David Crosby: Croz (2014)
Il quarto disco solista in studio in sessant'anni di vita musicale per David Crosby. L'uomo che fondò i Byrds. L'uomo che con Stephen Stills, Graham Nash e (saltuariamente) Neil Young diede vita al supergruppo che incarnò i sogni e gli incubi della Woodstock Nation. L'uomo che regalò al mondo capolavori come The Lee Shore, Triad, Guinnevere, Long time gone, Almost cut my hairsolo per citarne cinque, è tornato. Ed è leggenda. Se “If I could only remember my name” (1971) può considerarsi il Taj Mahal della West Coast e “Oh, yes I can”(1989) l'inizio della sua seconda vita, continuata con “Thousand Roads” (1993) ed il live del 1995 “It's All Coming Back to Me Now...”, “Croz” è la testimonianza del puro genio poetico e visionario di un settantaquattrenne, ancora sempre meravigliosamente fedele a se stesso e ai suoi ideali musicali, sociali, politici. A distanza di vent’anni anni David ci dona un album che dal primo ascolto si rivela come una pietra miliare della musica popolare.
“E' il mio ultimo album... sono stanco, ma avevo ancora delle cose da dire”. Dopo una vita vissuta sempre ben oltre il limite, dopo un trapianto di fegato, il bardo californiano emoziona, se possibile, ancor più di sempre. Supportato da una straordinaria band che da anni accompagna magicamente lui e i suoi vecchi sodali (su tutti un immenso Shane Fontayne alle chitarre) il Nostro dimostra che di cose ne aveva da dire, suonare e soprattutto cantare. Eccome! La sua voce è potente ed evocativa come non mai. What's broken apre con un superbo Mark Knopfler ospite alla chitarra. E la magia ha inizio. Time I have è da brividi. Sembra di rivivere le sublimi sessions dell' incredibile primo album così come, e ancor di più, con la successiva Holding on to nothing (Wynton Marsalis alla tromba). Gli amici di sempre Graham e Joni sembrano materializzarsi dalle brume di Big Sur. Ma è The Clearing a spezzare il cuore. Il sogno hippy nel 2014... meravigliosamente attuale. Grande pezzo! Grandi chitarre! “4 Way Street” (il capolavoro live di C.S.N.&Y.) è dietro l'angolo.
Radio ricorda vagamente le atmosfere di “Daylight Again”, disco di C.S.N. del 1982 comunque stupendo seppur nato in un periodo difficilissimo per i tre. James Raymond, il figlio ritrovato dopo decenni, suona, canta e arrangia magistralmente. Kevin Mc Kormick al basso (“lo abbiamo rubato a Jackson Browne e di certo non glielo restituiremo”) tesse trame tenui e caleidoscopicamente oniriche nella loro suadente, apparente semplicità tutt'altro che semplice. Grande suono. Grande anima. Le meraviglie di “If I could...” tornano nella sublime If she called. Voce e chitarra: vorremmo essere ovunque, con chiunque e ascoltare per sempre, ad libitum questa gemma. Ma subito il piano di Dangerous Nights ci spinge oltre. Ma James, David e Shane ci spingono oltre, ed ancora oltre in un sogno sonico che vorremmo non finisse mai. Steve DiStanislao accarezza le sue pelli nella superba Morning falling. Ancora David in stato di grazia e noi con lui. Qui si scrivono parole, ma bisogna ascoltarlo questo disco, assaporarne ogni nota, per rendersi conto delle meraviglie che incontrano il nostro corpo e il nostro cuore. David Crosby: calore e sussulti di un'anima.
Distorsioni.net
“E' il mio ultimo album... sono stanco, ma avevo ancora delle cose da dire”. Dopo una vita vissuta sempre ben oltre il limite, dopo un trapianto di fegato, il bardo californiano emoziona, se possibile, ancor più di sempre. Supportato da una straordinaria band che da anni accompagna magicamente lui e i suoi vecchi sodali (su tutti un immenso Shane Fontayne alle chitarre) il Nostro dimostra che di cose ne aveva da dire, suonare e soprattutto cantare. Eccome! La sua voce è potente ed evocativa come non mai. What's broken apre con un superbo Mark Knopfler ospite alla chitarra. E la magia ha inizio. Time I have è da brividi. Sembra di rivivere le sublimi sessions dell' incredibile primo album così come, e ancor di più, con la successiva Holding on to nothing (Wynton Marsalis alla tromba). Gli amici di sempre Graham e Joni sembrano materializzarsi dalle brume di Big Sur. Ma è The Clearing a spezzare il cuore. Il sogno hippy nel 2014... meravigliosamente attuale. Grande pezzo! Grandi chitarre! “4 Way Street” (il capolavoro live di C.S.N.&Y.) è dietro l'angolo.
