Neil Young: Heart Of Gold (2006) - Rassegna Stampa pt.2
QUEL MEMORABILE CONCERTO DI NEIL YOUNG A NASHVILLE
Un film sul palco, raccontando un concerto indimenticabile e i musicisti che ne furono protagonisti. Neil Young: Heart Of Gold di Jonathan Demme è tutto questo, ma non solo. Quel momento memorabile della carriera del cantante canadese fu, come spesso accade nella storia del rock, segnato da amarezze e dolori profondi e in quelle due serate d'agosto, al Ryman Auditorium di Nashville, Young diede tutto se stesso per raccontarsi ed esorcizzarsi attraverso le proprie canzoni. Infiammò gli animi con western infernali e liberò nell'aria dolcissime nostalgie, lasciando che Demme, con il quale aveva già collaborato per la colonna sonora di Philadelphia, riprendesse ogni cosa. Non un documentario, ma un omaggio ad un amico, un ritratto vero e proprio dell'uomo e dell'artista, senza retorica o falsità: solo musica e poesia.
Repubblica 2007
DEMME: È LA MUSICA A FARE UN FILM
Repubblica 2007
DEMME: È LA MUSICA A FARE UN FILM
Jonathan Demme: un regista che quando dirige un film è come se dirigesse un' orchestra. Tutto, nel suo cinema, è suono. Pensate al rumore delle labbra di Hannibal Lecter in Il silenzio degli innocenti o ai passi di Tom Hanks nell'ufficio di Philadelphia. E pensate alla canzone di Springsteen dello stesso film, o a "Wild thing" cantata da Sister Carol in Qualcosa di travolgente. Mai un suono appare per caso, mai una musica che sia soltanto "commento sonoro". Per Demme (arrivato a Roma ieri per presentare il suo ultimo lavoro, Heart Of Gold, un bellissimo film concerto con Neil Young e per partecipare all'ultimo incontro all'Auditorium di Roma della serie "Viaggio nel cinema americano"), la musica è di più.
«Potrei dire addirittura che è il cinema stesso», dice lui, «nel senso che il matrimonio tra suoni e film è, per me, totale. Da bambino ero totalmente catturato dai film e dalle canzoni, quando avevo sette-otto anni ero incollato alla radio, conoscevo le classifiche a memoria e tutte le canzoni erano "mie", e allo stesso tempo mi facevo portare al cinema continuamente e vedevo tutto. Del resto il mestiere che faccio oggi mi permette di mettere insieme queste mie due grandi passioni». Stop Making Sense e Heart Of Gold sono film-concerto. Che rapporto hanno con gli altri suoi lavori? «Credo che quando si filma la musica dal vivo ci sia il cinema nella sua forma più pura: non ci sono le illusioni del cinema, non ci sono trucchi, è tutto legato al processo creativo della musica stessa e alla possibilità della macchina da presa di raccontare quello che c' è oltre la musica. Penso che i grandi concerti filmati siano dei documenti, ma allo stesso tempo questi film raccontano una storia. Ho rivisto Woodstock di recente, ed era esattamente così, una storia, raccontata sotto molti punti di vista differenti, una storia collettiva e allo stesso tempo un concerto. Con "Stop making sense" illustravo la costruzione del suono in un concerto e ho pensato in questo modo il film seguisse una narrazione più psicologica. E penso che ci sia una storia anche in Heart Of Gold, credo che Neil ci accompagni in un viaggio emotivo, è più di un concerto e ha aperto il mio cuore». La musica è centrale anche negli altri suoi film. «La musica serve ad allargare il senso delle immagini e al tempo stesso a renderle più precise, la musica racconta quello che le parole e le immagini non possono dire. E poi, a dire il vero, con la musica quello che è bello diventa straordinario e quello che è accettabile diventa bello, per cui il suo peso in un film è enorme. Quindi ci lavoro molto. Per Philadelphia andai da Neil Young, avevo praticamente finito il film e diedi al suo manager una copia registrata. Volevo un inno chitarristico, qualcosa che prendesse il pubblico dei maschi eterosessuali e li portasse