Fork In The Road - Rassegna Stampa pt.1
Sembrava che gli archivi fossero cosa fatta. Sui grandi negozi on line, come Amazon, era già disponibile l’immagine del box con il pezzo, questo fino a metà febbraio. Poi, di nuovo, il silenzio. Ed ecco che, come è già successo un paio d’anni fa, spunta un disco nuovo. Solo che questa volta non ci possiamo consolare, non è Chrome Dreams.
È Fork In The Road.
Un disco elettrico, buttato lì senza una canzone degna di nota (o quasi), registrato tra una pausa e l’altra del tour 2008. registrato con la sua touring band (Ben Keith, pedal steel e tastiere, Chad Cromwell, batteria, Rick Rosas, basso, Pegi Young, voce, Anthony Crawford, voce e chitarra) Fork In The Road è un disco poco ispirato. Forse meriterebbe anche tre stelle ma, nell’ottica della discografia younghiana, questo è un album chiaramente minore.
Uno che dimenticheremo in fretta.
Young non è nuovo a queste capate, già in passato ha propinato dischi inutili, soprattutto negli anni Ottanta, e spesso mostra di lasciarsi trasportare più dall’emotività che dal ragionamento. Inciso in fretta e furia per perseguire la sua nuova avventura, quella dell’energia alternativa per la macchina, studiata assieme a Jonathan Goodwin, ed applicata alla sua Lincoln Continental del ’59. E ci ha costruito sopra un disco. Un disco garage, elettrico, ma scombinato.
Apre “When Worlds Collide”: elettrica, dura, con stacchi continui. Una canzone che mischia rabbia e forza: non male, ma niente di speciale. Questo è un po’ il motivo dominante del disco: tutto è già sentito.
Proprio tutto.
“Fuel Line”: ancora dura, la voce urla. Dal vivo rende abbastanza, ma manca di una linea melodica e si riduce ad un groviglio elettrico con voce tesa.
“Just Singing a Song” è una delle più belle del disco.
Se non altro ha una linea melodica piacevole, è una canzone. La base è sempre elettrica, ma le voci si impastano bene e il ritornello (“Just singing a song won’t change the world”) è decisamente ben costruito.
“Johnny Magic” è un brano rock qualunque, corredato da un coro che fa botta e risposta con il leader. La canzone è veloce, elettrica, con un buon assolo di chitarra centrale ma mi lascia completamente indifferente.
“Cough Up the Bucks” è anche peggio. Lungo intro strumentale poi Young si mette a cantare, con un ritornello rappato che torna di continuo ripetendo sino alla nausea il titolo del brano. Ce lo poteva risparmiare.
“Get Behind the Wheel” è uno speed rock, quasi rock and roll. Voce tesa, base melodica inesistente: solo energia, ritmo e chitarra. Non è male, anche se l’abbiamo sentita mille volte.
“Off the Road” è una ballata lenta, quasi introspettiva, però anche in questo caso la canzone manca. Anzi diventa noiosa con il suo lento ed inutile proseguo.
“Hit the Road” viene aperta da una chitarra elettrica devastante, poi entra la band e diventa un up tempo con le voci che fanno botta e risposta. Come il resto del disco è già sentita e non ha un minimo di appeal.
Young rifà sé stesso fino alla nausea, ma non rifà le cose migliori. Aveva fatto la stessa cosa con Living With War, ma li c’erano le canzoni ed il disco aveva un senso. Qui manca un po’ tutto, a parte la chitarra, la rabbia e voglia di arrivare a tutti con un messaggio indubbiamente nobile.
“Light a Candle”, quasi acustica, è la migliore del lavoro, assieme alla già citata “Just Singing a Song”. Come le altre è già sentita, ma se non altro c’è la ricerca di una melodia e poi, al contrario del resto, cresce alla distanza.