Radio ricorda vagamente le atmosfere di “Daylight Again”, disco di C.S.N. del 1982 comunque stupendo seppur nato in un periodo difficilissimo per i tre. James Raymond, il figlio ritrovato dopo decenni, suona, canta e arrangia magistralmente. Kevin Mc Kormick al basso (“lo abbiamo rubato a Jackson Browne e di certo non glielo restituiremo”) tesse trame tenui e caleidoscopicamente oniriche nella loro suadente, apparente semplicità tutt'altro che semplice. Grande suono. Grande anima. Le meraviglie di “If I could...” tornano nella sublime If she called. Voce e chitarra: vorremmo essere ovunque, con chiunque e ascoltare per sempre, ad libitum questa gemma. Ma subito il piano di Dangerous Nights ci spinge oltre. Ma James, David e Shane ci spingono oltre, ed ancora oltre in un sogno sonico che vorremmo non finisse mai. Steve DiStanislao accarezza le sue pelli nella superba Morning falling. Ancora David in stato di grazia e noi con lui. Qui si scrivono parole, ma bisogna ascoltarlo questo disco, assaporarne ogni nota, per rendersi conto delle meraviglie che incontrano il nostro corpo e il nostro cuore. David Crosby: calore e sussulti di un'anima.
Distorsioni.net
Questo disco è un viaggio (lo ha spiegato lui stesso, David Crosby ), ma è soprattutto un autoritratto. Intimo e personale fin dal titolo ("Croz", l'appellativo con cui Crosby è conosciuto tra gli amici più stretti), onesto e diretto a cominciare dalla copertina: gli occhi sottili, i basettoni, gli inconfondibili baffoni e i lunghi capelli argentati in primo piano e al naturale, al posto dell'immagine riflessa e confusa di "If I could only remember my name" e della foto solarizzata e artificiosa di "A thousand roads", l'ultima e trascurabile opera solista risalente a ormai vent'anni fa. David, qui, svela il suo vero volto, assieme a una saggezza e a un equilibrio che a settantadue anni s'è guadagnato a costo di tragiche sbandate e inenarrabili fatiche. La storia è ben nota, una parabola perfetta di ascesa, caduta e redenzione: nei Sessanta e Settanta è stato un'icona sfacciata e sfolgorante della controcultura e del movimento hippy, negli Ottanta un emblema del disfacimento del sogno freak (annientato dalla cocaina e dal freebasing, incarcerato e salvato dalla morte da un trapianto di fegato), nei Novanta un uomo avviato verso una lenta ricostruzione dopo il ricongiungimento con il figlio naturale James Raymond. Miccia della sua rinata creatività e voglia di vivere, compositore e tastierista di valore da allora sempre al suo fianco in studio e sul palco, e oggi coprotagonista irrinunciabile, nel ruolo di autore e produttore, di questo nuovo album di papà.
Crosby forza magari un po' la mano quando dice che il disco sorprenderà molti, sostenendo di essersi spinto fuori dalle sue acque territoriali. In realtà, nella scelta stessa di lavorare con James e di incidere nel suo home studio - dettata anche da motivi di budget - mostra di non volersi allontanare troppo dalla sua comfort zone , da un ambiente domestico in cui si sente finalmente protetto, coccolato e a suo agio. E il disco è quanto (di meglio) ci si può aspettare, oggi, da uno come lui: una sequenza di canzoni dal ritmo sciolto e dal tono rilassato, con un profluvio di chitarre e pianoforti, arpeggi a cascata e accordi jazzati, angeliche e stratificate armonie vocali, sonorità smooth e levigate che evocano a tratti certi suoi grandi amori dichiarati (Steely Dan, Marc Cohn) e spesso la breve avventura dei CPR, il trio che padre e figlio avevano creato a fine anni Novanta con il chitarrista Jeff Pevar.