nel film, volevo la mia Southern Man insomma. Neil invece mi ha dato una ballata bellissima e io ho pensato che sarebbe andata benissimo alla fine del film. Ma volevo ancora il mio inno chitarristico e allora ho chiamato Bruce Springsteen, ci siamo parlati e lui mi ha detto che voleva fare qualcosa d'importante. Ha visto il film e ha scritto una canzone in cui addirittura la chitarra non si sente. Ho ceduto, e ho pensato che Neil e Bruce si fidavano del film molto più di me e che non avevo bisogno di quel benedetto inno». Difficile lavorare con musicisti così importanti? «Devo entrare nella loro testa, devo cercare di fare il film che loro vorrebbero e quindi in ogni situazione se a loro una cosa non piace io non la faccio. Ma per fortuna quelli con cui ho lavorato io sono dei geni, hanno grandi idee e la collaborazione con loro è sempre positiva. Per preparare questo film ci siamo visti spesso con Neil, lui mi parlava delle canzoni, dei musicisti e io vedevo come il film cominciava a prendere forma, mi sembrava di capire come potevo farlo felice». Ha fatto tre film musicali, ma non ama i generi. «Si è vero, cambio spesso, non per un progetto ma per caso, perché le sceneggiature che mi appassionano cerco di trasformarle in film. L'unico genere che ho duplicato è il thriller. Io avrei voluto assolutamente fare Hannibal, che invece fu girato da Ridley Scott. Avevo letto il libro appena uscito e avevo un sacco d'idee su come continuare la storia, volevo lavorare ancora con Hopkins e Jodie Foster. E invece non è andata così. Ma mi sono rifatto con The Manchurian Candidate». Il suo atteggiamento verso Hollywood è cambiato. Ora lavora come indipendente. Perché? «Ho trovato il coraggio di fare i film che voglio senza i condizionamenti della standardizzazione delle major, con maggiore libertà. Per fare questo lavoro come vuoi con le major devi combattere. Sempre. Io mi sono stufato di combattere, non ho più la forza e la voglia di farlo, preferisco allora lavorare con budget più piccoli ma avere la possibilità di fare film migliori. In America oggi c' è una standardizzazione terribile dei prodotti cinematografici, ma c' è anche una fioritura di produzioni indipendenti, un mercato che diventa sempre più grande. Ci sono i documentari, che sono un genere che io amo moltissimo». Dopo The Agronomist ha altri progetti di documentari? «Ho iniziato a girare un documentario su New Orleans, vado ogni mese in città e seguo quello che accade, come la gente sta reagendo al disastro, come cerca di ricostruire non solo la città ma anche il proprio ambiente sociale. come cercano di ritornare nelle loro case nonostante Bush abbia fatto del suo meglio per non farli ritornare. Ho cominciato a girare lo scorso gennaio e proseguirò fino al prossimo gennaio».
Ernesto Assante, Repubblica 2006
«Potrei dire addirittura che è il cinema stesso», dice lui, «nel senso che il matrimonio tra suoni e film è, per me, totale. Da bambino ero totalmente catturato dai film e dalle canzoni, quando avevo sette-otto anni ero incollato alla radio, conoscevo le classifiche a memoria e tutte le canzoni erano "mie", e allo stesso tempo mi facevo portare al cinema continuamente e vedevo tutto. Del resto il mestiere che faccio oggi mi permette di mettere insieme queste mie due grandi passioni». Stop Making Sense e Heart Of Gold sono film-concerto. Che rapporto hanno con gli altri suoi lavori? «Credo che quando si filma la musica dal vivo ci sia il cinema nella sua forma più pura: non ci sono le illusioni del cinema, non ci sono trucchi, è tutto legato al processo creativo della musica stessa e alla possibilità della macchina da presa di raccontare quello che c' è oltre la musica. Penso che i grandi concerti filmati siano dei documenti, ma allo stesso tempo questi film raccontano una storia. Ho rivisto Woodstock di recente, ed