Neil Young & Crazy Horse Alchemy Tour 2013 - Roma
Neil Young: l’alchimia con i Crazy Horse infiamma il Rock in Roma
Quando circa trent’anni fa, Neil Young si esibisce a Roma per l’ultima volta, di fronte a 40 mila spettatori, è per lui il periodo più sperimentale della sua carriera: ha da poco dato alle stampe Trans, un disco in cui il rocker canadese si sbizzarrisce nell’utilizzo dei sintetizzatori, dell’elettronica e il vocoder rende la sua voce fredda, a tratti quasi irriconoscibile.
In molti restarono perplessi chiedendosi il perché di tale anacronistico innamoramento per il technopop. È anche per questo che è tanta l’attesa per il ritorno di Neil Young nella Capitale. È come se qualcosa fosse rimasto in sospeso. In verità, c’è una voglia smodata di assistere a un concerto vecchio stile. Ballate classiche, tipo My my, hey hey, o Like a Hurricane, che in tanti si aspettano di veder eseguita.
E invece, nel 2012 il vecchio Neil ha dato alla luce il suo primo album doppio, Psychedelic Pill, che è anche il più lungo e che testimonia l’avvenuta reunion di una delle formazioni storiche del rock della west coast, i Crazy Horse, in un disco dalle lunghe, maestose jam elettrificate, con assoli addirittura chilometrici. E il rischio di assistere a qualcosa di diverso, per chi non conosce a fondo lo spirito del rocker canadese, è altissimo. Soprattutto durante questo Alchemy Tour 2013.
Dopo il successo ottenuto in Nord America, Australia e Nuova Zelanda ecco il ritorno all’Ippodromo delle Capannelle per il Rock in Roma, dove i Crazy Horse di Frank “Poncho” Sampedro, Billy Talbot e Ralph Molina non hanno mai suonato e dove Neil Young, appunto, mancava da oltre trent’anni. I Crazy Horse – come ha scritto Neil nel suo primo e unico libro “Waging heavy peace” incautamente tradotto in italiano col titolo “Il sogno di un hippie” – sono per lui la navicella per viaggiare verso aree cosmiche che è incapace di attraversare con altri. Addirittura, scrive, alcune persone gli hanno chiesto “perché continui a suonare con loro. Non sanno suonare…”. “The answer is blowing in the wind”, risponde lui. “Con loro posso andare dovunque. Dal vivo siamo una grande band e per me suonare con i Crazy Horse è una cosa trascendentale”.
Sul palco la scenografia è minima, essenziale: sullo sfondo nero domina il simbolo dei Crazy Horse, quello del capo indiano su un cavallo in fuga, che appare anche sulle centinaia di magliette dei fan e sui manifesti. Gli occhi di un feticcio un po’ hippie, invece, sovrastano la platea, mentre la bandiera pirata che appare accanto alla batteria serve a far capire chi ci si trova di fronte. Quando fanno il loro ingresso su palco non si può non far caso a quanto il tempo abbia lasciato i propri segni sui loro corpi, ma non appena il vecchio Neil, vestito all black e con un cappello di paglia nero a coprirne i lunghi capelli bianchi, attacca con Love and only love, ci si rende subito conto che in verità i quattro sono in ottima forma.
A testa bassa, senza alcuna presentazione, inizia così il viaggio psichedelico, in una dimensione in bilico fra sogno e allucinazione. In scaletta c’è poi Powderfinger, un brano che è contro ogni forma di guerra e di violenza, contenuta nell’album del ’79 Rust Never Sleep; segue Psychedelic Pillbrano fatto di accordi e riff, caratterizzato da un’infinita sequela di pattern la cui struttura “canto-improvvisazione-canto” può durare all’infinito. L’alchimia tra Neil e il Cavallo Pazzo c’è, funziona, si vede e si sente. Ma paradossalmente, il pubblico più che essere estasiato, rapito, allucinato, sembra come in perenne attesa. La storia si ripete. È il pezzo classico che la gente s’aspetta. Ma Neil, si dovrebbe sapere è tutto e il contrario di tutto.