Più che nella musica - bella, raffinata, impeccabile - Crosby il coraggio lo ha messo nei testi. Parole lucide, profonde, spietate, amare, disilluse ma ancora piene di speranza, parabole morali raccontate da un vecchio saggio che contempla le sue terribili cicatrici, la sua fragilità e il suo ritrovato, entusiasta vitalismo. Diabete, epatite C e un cuore ballerino non gli hanno sottratto verve, energia e una voce appena più sottile ma ancora meravigliosamente duttile e musicale, anche se ovviamente condizionano i suoi pensieri. Il tempo è una variabile incombente e una preoccupazione costante, "Slice of time" (una di quelle ballate sinusoidali e ammaliatrici che lo hanno reso famoso, già presentata a Milano durante il concerto con Graham Nash del 2011) e "Time I have" sono non a caso due delle carte migliori del mazzo: in quest'ultima, veleggiando agile tra percussioni, un basso melodico e un vibrante assolo di chitarra elettrica di Shane Fontayne, Crosby confessa di volere trascorrere la parte finale della sua esistenza alla ricerca della pace e della serenità mentale. Scomparse le metafore ambigue di "Cowboy movie", messe da parte le invettive politiche di "What are their names", di "Don't dig here" e "They want it all" per un'invocazione alla fratellanza e alla solidarietà ("Radio"), David pesca a piene mani nella sua accidentata esperienza di vita: dietro agli inconfondibili accordi stoppati e all'esortazione impetuosa di "Set that baggage down", il pezzo più acido, elettrico ed esuberante della raccolta, c'è chiaramente il racconto della sua lotta finalmente vinta contro la tossicodipendenza, le scimmie e i fantasmi del passato. Lo sguardo malizioso e il ghigno sardonico di Croz non sono scomparsi del tutto, ma qui lasciano sovente spazio a uno sguardo compassionevole: in "If she called", accompagnato solo dagli ipnotici arpeggi della sua chitarra, David si interroga sugli intimi sentimenti di un gruppo di prostitute da lui osservate una sera dalla finestra dell'hotel, fuori da un locale notturno in Germania: è l'utopia dell'amore libero di "Triad" rivoltata e andata a male, scrive David Fricke su Rolling Stone. E' il sogno virginale di "Guinnevere" finito nella discarica della mercificazione e dell'umiliazione.
Nel loro disco familiare e casalingo, David e James si concedono poche ma eclatanti ospitate di lusso: lavorando a distanza (i due non si sono mai incontrati) Mark Knopfler ricama note eleganti, essenziali e di ottimo gusto su "What's broken", un altro pezzo chiave liquido e jazzy come da migliori tradizioni, mentre la tromba di Wynton Marsalis regala un plus di malinconica e ovattata levità a "Holding on to nothing", un gioiellino di concisa poetica musicale il cui essenziale arrangiamento per doppia voce, chitarra e pianoforte lascia spazio alle migliori virtù espressive dell'attore protagonista. In "Find a heart", il brano strumentalmente più dilatato e chiuso da scat e armonizzazioni vocali, un sax jazzato e un'atmosfera vagamente latina strizzano l'occhio ai CPR e a Stephen Stills; ma è proprio nei pezzi più arrangiati e diluiti (il ritmo quasi sintetico di "Dangerous night", gli aromi quasi etno di "Morning falling") che il viaggio di "Croz" perde momentaneamente la bussola diventando più blando, vago e inconcludente.
Non avrebbe senso confrontarlo con l'impareggiabile "If I could only remember my name", un disco da isola deserta che nel 1971 condensò in quaranta minuti l'estasi allucinata e lo spirito comunitario di San Francisco. Allora Crosby scappava dalla realtà (e dal trauma della morte improvvisa della compagna Christine Hinton) spiegando le vele del suo Mayan. Oggi è tornato a terra, un sopravvissuto lieto di poterlo raccontare e di condividere la sua ritrovata ispirazione artistica. Che lo abbia fatto con tale candore e trasparenza rimarrà probabilmente una delle più belle notizie di quest'anno musicale.