era esattamente così, una storia, raccontata sotto molti punti di vista differenti, una storia collettiva e allo stesso tempo un concerto. Con "Stop making sense" illustravo la costruzione del suono in un concerto e ho pensato in questo modo il film seguisse una narrazione più psicologica. E penso che ci sia una storia anche in Heart Of Gold, credo che Neil ci accompagni in un viaggio emotivo, è più di un concerto e ha aperto il mio cuore». La musica è centrale anche negli altri suoi film. «La musica serve ad allargare il senso delle immagini e al tempo stesso a renderle più precise, la musica racconta quello che le parole e le immagini non possono dire. E poi, a dire il vero, con la musica quello che è bello diventa straordinario e quello che è accettabile diventa bello, per cui il suo peso in un film è enorme. Quindi ci lavoro molto. Per Philadelphia andai da Neil Young, avevo praticamente finito il film e diedi al suo manager una copia registrata. Volevo un inno chitarristico, qualcosa che prendesse il pubblico dei maschi eterosessuali e li portasse nel film, volevo la mia Southern Man insomma. Neil invece mi ha dato una ballata bellissima e io ho pensato che sarebbe andata benissimo alla fine del film. Ma volevo ancora il mio inno chitarristico e allora ho chiamato Bruce Springsteen, ci siamo parlati e lui mi ha detto che voleva fare qualcosa d'importante. Ha visto il film e ha scritto una canzone in cui addirittura la chitarra non si sente. Ho ceduto, e ho pensato che Neil e Bruce si fidavano del film molto più di me e che non avevo bisogno di quel benedetto inno». Difficile lavorare con musicisti così importanti? «Devo entrare nella loro testa, devo cercare di fare il film che loro vorrebbero e quindi in ogni situazione se a loro una cosa non piace io non la faccio. Ma per fortuna quelli con cui ho lavorato io sono dei geni, hanno grandi idee e la collaborazione con loro è sempre positiva. Per preparare questo film ci siamo visti spesso con Neil, lui mi parlava delle canzoni, dei musicisti e io vedevo come il film cominciava a prendere forma, mi sembrava di capire come potevo farlo felice». Ha fatto tre film musicali, ma non ama i generi. «Si è vero, cambio spesso, non per un progetto ma per caso, perché le sceneggiature che mi appassionano cerco di trasformarle in film. L'unico genere che ho duplicato è il thriller. Io avrei voluto assolutamente fare Hannibal, che invece fu girato da Ridley Scott. Avevo letto il libro appena uscito e avevo un sacco d'idee su come continuare la storia, volevo lavorare ancora con Hopkins e Jodie Foster. E invece non è andata così. Ma mi sono rifatto con The Manchurian Candidate». Il suo atteggiamento verso Hollywood è cambiato. Ora lavora come indipendente. Perché? «Ho trovato il coraggio di fare i film che voglio senza i condizionamenti della standardizzazione delle major, con maggiore libertà. Per fare questo lavoro come vuoi con le major devi combattere. Sempre. Io mi sono stufato di combattere, non ho più la forza e la voglia di farlo, preferisco allora lavorare con budget più piccoli ma avere la possibilità di fare film migliori. In America oggi c' è una standardizzazione terribile dei prodotti cinematografici, ma c' è anche una fioritura di produzioni indipendenti, un mercato che diventa sempre più grande. Ci sono i documentari, che sono un genere che io amo moltissimo». Dopo The Agronomist ha altri progetti di documentari? «Ho iniziato a girare un documentario su New Orleans, vado ogni mese in città e seguo quello che accade, come la gente sta reagendo al disastro, come cerca di ricostruire non solo la città ma anche il proprio ambiente sociale. come cercano di ritornare nelle loro case nonostante Bush abbia fatto del suo meglio per non farli ritornare. Ho cominciato a girare lo scorso gennaio e proseguirò fino al prossimo gennaio».