Neil Young e i Crazy Horse attaccano con Walk Like a Giant, introdotta dal fischio incalzante e tratta anch’essa dall’ultimo disco. Un brano a dir poco maestoso. Non parla Neil, non interagisce coi suoi fan che aspettano solo un cenno per gridare la loro gioia. Appare un po’ freddo. Gli anni è evidente, hanno lasciato il segno. E poi il successo – come egli stesso ha ammesso – gli consente anche di potersi comportare male, di scansare certe responsabilità e di crearsi una via tutta sua al mondo. Provare empatia, amarsi di nuovo per essere più fedele a se stesso e agli altri è quello che si è prefissato.
Suscitano qualche perplessità gli effetti speciali che accompagnano Hole in the Sky e che tentano di ricreare un effetto tempesta con buste di plastica sparate sul palco e un improbabile temporale proiettato sugli schermi che, se fosse stato vero, avrebbe procurato non poco sollievo alle migliaia di fans accalcati nella rovente notte di fine luglio.
Quando i Crazy Horse liberano il palco, lasciandolo interamente a Neil che porta alla bocca la sua immancabile armonica, si intuisce che il magic moment è arrivato: il pubblico esplode in un boato quando il brano che sta per iniziare è proprio la epica Heart of Gold: da brividi. Per un attimo Neil toglie anche il broncio, quando vede il pubblico più partecipe mentre canta assieme a lui.
E così si concede anche una cover, questa sì, senza bisogno di presentazioni: Blowin’ in the Wind di Bob Dylan. Deciso a fare concessioni, il vecchio Neil diventa all’improvviso generoso quando, rientrati sul palco i Crazy Horse, regala al pubblico romano una perla, l’inedita Singer Without a Song. Poi in sequenza, senza interruzioni, la navicella riparte con la monumentale Ramada Inn, sedici minuti di arpeggi e riff, la storica Sedan Delivery, contenuta anch’essa nel disco Rust Never Sleep, brano che Neil Young scrisse contro la società bigotta e ipocrita, immersa nel degrado metropolitano, la cui melodia distorta per molti è considerata il prototipo del grunge. Segue un’inaspettata Surfer Joe and Moe the Sleaze, tratta dal disco del 1981 Re-ac-tor. Quasi mai, infatti, Neil esegue dal vivo brani tratti da quell’album che non ebbe una grossa considerazione né da parte della critica né da parte del pubblico, né dallo stesso Neil Young.
Il concerto si avvia verso la chiusura, e le note di Keep on Rocking in a free world, il vero cavallo di battaglia, stanno lì a preannunciarla. Chi canta, con l’energia di un ventenne, è un uomo di 70 anni, un rocker testardo e appassionato, dotato di una voce acuta e malinconica, e di uno stile chitarristico inconfondibile, grezzo e rabbioso. Con il suo incedere zigzagante Neil suona in modo impetuoso: sia lui che la band sembrano non avere alcuna intenzione di smettere di suonarla. Il messaggio spera sia stato chiaro: continuare a rockeggiare in un mondo che è sempre più minacciato – da estremismi, ignoranza dilagante, maleducazione, isolamento, guerre e crisi – ma che deve restare libero. Per ognuno. Lo urla a squarciagola.
L’emozione è tanta, gli occhi lucidi risplendono sui volti dei fan. Al termine del brano, la band si ritira dietro le quinte per il primo encore break. Ritornano in pista alla grande, chiudendo con due brani adatti per un gran finale di concerto: la splendida e sempreverde Cortez the Killer e quando il Cavallo Pazzo dà a Young per l’ultima volta la libertà di lanciarsi in una lunga e selvaggia cavalcata elettrica, introdotta dalla potente ritmica, ruvida e diretta, chiude il concerto la splendida Cinnamon Girl: diavolo d’un Neil Young.
A 70 anni ancora si lancia nel desiderio di incontrare la ragazza dei suoi sogni da amare, la “ragazza cannella”. Sia benedetto Neil.
Pasquale Rinaldi, Il Fatto Quotidiano
Neil Young & Crazy Horse Live
Tempesta elettrica su Roma
Oltre due ore di concerto, una cavalcata elettrizzante assieme al suono di chitarra più ricco e appagante del rock. Questo lo show del Grande Canadese alle Capannelle, tra citazioni dylaniane e inni di ribellione a un mondo che ha smesso di farsi domande
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE a Rock in Roma, una tempesta elettrica che in oltre due ore di concerto spazza via il timore che tutto si riduca a un raduno di nostalgici. Le premesse non sembrano incoraggianti. Il pubblico che poco prima del tramonto converge verso l'Ippodromo delle Capannelle è per la grande maggioranza ben oltre i 30, coppie con figli, amici che si ritrovano per riaffacciarsi nel passato, magliette lise realmente testimoni della stagione psichedelica. Qualcuno si sofferma a ridosso della staccionata che protegge la carovana su cui viaggia la band. Tre enormi bus neri, nulla che ricordi neanche nello spirito il leggendario "Pocahontas", il fantasmagorico bus modificato su cui Neil per anni ha scorrazzato per l'America prima che un incendio lo distruggesse.