Crosby forza magari un po' la mano quando dice che il disco sorprenderà molti, sostenendo di essersi spinto fuori dalle sue acque territoriali. In realtà, nella scelta stessa di lavorare con James e di incidere nel suo home studio - dettata anche da motivi di budget - mostra di non volersi allontanare troppo dalla sua comfort zone , da un ambiente domestico in cui si sente finalmente protetto, coccolato e a suo agio. E il disco è quanto (di meglio) ci si può aspettare, oggi, da uno come lui: una sequenza di canzoni dal ritmo sciolto e dal tono rilassato, con un profluvio di chitarre e pianoforti, arpeggi a cascata e accordi jazzati, angeliche e stratificate armonie vocali, sonorità smooth e levigate che evocano a tratti certi suoi grandi amori dichiarati (Steely Dan, Marc Cohn) e spesso la breve avventura dei CPR, il trio che padre e figlio avevano creato a fine anni Novanta con il chitarrista Jeff Pevar.
Più che nella musica - bella, raffinata, impeccabile - Crosby il coraggio lo ha messo nei testi. Parole lucide, profonde, spietate, amare, disilluse ma ancora piene di speranza, parabole morali raccontate da un vecchio saggio che contempla le sue terribili cicatrici, la sua fragilità e il suo ritrovato, entusiasta vitalismo. Diabete, epatite C e un cuore ballerino non gli hanno sottratto verve, energia e una voce appena più sottile ma ancora meravigliosamente duttile e musicale, anche se ovviamente condizionano i suoi pensieri. Il tempo è una variabile incombente e una preoccupazione costante, "Slice of time" (una di quelle ballate sinusoidali e ammaliatrici che lo hanno reso famoso, già presentata a Milano durante il concerto con Graham Nash del 2011) e "Time I have" sono non a caso due delle carte migliori del mazzo: in quest'ultima, veleggiando agile tra percussioni, un basso melodico e un vibrante assolo di chitarra elettrica di Shane Fontayne, Crosby confessa di volere trascorrere la parte finale della sua esistenza alla ricerca della pace e della serenità mentale. Scomparse le metafore ambigue di "Cowboy movie", messe da parte le invettive politiche di "What are their names", di "Don't dig here" e "They want it all" per un'invocazione alla fratellanza e alla solidarietà ("Radio"), David pesca a piene mani nella sua accidentata esperienza di vita: dietro agli inconfondibili accordi stoppati e all'esortazione impetuosa di "Set that baggage down", il pezzo più acido, elettrico ed esuberante della raccolta, c'è chiaramente il racconto della sua lotta finalmente vinta contro la tossicodipendenza, le scimmie e i fantasmi del passato. Lo sguardo malizioso e il ghigno sardonico di Croz non sono scomparsi del tutto, ma qui lasciano sovente spazio a uno sguardo compassionevole: in "If she called", accompagnato solo dagli ipnotici arpeggi della sua chitarra, David si interroga sugli intimi sentimenti di un gruppo di prostitute da lui osservate una sera dalla finestra dell'hotel, fuori da un locale notturno in Germania: è l'utopia dell'amore libero di "Triad" rivoltata e andata a male, scrive David Fricke su Rolling Stone. E' il sogno virginale di "Guinnevere" finito nella discarica della mercificazione e dell'umiliazione.
Nel loro disco familiare e casalingo, David e James si concedono poche ma eclatanti ospitate di lusso: lavorando a distanza (i due non si sono mai incontrati) Mark Knopfler ricama note eleganti, essenziali e di ottimo gusto su "What's broken", un altro pezzo chiave liquido e jazzy come da migliori tradizioni, mentre la tromba di Wynton Marsalis regala un plus di malinconica e ovattata levità a "Holding on to nothing", un gioiellino di concisa poetica musicale il cui essenziale arrangiamento per doppia voce, chitarra e pianoforte lascia spazio alle migliori virtù espressive dell'attore protagonista. In "Find a heart", il brano strumentalmente più dilatato e chiuso da scat e armonizzazioni vocali, un sax jazzato e un'atmosfera vagamente latina strizzano l'occhio ai CPR e a Stephen Stills; ma è proprio nei pezzi più arrangiati e diluiti (il ritmo quasi sintetico di "Dangerous night", gli aromi quasi etno di "Morning falling") che il viaggio di "Croz" perde momentaneamente la bussola diventando più blando, vago e inconcludente.
Non avrebbe senso confrontarlo con l'impareggiabile "If I could only remember my name", un disco da isola deserta che nel 1971 condensò in quaranta minuti l'estasi allucinata e lo spirito comunitario di San Francisco. Allora Crosby scappava dalla realtà (e dal trauma della morte improvvisa della compagna Christine Hinton) spiegando le vele del suo Mayan. Oggi è tornato a terra, un sopravvissuto lieto di poterlo raccontare e di condividere la sua ritrovata ispirazione artistica. Che lo abbia fatto con tale candore e trasparenza rimarrà probabilmente una delle più belle notizie di quest'anno musicale.