Ernesto Assante, Repubblica 2006
NEIL YOUNG, LA MUSICA ANCHE COME FATICA
In anteprima «Heart of Gold», il film-concerto di Demme sul cantautore canadese
Sembra un concerto, ma soltanto in apparenza. Neil Young - Heart of Gold è in realtà il ritratto intimo e privato di una leggenda della musica mondiale. Diretto da Jonathan Demme (il regista da Oscar del Silenzio degli innocenti e di Philadelphia ma anche di un documentario musicale sui Talking Heads) il film è stato presentato in anteprima a Terni per il festival «Cinema &/è lavoro» (e presto arriverà nelle sale). Il neodirettore Steve Della Casa ha così spiegato la sua insolita scelta: «Neil Young è una rockstar che sa raccontare la quotidianità del proprio lavoro, perchè nonostante abbia avuto due pezzi, "Harvest" e "Out on the Weekend" per mesi nelle hits mondiali, ha mantenuto un orgoglio artigiano. Il film di Demme racconta la musica e il fare musica di una persona famosa senza usare lustrini ma rappresentando il sudore e le rughe, la quotidianità e la professionalità. I vecchi, protagonisti del film, hanno la calma che solo le persone consapevoli hanno, quelli che sanno cosa fare e lo fanno con passione». Girato in due giorni, la scorsa estate a Nashville, il film si apre con Young e i suoi musicisti che arrivano al Ryman Auditorium. Pochi mesi prima il cantautore canadese era stato operato per un' aneurisma al cervello. Prima dell'intervento chirurgico aveva registrato Prairie Wind, il suo testamento musicale sulla famiglia, gli amici, Dio, l'amore e la perdita. «Sentivo - commenta Young - che non sarei stato più capace di incidere un altro album. Ho lasciato che tutto quello che c' era in me venisse fuori». Circondato sul palco dai suoi musicisti (tutti in abiti western), dalla moglie Pegi e dalla cantante country Emmylou Harris, fra una canzone e l'altra Young - che a giugno farà uscire Living With War, un album contro Bush - nel film racconta le storie della sua vita. Il festival, che andà avanti fino a domenica, affiancherà fiction e documentari con molti ospiti. [...]
Sandra Cesarale, Corriere della Sera 2006
NEIL YOUNG, LA PENSIONE PUÒ ATTENDERE
Sandra Cesarale, Corriere della Sera 2006
NEIL YOUNG, LA PENSIONE PUÒ ATTENDERE
Alberto Crespi, L'Unità
Bastano un uomo e la sua chitarra per cambiare il mondo? Possono bastare, ma solo se la musica è fatta con il cuore. È questa l'opinione di Neil Young. Ed è questo il sottotesto di Neil Young - Heart of Gold, il film-concerto di Jonathan Demme: una lente di ingrandimento che indaga sul volto noto e quello segreto di uno dei più grandi protagonisti della musica contemporanea. Un film che fa tornare indietro nel tempo senza troppo sapore di nostalgia, attraverso la registrazione del concerto live Prairie Wind di Nashville, pietra miliare della musica di tutto il mondo. Accompagnato dalla sua band, che non teme di mostrare l'età non più giovanile, e diretto dall'autore del Silenzio degli Innocenti, Young offre il meglio di sé. E, se il musicista aveva scritto per Demme il pezzo “Philadelphia”, ora il regista ricambia il favore e dà vita a un film che, scandagliando la musica come fosse un personaggio, riesce a catturare invece l'uomo. E, con 8 camere fisse più una steadycam, Hart of Gold si trasforma nell'omaggio da parte di amico a un uomo che, dopo aver subito un'operazione per un aneurisma al cervello, ha visto in faccia la morte e vuole cantare la vita. E per questo ci regala un assolo sul palco, “The Old Laughing Lady”, eseguito con la stessa chitarra che usa da 30 anni, con la quale si è battuto contro razzismo, droga e pene d'amore.
Roberta Bottari, Il Messaggero
Michele Anselmi, Ciak
Sintesi di due concerti di Neil Young a Nashville, all'indomani dei suo penultimo lavoro discografico, l'eccellente Vento della Prateria (Prairie Wind). In verità le performance sono successive a due esperienze per il musicista drammatiche: un aneurisma cerebrale e la morte dell'anziano padre. Il vecchio orso canadese, armato del suo strumento ammazzafascismi", come Woody Guthrie chiamava la chitarra, sale sul palco e insieme a un gruppo di amici (variabili ogni sera) dispiega poesia in note. I classici, come quella “Heart of Gold” che dà il titolo al film, recentemente riproposta da Ben Harper, sono da sempre lì a ricordarci che parliamo di uno dei principali cantautori del mondo. Il quale però, lungi dal pensare alla pensione, nonostante gli strascichi evidenti della malattia, è ancora in grado di scrivere e suonare una straordinaria ballata come “No Wonder”. Quello di Jonathan Demme, regista sempre più coerente e bravo, è in fin dei conti un film sulla morte, o meglio l'incontro con un musicista che l'anagrafe e la vita vorrebbero avviato sul viale del tramonto e che invece affronta la “Old Laughing Lady” con una cosa immortale per definizione: l'arte. Nel suo caso: il rock.
Mauro Gervasini, FilmTV