Languori dell'anima che evaporano appena il grande canadese compare sulla scena davanti a 8mila persone, accompagnato dal batterista Ralph Molina, dal chitarrista Frank "Poncho" Sampedro e dal bassista Billy Talbot. I Crazy Horse, appunto, incarnazione del Neil Young più rock, sigla mitica e titolare di un'impronta unica e inconfondibile. Senza esitazioni la band attacca Love And Only Love e prosegue con Powderfinger.
Per la gioia delle prime file, Neil sfoggia da subito la "Old Black", la gloriosa Les Paul nera, scorticata, modificata, riparata più volte in quarant'anni di musica. Per averla sempre lì, la chitarra che marchia il suo suono. Un suono elettrico grasso, ricco, nutrito di grandi sogni collettivi e altrettanto grandi sofferenze private. Oltre che alimentato dall'imponente schieramento di amplificatori d'annata che Neil ha tirato fuori dal fienile del suo ranch per riportare "the Horse" al galoppo per il mondo.
Perché questo avesse un senso, perché il concerto non fosse davvero un juke-box di vecchi ricordi per spiriti sconfitti, Neil Young aveva bisogno di nuove canzoni. Le ha trovate e infilate nel suo ultimo, splendido album, Psychedelic Pill. Assieme al maestoso riff della titletrack, dal vivo assume un valore decisivo, quasi uno spartiacque spirituale tra passato e futuro, Walk Like A Giant. "Una volta camminavo sulla terra come un gigante, io i miei amici volevamo salvare il mondo, volevamo che andasse meglio. Ci siamo andati vicino, poi il tempo è cambiato. Ma se ripenso a come ci si sente bene, voglio ancora camminare come un gigante...".
Neil recapita il messaggio confrontadosi al centro del palco con la chitarra di Poncho e il basso di Talbot, tutti e tre raccolti davanti alla batteria di Molina, in pochi metri quadrati, come stessero ancora provando nel fienile. Neil accompagna le lunghe esplorazioni strumentali spingendo il busto in avanti, pigiando furiosamente sui pedali degli effetti, sbuffando davanti al ventilatore montato ai piedi del palco. E' un indomito purosangue, nel suo atteggiamento c'è tutto tranne che la resa. Perché c'è sempre qualcosa per cui lottare, ad esempio per un ambiente più pulito. Walk Like A Giant si conclude con Neil poggiato, quasi accasciato sull'amplificatore, per generare un feedback lancinante come l'urlo di dolore di madre terra, mentre i tecnici sommergono il palco di pezzi di carta e autentiche buste di plastica, il massimo degli effetti speciali per i Crazy Horse.
Mentre gli stessi tecnici ripuliscono alla meglio la scena, dai diffusori giungono le voci di chi a Woodstock invitava l'enorme massa di giovani a urlare "no rain!" per fermare la pioggia. La generazione della speranza, la generazione del cambiamento. E' davvero andato tutto perduto? Qualcosa di quello spitiro collettivo va perpetuato, almeno non dimenticato. Perché "there is a Hole in the sky", c'è un buco nel cielo, non dimenticatelo, ammoniscono in coro i Crazy Horse in una nuova canzone svelata proprio durante il tour.
A questo punto Neil resta solo in scena, solo con il suo pastoso falsetto naturale, la chitarra acustica e l'armonica a bocca. Un'ovazione saluta Heart Of Gold e il pubblico canta in coro il successivo tributo a Dylan, Blowin' In The Wind. Citazione non casuale, perché ad essa Neil aggancia un'altra nuova composizione, Singer Without A Song: se, come scrisse Dylan, la risposta è persa nel vento, la cantante senza canzoni è il simbolo di un mondo che ha smesso di farsi domande. E Neil la canta a un vecchio piano elettrico, con incedere dolente.
