfetto. 
I testi sono l'aspetto più criticato nelle recensioni che stanno popolando i media. Non tanto perché si dividono gli inclini e i non inclini nel sostenere la posizione di Young (la diatriba su OGM e multinazionali non avrà mai fine e non sarà certo influenzata dall'esistenza di questo album), quanto perché le strofe di The Monsanto Years, in gran parte, sono didascaliche come un titolo di giornale o il commento di un blog, sono dichiarazioni di accusa e descrizioni da pagina di cronaca. Ciò significa che Neil Young, qui, non è il poeta sottile e intimo di Harvest Moon o Sleeps With Angels, non usa nemmeno la narrazione come ha fatto in Greendale: vuole semplicemente esprimere, nel modo più esplicito possibile, il suo punto di vista e di arrivare al cuore delle questioni. Di fatto ci ha sempre abituati a questo tipo di “prosa in musica” che ha una matrice dylaniana: basti pensare a “Ordinary People” e “Crime In The City”, canzoni di fine anni 80 molto quotate tra gli appassionati. Infatti coglie in parte nel segno, con “Big Box” per esempio, dove il mix tra musica e parole, per quanto “politiche” esse siano, funziona alla grande. Diciamolo una volta per tutte: “Too big to fail, too rich for jail” riassume piuttosto bene, e non senza ironia, una gamma di situazioni socio-politiche globali, riconoscibili da chiunque in qualunque paese della Terra, e questa sua caratteristica lo pone alla stregua di un verso poetico universalmente condivisibile. Quando Young ritrae immagini con le parole (“If I Don't Know”), quando sfrutta un concetto per esprimerne un altro (“People Want To Hear About Love” vuole alludere a se stesso e al business musicale) l'approccio funziona. Invece, funziona meno quando diviene generalista e pontificante: lì sembra vestire davvero lo stereotipo del vecchio hippie. Nel complesso, però, sebbene altalenante, l'insieme regge ed è piacevole.
L'esperienza con i Promise Of The Real e della protest-song contro Monsanto si può considerare riuscita abbastanza bene e, nella quadrilogia del Messaggio (definizione data dal sito Thrashershwheat), è l'opera migliore. Questi album denotano impegno idealistico, coerenza alla propria musa, immediatezza di svolgimento, cattura della spontaneità, nessun fronzolo a rendere più appetibile il pacchetto. Che siano un esempio di come fare o di come non fare un disco, resta soggettivo: in realtà, nessuno dei due estremi rende giustizia all'intento, dunque la verità sta nel mezzo. The Monsanto Years gioca ottime carte sia compositive sia esecutive (stenti vocali a parte), grazie alla band giusta che sa cogliere lo spirito del momento offrendo freschezza e potenza e contribuendo a controbilanciare gli aspetti più deboli del songwriting. Tra poco il gruppo inizierà un tour per gli USA, avremo quindi la possibilità di sentire la resa dal vivo di queste canzoni insieme ai classici di Young.
MPB - Rockinfreeworld

Neil Young – vocals, guitar
Lukas Nelson – guitar, vocals
Micah Nelson – guitar, charango, vocals
Anthony Logerfo – drums
Tato Melgar – percussion
Corey McCormick – bass, vocals

Produced by Neil Young & John Hanlon
Recorded and mixed by John Hanlon 
Engineered by John Hanlon & Jeff Pinn
Recorded and mixed at Teatro, Oxnard, CA







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