Cose dell’altro mondo: a ventuno anni dal precedente “Thousand Roads”, esce il quarto disco della più che quarantennale carriera solista di David Crosby. Già, proprio un nuovo album del settantatreenne monumento vivente, l’ubiquo della Rock and Roll Hall Of Fame (presente sia coi Byrds che coi compari Stills, Nash e Young) che all’altro mondo ha rischiato di finirci più volte, in un tourbillon di carcere, droghe e alcol, culminato con un provvidenziale trapianto di fegato vent’anni orsono, che tuttavia non è certo bastato a restituirgli una salute di ferro.
La sorpresa per questa uscita può essere appena attenuata dal progetto CPR, messo in piedi con il figlio James Raymond (il cui ricongiungimento col padre di sangue, che lo aveva dato in adozione quando era in fasce, è solo un capitolo dell’incredibile romanzo che è la vita di Crosby) e con lo storico sessionman Jeff Pevar, che ha fruttato due album di inediti (l’ultimo del 2001), e dal comeback con l’amico Graham Nash del 2004. Questo perché il vecchio leone californiano, sebbene abbia sempre proseguito la sua carriera on stage, non ha mai amato rinchiudersi in sala di registrazione, men che meno lavorando a progetti che lo vedono come unico attore: e infatti, anche questa volta, si è scelto dei collaboratori, componendo le canzoni con il figlio James e con il suo pupillo della sei corde Marcus Eaton, e attorniandosi di guest come Mark Knopfler, e la leggenda vivente della tromba Wynton Marsalis: sicuramente pochi rispetto al consueto, ma in linea con le esigenze dettate da un bugdet giocoforza ridotto. La scelta di lavorare con due compositori molto più giovani si rivela quanto mai felice, contribuendo a fare di “Croz” un disco più prossimo alle scritture modernamente pacate del nuovo folk, piuttosto che alle tensioni blues psichedeliche del capolavoro “If I Could Only Remember My Name”, o alla parata mainstream di “Thousand Roads”. Ne viene fuori un’opera intima e misurata, in cui a generare bagliori sono le sue undici canzoni, così scevre dalle distrazioni che sovente intaccano le produzioni sontuose, così corroborate da un piglio insospettabilmente fresco.
Levatevi però dalla testa le chiavi di lettura lo-fi che in tempi recenti possono aver fatto tendenza, giacché “Croz” mantiene un’aura di sobria ricercatezza che volentieri sconfina in una classe percepibile sin dalle prime battute, con “What's Broken”, in cui Knopfler sciorina le sue inconfondibili tessiture che colorano la voce tuttora morbida di Crosby. In “Time I Have” il mood diviene se possibile ancora più confidenziale, con una sezione ritmica dapprima sussurrata e poi crescente, sostenuta da un basso soffice e rotondo, in un brano che strumentalmente conduce più ai giochi chiaroscurali del primo David Sylvian solista, piuttosto che alle luminosità californiane, e lo stesso si può dire per “Holding On To Nothing”, in un delicato intreccio di chitarra acustica e voci, in cui a far capolino c’è la tromba di Wynton Marsalis che, pur nelle sue poche battute, richiama proprio quella con cui Jon Hassell intarsiò “Brilliant Trees”. Le similitudini, siano esse suggestive o ardite, finiscono qui, perché le storie e i profumi di Crosby sono pur sempre quelli di un ex-hippie americano che si misura col suo intimo e con la realtà circostante.
Ed ecco allora che la West Coast ritorna tanto nella ballata elettrica e vagamente prog di “The Clearing” che nei soft-pop di “Radio” e “Dangerous Night”, che rimandano dritti ai Seventies di un forse dimenticato Stephen Bishop. Se “Slice Of Time” e “If She Called” sarebbero potute uscire dalle corde di Bill Callahan, “Set That Baggage Down” tocca molto da vicino la folk psichedelia dei bei tempi andati, mentre i fiati conferiscono a “Morning Falling” inedite sfumature etniche, così come quelli jazz di “Find A Heart” ricompongono gradazioni comprese fra James Taylor e Jackson Browne, pur declinandole in chiave fusion.