Chiusa la struggente parentesi in solitaria, Neil ritrova i Crazy Horse in Ramada Inn, altra splendida ed elettrica cavalcata tratta dal nuovo album. Poi recupera i feroci due accordi punk di Sedan Delivery e il suo sfascio esistenziale, annuendo con lo sguardo alle prime file: "Sì, è proprio dura trovare un lavoro".
Dopo l'epica Surfer Joe And Moe The Sleaze, il concerto si chiude con l'attesissima e liberatoria Rockin' In The Free World. Trascinato dall'oceano di mani sollevate verso il cielo che gli si para davanti, Neil guida la band ordinando due "riprese" del ritornello prima di chiudere il brano.
Richiamata in scena, la band regala altri due grandi momenti con lo straordinario affresco lirico e sonoro di Cortez The Killer e il propulsivo riff che sostiene Cinnamon Girl. Sulle ultime note, Neil alza la mano in segno di saluto, seguendo con lo sguardo lo sbracciarsi felice e disperato della gente assiepata sul prato e in tribuna. L'abbraccio tra band e pubblico è da brivido, al punto che persino l'espressione inossidabile sul volto consumato di Neil Young sembra vacillare.
Mentre la folla dei canuti "hippie dreamers", stanca e felice, si avvia all'uscita, una ressa di giovanissimi prende d'assalto il banco con le magliette dei Crazy Horse. Una signora col pancione si tiene la mano sul ventre. Chiuso nella sua bolla cosmica, il suo bambino stasera ha fatto il pieno di carezze elettriche. Cresci bene, piccolo, forse un giorno camminerai come un gigante.
Paolo Gallori, Repubblica
Roma si inchina a Neil Young. Il rocker canadese ‘sfiora il divino’
Ci sono poche certezze nella vita, poche cose in cui credere, il resto di solito sono piccole illusioni che ci aiutano a vivere meglio, a sopportare una vita troppo spesso piena di problemi, ansie, dolori.
Una di queste certezze ieri sera ha travolto ed emozionato il pubblico romano all’Ippodromo delle Capannelle: Neil Young si è esibito con i suoi Crazy Horse (e mai nome fu più azzeccato per un concerto in un ippodromo) ed è stata un’esibizione contornata da qualcosa di leggendario, quell’energia incredibile, impensabile per un uomo di quasi 70 anni stampati tra le rughe del volto, visibili nella sua andatura un po’ sbilenca, eppure ininfluenti quando c’è da dare l’anima sul palco.
Ma andiamo per ordine: la giornata è calda, appiccicosa, non il clima ideale per un concerto, la gente comincia a prendere posto nella struttura ippica, dando un’occhiata alle persone intorno a me mi rendo conto di quanto Neil Young sia stato importante con la sua musica che ha attraversato almeno quattro generazioni: numerosi i ventenni ma anche i loro padri, madri e persino nonni sono qua in attesa di lasciarsi trasportare dalla musica di questo loner, dalla sua struggente voce e dagli echi della sua chitarra elettrica. Young è stato senza dubbio uno degli artisti più influenti nel rock, senza di lui molte band non sarebbero state le stesse, forse non sarebbero mai esistite; senza la sua musica e le sue lyrics, interi movimenti musicali come il Grunge, sarebbero stati diversi, più poveri forse, (si pensi solo all’influenza che Neil ha avuto su una band come i Pearl Jam di Eddie Vedder).
Il concerto viene aperto da Devendra Banhart, cantautore texano apprezzatissimo dalla critica, il suo show non è affatto male e fonde ritmi folk e rock, a ballate di stampo brasiliano, un ottimo inizio, non c’è che dire, ascolto la musica di Banhart con gusto e soddisfazione, le premesse mi paiono ottime, peccato però che poi, dopo il concerto di Neil Young e Crazy Horse, dell’esibizione di Devendra Banhart resterà davvero molto poco, perché tutte le emozioni, le attenzioni, i ricordi, saranno rivolti all’artista canadese.
Il concerto inizia puntuale alle 21:45, le luci si spengono, sul palco campeggia il logo enorme del cavallo pazzo, lo stesso logo è stampato sulla batteria di Ralph Molina, la gente aspetta con ansia l’ingresso dei quattro musicisti, arrivano ed è il delirio, uno scrosciare di applausi, urla gioiose, voglia di stare insieme, per un attimo si ritorna alle atmosfere di pace amore e libertà di woodstokiana memoria.