L’album di David Crosby va inserito fra quelli inaspettati di quest’anno, fortunatamente lontano dalle operazioni nostalgia che spesso coinvolgono le vecchie glorie, e ancora vicino a un talento che sembra davvero intramontabile.
Ondarock
La sorpresa per questa uscita può essere appena attenuata dal progetto CPR, messo in piedi con il figlio James Raymond (il cui ricongiungimento col padre di sangue, che lo aveva dato in adozione quando era in fasce, è solo un capitolo dell’incredibile romanzo che è la vita di Crosby) e con lo storico sessionman Jeff Pevar, che ha fruttato due album di inediti (l’ultimo del 2001), e dal comeback con l’amico Graham Nash del 2004. Questo perché il vecchio leone californiano, sebbene abbia sempre proseguito la sua carriera on stage, non ha mai amato rinchiudersi in sala di registrazione, men che meno lavorando a progetti che lo vedono come unico attore: e infatti, anche questa volta, si è scelto dei collaboratori, componendo le canzoni con il figlio James e con il suo pupillo della sei corde Marcus Eaton, e attorniandosi di guest come Mark Knopfler, e la leggenda vivente della tromba Wynton Marsalis: sicuramente pochi rispetto al consueto, ma in linea con le esigenze dettate da un bugdet giocoforza ridotto. La scelta di lavorare con due compositori molto più giovani si rivela quanto mai felice, contribuendo a fare di “Croz” un disco più prossimo alle scritture modernamente pacate del nuovo folk, piuttosto che alle tensioni blues psichedeliche del capolavoro “If I Could Only Remember My Name”, o alla parata mainstream di “Thousand Roads”. Ne viene fuori un’opera intima e misurata, in cui a generare bagliori sono le sue undici canzoni, così scevre dalle distrazioni che sovente intaccano le produzioni sontuose, così corroborate da un piglio insospettabilmente fresco.
Levatevi però dalla testa le chiavi di lettura lo-fi che in tempi recenti possono aver fatto tendenza, giacché “Croz” mantiene un’aura di sobria ricercatezza che volentieri sconfina in una classe percepibile sin dalle prime battute, con “What's Broken”, in cui Knopfler sciorina le sue inconfondibili tessiture che colorano la voce tuttora morbida di Crosby. In “Time I Have” il mood diviene se possibile ancora più confidenziale, con una sezione ritmica dapprima sussurrata e poi crescente, sostenuta da un basso soffice e rotondo, in un brano che strumentalmente conduce più ai giochi chiaroscurali del primo David Sylvian solista, piuttosto che alle luminosità californiane, e lo stesso si può dire per “Holding On To Nothing”, in un delicato intreccio di chitarra acustica e voci, in cui a far capolino c’è la tromba di Wynton Marsalis che, pur nelle sue poche battute, richiama proprio quella con cui Jon Hassell intarsiò “Brilliant Trees”. Le similitudini, siano esse suggestive o ardite, finiscono qui, perché le storie e i profumi di Crosby sono pur sempre quelli di un ex-hippie americano che si misura col suo intimo e con la realtà circostante.
Ed ecco allora che la West Coast ritorna tanto nella ballata elettrica e vagamente prog di “The Clearing” che nei soft-pop di “Radio” e “Dangerous Night”, che rimandano dritti ai Seventies di un forse dimenticato Stephen Bishop. Se “Slice Of Time” e “If She Called” sarebbero potute uscire dalle corde di Bill Callahan, “Set That Baggage Down” tocca molto da vicino la folk psichedelia dei bei tempi andati, mentre i fiati conferiscono a “Morning Falling” inedite sfumature etniche, così come quelli jazz di “Find A Heart” ricompongono gradazioni comprese fra James Taylor e Jackson Browne, pur declinandole in chiave fusion.
L’album di David Crosby va inserito fra quelli inaspettati di quest’anno, fortunatamente lontano dalle operazioni nostalgia che spesso coinvolgono le vecchie glorie, e ancora vicino a un talento che sembra davvero intramontabile.
Ondarock
Per entrare nelle viscere di Croz si potrebbe partire dalla foto di copertina. Non perché sia particolarmente notevole dal punto di vista tecnico, ma solo perché lo sguardo di David Crosby non è rivolto al pubblico (come invece lo era quello di Oh Yes, I Can del 1989), ma continua a guardare oltre, in un altrove dove si trova quella terra promessa tanto sognata nei suoi anni giovanili. Ma ancor più significativo è il fatto che la foto sia stata scattata da suo figlio Django, il quarto della sua lunga e tribolata vita (se non si contano anche i due figli regalati con inseminazione artificiale a Melissa Etheridge). Uno scatto che coglie un padre che non si è fermato, ancora intento a pensare ad un mondo tutto suo, non ancora pronto per gli onori e riconoscimenti di fine carriera e per il meritato retirement a godersi i nipotini.
Crosby è uomo noto per la sua iper-sensibilità, uno che ha ancora l'innocenza di soffermarsi a cogliere l'aspetto tragico e umano di un gruppo di prostitute intente a convincere un branco di immondi ubriaconi a passare la notte con loro (If She Called). Non combatte più in prima linea, è ormai fuori dal grande giro, e troppe sconfitte lo hanno reso ancor più placido. Ma in fondo non si è arreso. Di fatto le maggiori case discografiche si sono rifiutate di pubblicare un suo nuovo disco di inediti, e allora Croz se l'è autofinanziato e autoprodotto (in studio la regia è stata comunque dello scafato Daniel Garcia). E anche le guest stars (un Mark Knopfler che dona un'aria da hit-single all'inziale What's Broken e un Wynton Marsalis che gigioneggia in Holding On To Nothing) pare che abbiano concesso i loro servigi da lontano e senza richieste di compenso. Per Crosby questo ed altro. Non fosse altro che, sebbene non aggiunga nulla a ciò che già sapevamo di lui e della sua splendida musica, Croz è un bel disco, figlio non tanto dei suoi lavori solisti (non c'è nulla qui dello spirito comunitario di If I Could Only Remember My Name, né della spavalderia da comeback di Oh yes, I Can, né tantomeno della sorniona furbizia pop di Thousand Roads), quanto della felice esperienza con i CPR (due album più che interessanti pubblicati tra il 1998 e il 2001).
James Raymond è sempre al suo fianco infatti, di fatto mette penna, tastiere e pure qualche pizzico di elettronica un po' ovunque, magari deludendo chi si aspetta ancora una nuova Almost Cut My Air, ma facendo felice invece chi ancora sta sognando sulle note di Guinnevere o Laughing. Undici brani lievi e smussati, in cui solo Set That Baggage Down tira fuori un po' la unghie (il brano è suonato e co-firmato dall'ex Lone Justice Shane Fontayne), mentre per il resto David si culla sul timbro da brividi della sua ugola, infilando alcune piccole gemme come The Clearing, Radio o Slice Of Time. Non basta per riscrivere una nuova storia, ma Croz resta uno dei déjà vu più indispensabili degli ultimi fuochi del classic rock.
Rootshighway
David Crosby, Croz nuovo disco 20 anni dopo. Mark Knopfler chitarrista virtuale
Arriva nei negozi il nuovo lavoro di David Crosby, “Croz”. L’album – pubblicato sull’etichetta di Crosby e Graham Nash, Blue Castle Records – arriva a più di vent’anni di distanza dall’ultimo lavoro solista dell’artista, ed è caratterizzato da un sostanziale apporto dato dal figlio James Raymond. Buona parte del disco è stata realizzata nello studio di Raymond, il quale ha contribuito anche come musicista e produttore, oltre a rendere possibile la presenza di diversi musicisti. Nonostante l’album splenda di una luce completamente diversa rispetto all’inarrivabile e viscerale “If I could Only Remember My Name”, il terreno dal quale partono le fondamenta resta lo stesso: l’amore di Crosby per il jazz.
A detta dello stesso Crosby, musicisti come Dave Brubeck, Chet Baker piuttosto che Gerry Mulligan, sono alcuni degli artisti sui quali ama imbattersi quando è alla ricerca della vena creativa. La celebrazione di questo amore – oltre ad insinuarsi nelle architetture armoniche tipiche del jazz – la troviamo in uno dei brani più intensi dell’album, “Holding On To Nothing”, caratterizzato da un’incursione tanto breve quanto perfetta del trombettista Wynton Marsalis. Mark Knopfler è un altro degli ospiti illustri di Crosby. Il suo apporto – concesso in via eccezionale – è stato dato a distanza: inserendo le chitarre su “What’s Broken” dopo che David glielo aveva inviato.