Neil Young è vestito di nero, jeans, e maglia con scritta “ CBC Radio Canada” tanto per far capire che il suo Canada lo porta ovunque, lui il più americano degli artisti canadesi ora è lì sul palco con un cappello nero da cowboy, di fronte a una folla gioiosa che acclama il suo nome, il chitarrista Frank “Poncho” Sampedro indossa una bella maglia con il volto di Jimi Hendrix, Billy Talbot (basso) con una lunga camicia bianca e Ralph Molina seduto dietro la sua batteria con il solito berretto messo al contrario.
Pochi fronzoli per Young e soci, si inizia subito, e allora è Love and Only Love tratta da Ragged Glory del 1990, segno tangibile che stasera il viaggio nella musica del buon vecchio Neil sarà davvero trasversale, dagli inizi coi Crazy Horse nel 1969, fino ai pezzi del suo ultimo monumentale lavoro Psychedelic Pill. La gente canta e danza, è un’atmosfera bella, genuina, festosa, Neil Young si diverte con la sua band, si vede lontano un miglio che è in forma, grintoso, tirato a lucido nonostante i problemi di salute incontrati nella sua lunga carriera: dalla dipendenza da droghe e alcool da cui si è liberato solo un paio di anni fa (con una iniziale crisi creativa), all’aneurisma cerebrale che non lo ha minimamente scalfito. Neil è scatenato, la sua chitarra risuona come un eco proveniente da una dimensione che non sembra umana, la sua voce è quella di un tempo, dolcissima, fragile che sembra spezzarsi un attimo prima della perfezione, ed è proprio questa fragilità, questa unica caducità della sua voce, che ha reso le sue canzoni pezzi memorabili, incidendole nella storia della musica.
Si prosegue senza sosta, con Powderfinger e Psychedelic Pill, pezzo che dà il titolo al suo ultimo lavoro, poi Walk Like a Giant con un finale psichedelico incredibile grazie agli effetti distorti della chitarra di Young e alla batteria di Molina che simula i passi pesanti del gigante. Neil Young & Crazy Horse stanno dando il meglio, si guardano, si cercano mentre suonano, si stanno divertendo un mondo, con grande grinta. È un concerto vecchio stampo, non ci sono spie, monitor, non portano auricolari, nulla, tutto avviene come una volta, con grande naturalezza, quella che solo i grandissimi possono portare sul palco.
Dopo questa prima parte elettrica, i Crazy Horse lasciano il palco al solo Neil Young, qui in quella veste da loner che lo ha caratterizzato e che lo ha reso celebre. Neil è felice, si vede, imbraccia la sua chitarra acustica, l’armonica vicino la bocca, tutti tra la folla, sanno che qualcosa di toccante sta per arrivare, e allora ecco che Young va a pescare nel suo repertorio fatto di 35 dischi e da Harvest, suo più grande successo commerciale, tira fuori la meravigliosa Heart of Gold, è una versione commovente e c’è chi davvero si emoziona a tal punto da trattenere a stento le lacrime, tutti cantano, la voce di Young si fonde con quella del pubblico, l’armonica, dolcissima ci culla in un viaggio onirico che sembra non avere mai fine, è la volta di Blowin’ in the Wind cover di Bob Dylan e vero e proprio manifesto pacifista, che le migliaia di persone presenti cantano con passione. La parte acustica del concerto finisce con Neil Young curvo sul pianoforte, il regalo per il pubblico di Roma è l’inedita Singer Without a Song, dolcissima ballata sussurrata da Young con i Crazy Horse ora sul palco ad unire le loro voci in questa meraviglia della musica.
Il concerto prosegue senza sosta e si elettrizza di nuovo, non c’è sosta, è incredibile come Neil possa andare avanti senza nessuna fatica, l’energia che la musica e che il pubblico gli trasmette è più forte di tutto, mi domando quanto possa resistere e spero in cuor mio che questo concerto non finisca mai.
Ramada Inn è l’altro lunghissimo pezzo del suo ultimo disco, una meravigliosa cavalcata musicale, un tappeto sonoro arabescato dagli interminabili soli di chitarra intessuti dal canadese. Il pubblico si scatena con Sedan Delivery, martellante e rock come poche cose sentite prima d’ora. L’apice arriva naturalmente, con quello che è l’inno di libertà realizzato da Neil Young: Rockin’ in the Free World, una delle canzoni più suonate dai musicisti di tutto il mondo, un martello, un maglio perforante che si staglia nel cielo di una Roma che oggi diventa più incantevole del solito, una versione devastante di Rockin’ che viene interrotta e ripresa per ben tre volte, il pubblico in delirio che pensa la canzone sia finita e invece il ritornello, travolgente, torna ancora e ancora e ancora una volta, travolgente, immenso, come l’emozione che mi pervade. Il concerto sembra finito, Young urla un “Crazy Horse!” per rendere omaggio alla sua band, i compagni di una vita, quelli che lo hanno accompagnato lungo gran parte del suo viaggio musicale, lui li ha chiamati così, e non ha mai spiegato bene il perché, ora è qui davanti a noi con il “Cavallo Pazzo”, l’ultima volta che salì su un palco della capitale fu nel lontano 1982, guarda caso sempre qui all’Ippodromo delle Capannelle, per i Crazy Horse invece è la prima volta a Roma.
I quattro escono dal palco, il pubblico li acclama a gran voce per un bis, tutti sanno che usciranno per suonare ancora, per regalare un’altra emozione a questa gente, tutti lo sanno, ma continuano ad invocarli quasi fosse un rituale magico. Eccoli rientrare sul palco, Neil imbraccia ancora la sua Gibson nera, bellissima e qui accade qualcosa di inconcepibile, inconcepibile perché pensavo di aver raggiunto l’apice della mia personale soddisfazione, insomma non avrei mai creduto che si potesse fare di meglio, invece Neil Young & Crazy Horse sfornano la monumentale Cortez the Killer capolavoro tratto da Zuma, disco del 1975, uno dei meno commerciali di Young, vero capolavoro e primo disco che vede per la prima volta la partecipazione di Frank “Poncho” Sampedro alla chitarra. Una canzone il cui testo racconta del genocidio azteco in Messico da parte dello spagnolo Hernàn Cortés.
Pubblico in delirio ed io con il groppo in gola per questa versione così sublime, così ipnotica caratterizzata da un intro di chitarra di circa tre minuti, farcita dal cantato dolce e furioso allo stesso tempo di Young che si dipana nello spazio e nel tempo come qualcosa di divino, surreale, immaginifico e perturbante. La conclusione dello show è Cinnamon Girl primo pezzo di Everybody Knows This is Nowhere, correva l’anno 1969 ed era la prima volta che Neil Young e i Crazy Horse realizzavano qualcosa insieme. È tutto terribilmente Rock! Due ore e dieci minuti di Rock nel vero senso della parola. Raramente ho visto tanta energia su un palco, tanta voglia di suonare insieme e di trasmettere emozioni al pubblico, Neil Young a quasi 70 anni suonati ha ancora tanto da insegnare a band magari anche brave, osannate, che riempiono gli stadi. Il vecchio Neil li mette ancora tutti in fila, nessuno ha il suo carisma, e non c’entra niente l’età, qui è questione di stile.
Raffaella Ponzo e Paolo Sutera, Sfilate.it
Neil Young in concerto, l'uomo che vibra con la sua chitarra
Essere un vecchio mito non vuol dire essere un mito vecchio. Il grande concerto romano di Neil Young tra tradizione, sperimentazione e molta commozione. La recensione e i video.
E poi arriva Neil Young. L’uomo che dagli anni ’60 ha cambiato mille vesti rimanendo sempre se stesso, inciso decine di dischi, sperimentato, combattuto, influenzato molta della migliore musica di oggi e segnato numerosissimi momenti e ricordi della nostra vita. Praticamente una leggenda vivente che, ad ogni concerto, anche quello tenuto a Roma, rimette in gioco se stesso e la sua ponderosa storia musicale.
Il palco del festival Rock in Roma alle Capannelle è allestito con una scenografia composta da enormi amplificatori vintage. Vicino alla batteria una bandiera nera dei pirati. Sullo sfondo un indiano a cavallo. Siamo nel mondo di Neil Young e dei Crazy Horse che appaiono sul palco con i loro capelli bianchi e le grandi braccia nude che ricordano quelle degli agricoltori del midwest. Neil Young è vestito completamente di nero (chitarra compresa) e indossa il suo solito cappello. La folla trepida ed urla al solo vedere comparire davanti ai suoi occhi cotanta parte della storia rock ma ancora non sa cosa aspettarsi.