Oltre alle molteplici ospitate che caratterizzano il disco, “Croz” mantiene anche delle inossidabili certezze, come quella di Steve DiStanislao alla batteria: eleganza e dinamismo che portano ogni brano ad un nuovo livello. Il contributo del figlio Raymond è notevole e riconoscibile soprattutto nell’estrema cura data agli arrangiamenti e alla pulizia dei suoni. Talmente limpidi da rischiare di trasmettere una sensazione di freddezza, percezione alla quale non si arriva grazie alla calda voce di Crosby, che il tempo ha livellato ed ammorbidito. “Croz” è un lavoro ben strutturato, con molti episodi dominati dalla chitarra acustica, ma anche con notevoli svolte timbriche: “The Clearing”, o la formidabile “Find A Heart”, brano che potrebbe essere diviso in episodi musicali perfettamente collegati dalle percussioni di Steve DiStanislao e completati dai fiati troviamo Steve Tavaglione.
La ricerca del groove perfetto ha portato alla creazione di “Radio”, così come la necessità di non lasciar inaridire il bisogno di comunicare e condividere il proprio sentire attraverso le canzoni, ha dato vita a questo album e brani come “Set That Baggage Down”, “Find A Heart” e “Morning Falling”, ne rappresentano l’emblema. “Morning Falling” – canzone scritta a quattro mani con il figlio e che affronta il tema della pericolosità dei droni in campo militare – è l’esempio che il passare del tempo si è posato solo sul corpo di Crosby, ma che il suo animo è ancora fortemente legato a quella generazione di ragazzi che, “negli anni fatati”, giunsero alla conclusione che non avrebbero dovuto credere a nessuno che avesse avuto più di trent’anni, nell’utopica convinzione che loro per primi non li avrebbero mai superati.
Il Fatto Quotidiano
A detta dello stesso Crosby, musicisti come Dave Brubeck, Chet Baker piuttosto che Gerry Mulligan, sono alcuni degli artisti sui quali ama imbattersi quando è alla ricerca della vena creativa. La celebrazione di questo amore – oltre ad insinuarsi nelle architetture armoniche tipiche del jazz – la troviamo in uno dei brani più intensi dell’album, “Holding On To Nothing”, caratterizzato da un’incursione tanto breve quanto perfetta del trombettista Wynton Marsalis. Mark Knopfler è un altro degli ospiti illustri di Crosby. Il suo apporto – concesso in via eccezionale – è stato dato a distanza: inserendo le chitarre su “What’s Broken” dopo che David glielo aveva inviato.
Oltre alle molteplici ospitate che caratterizzano il disco, “Croz” mantiene anche delle inossidabili certezze, come quella di Steve DiStanislao alla batteria: eleganza e dinamismo che portano ogni brano ad un nuovo livello. Il contributo del figlio Raymond è notevole e riconoscibile soprattutto nell’estrema cura data agli arrangiamenti e alla pulizia dei suoni. Talmente limpidi da rischiare di trasmettere una sensazione di freddezza, percezione alla quale non si arriva grazie alla calda voce di Crosby, che il tempo ha livellato ed ammorbidito. “Croz” è un lavoro ben strutturato, con molti episodi dominati dalla chitarra acustica, ma anche con notevoli svolte timbriche: “The Clearing”, o la formidabile “Find A Heart”, brano che potrebbe essere diviso in episodi musicali perfettamente collegati dalle percussioni di Steve DiStanislao e completati dai fiati troviamo Steve Tavaglione.
La ricerca del groove perfetto ha portato alla creazione di “Radio”, così come la necessità di non lasciar inaridire il bisogno di comunicare e condividere il proprio sentire attraverso le canzoni, ha dato vita a questo album e brani come “Set That Baggage Down”, “Find A Heart” e “Morning Falling”, ne rappresentano l’emblema. “Morning Falling” – canzone scritta a quattro mani con il figlio e che affronta il tema della pericolosità dei droni in campo militare – è l’esempio che il passare del tempo si è posato solo sul corpo di Crosby, ma che il suo animo è ancora fortemente legato a quella generazione di ragazzi che, “negli anni fatati”, giunsero alla conclusione che non avrebbero dovuto credere a nessuno che avesse avuto più di trent’anni, nell’utopica convinzione che loro per primi non li avrebbero mai superati.
Il Fatto Quotidiano