Il concerto parte con Love and only love tratto da Ragged Glory del 1990 e sono subito più di dieci minuti di chitarre potenti e rodatissimo affiatamento sul palco. Neil ha 67 anni ma quando suona non ha 67 anni. Quando canta non ha 67 anni. Quando si muove non ha 67 anni. È uno spirito senza età e vibra letteralmente con la sua chitarra. Plasma a suo piacimento ogni suono e rumore che ne esce.
Si prosegue con uno dei suoi inni: Powderfinger e poi Psychedelic Pill, la title track dell’album del 2012 che contiene anche la seguente Walk like a giant. Le chitarre sono sempre più acide e rumorose fino all’apoteosi di Hole in the sky che, punteggiata da un coro di fischietti stranianti, si precipita in una lunga coda noise dove tutte le chitarre sul palco diventano tuoni e le luci lampi. Con una macchina del vento vengono lanciate cartacce che si agitano intorno ai musicisti finché sui mega schermi ai lati appare davvero la pioggia. Siamo nel bel mezzo di una tempesta. Ma ecco che Neil, novello stregone, proclama nel microfono: “no rain” e parte l’inedita There’s a hole in the sky con il suo coro rassicurante “I love the sun”.
Fino ad ora Neil e i suoi Crazy Horse ci hanno infilato senza tanti preamboli sul trenino che percorre le montagne russe della psichedelia, bombardandoci con suoni dissonanti ed elettrici. Tutto cambia quando Neil riappare sul palco da solo e si sistema l’armonica. Il pubblico esulta. Quando parte Heart of gold si alza un coro all’unisono e ognuno si arrende alla commozione. Non è finita qui: subito dopo arriva Blowin in the wind di Bob Dylan e Neil chiama il pubblico a cantare il ritornello in un coro finale senza strumenti. Poi si sposta al piano per la dolce Singer without a song mentre i Crazy Horse ritornano sul palco. Dopo questa sosta acustica e immacolata siamo pronti per ripartire senza fretta con Ramada Inn che però ben presto accellera e ci prepara per una versione esplosiva di Sedan Delivery, punk rock che scalda le gambe del pubblico, se non parte il pogo è un miracolo. Si continua con Surfer Joe and Moe the Sleaze per culminare nell’anthem totale Rockin’ in the free world. Tutte le braccia si alzano e rendono omaggio alla potenza della musica e dell’utopia. La canzone finisce ma poi ricomincia e finisce e ricomincia ancora. È la catarsi finale dell’ottovolante emozionale su cui ci ha fatto viaggiare Neil Young. Sono passate due ore dall’inizio del concerto e la band si ritira nel backstage mentre la folla già trepida al pensiero del bis.
L’attesa non viene delusa quando tornano sul palco e il primo pezzo è la meravigliosa Cortez the killer, una lunga cavalcata delineata ancora una volta con la seconda voce del bassista Billy Talbot.
Segue un’altra hit: Cinnamon Girl dall’album Everybody knows this is nowhere del ’69. Neil strapazza per l’ultima volta la sua Les paul nera poi alza un braccio per salutare il pubblico che ricambia. I musicisti si ricompattano e, finito davvero tutto, salutano abbracciati come gli attori a teatro. Neil ne approfitta per fare la doccia a chi è sottopalco con una bottiglia d’acqua mentre bacchette e plettri vengono lanciati in regalo. È tempo di lasciare lo spazio del concerto, portandoci a casa la possibilità di rocckeggiare in un mondo libero come il regalo più prezioso.
La scaletta del concerto romano (poi non interamente rispettata).
Chiara Calpini, XL Repubblica
1. Love And Only Love
2. Powderfinger
3. Psychedelic Pill
4. Walk Like A Giant
5. Hole In The Sky
6. Red Sun
7. Heart Of Gold
8. Blowin' In The Wind
9. Singer Without A Song
10. Ramada Inn
11. Sedan Delivery
12. Surfer Joe And Moe The Sleaze
13. Rockin' In The Free World
14. Cortez The Killer
15. Cinnamon Girl