Chiude la canzone che dà il titolo al disco. Quasi sei minuti di doccia elettrica, “Fork In The Road”, come gran parte del lavoro, è stata preceduta dai commenti negativi di chi aveva già sentito le canzoni dal vivo (gli americani). Una sequenza di suoni, Young parla più che cantare e “Fork In The Road” mi sembra tirata per i capelli, decisamente poco ispirata e fondamentalmente inutile.
Paolo Carù, Buscadero
Sono passati 44 anni da quando, a bordo di una Pontiac del 1953 adattata a carro funebre, un ventenne Neil Young lasciò il natio Canada diretto a Los Angeles in cerca di fortuna. Di lì a poco, sarebbero nati i Buffalo Springfield. Il viaggio che questo mostro sacro del folk rock si appresta a fare adesso è molto diverso. Non solo per il mezzo utilizzato, una Lincoln Continental del '59 trasformata per l'occasione in auto elettrica di ultima generazione, ma anche per la direzione, da Wichita in Kansas a Washington DC. Un viaggio attraverso gli States (lo si potrà seguire in diretta su www.lincvolt.com) di cui il nuovo album di Young, il 34esimo in studio, costituisce l'ideale colonna sonora. A partire dal titolo, Fork In The Road, bivio nella strada. Dieci brani da ascoltare con i capelli al vento su una bella autostrada assolata, in cui l'anima allo stesso tempo sociale e intimista dell'autore di Harvest (1972) si dispiega completamente. Il tutto all'insegna di un rock blues che s'incunea nell'umore come un chiodo nel burro. L'iniziale “When worlds collide” s'incarica di traghettare l'ascoltatore nel mood giusto («Taking a trip across the Usa, gonna meet a lot of people along the way») ricordandoci che «accadono strane cose» quando «i mondi si scontrano». In un simile scenario può capitare, come narra “Johnny Magic”, di incontrare il destino «in un garage lontano», nascosto nelle «ingombranti sembianze di una Continental». Sporco e potente, Fork In The Road farà ricredere chi trova esagerata l'etichetta di «padrino del grunge» appiccicata a Young da certa critica. Sbaglierebbe però chi pensasse di avere a che fare con un disco monocorde. Nella ruvida omogeneità dei brani, di cui campione è il singolo “Fork In The Road”, spiccano per contrasto i romantici sussurri di “Off the road” e le malinconie folk di “Light a candle”. Quando il vecchio Neil scala la marcia e rallenta la corsa della sua auto, insomma, è ancora capace di farci sognare. Il disco è disponibile anche in versione con dvd.
Michele Monteverdi, Il Sole 24 Ore
Torna a ruggire il vecchio Neil Young nel nuovo album Fork In The Road. Anni disseminati di classici della musica pop rock , ma anche di paurose cadute artistiche e di stile, non hanno fiaccato la verve di Neil che riparte da ritmiche rocciose, chitarre sporche, giri boogie in stile southern rock (ascoltare la grintosa title track che chiude il disco, spesso vicina all'ultimo Bob Dylan più bluesy), rare occhiate all'anima acustica di Harvest (che torna però prepotentemente nella commovente "Light A Candle", uno dei migliori episodi), lunghi brani dalle ritmiche ossessive, su cui il Nostro torna ad occuparsi di tematiche sociali, dall'ecologia alla globalizzazione. Come già ci aveva abituato, l'impressione è che molto materiale sia stato registrato quasi in diretta, mantenendo volutamente l'urgenza, l'immediatezza, la rozza approssimazione della prima versione. Se l'album alla fine ne risente per un eccessivo tono monocorde del suono, ne guadagna per sincerità e freschezza. Ottimo lavoro, Neil.
PiacenzaSera.it
È Fork In The Road.
Un disco elettrico, buttato lì senza una canzone degna di nota (o quasi), registrato tra una pausa e l’altra del tour 2008. registrato con la sua touring band (Ben Keith, pedal steel e tastiere, Chad Cromwell, batteria, Rick Rosas, basso, Pegi Young, voce, Anthony Crawford, voce e chitarra) Fork In The Road è un disco poco ispirato. Forse meriterebbe anche tre stelle ma, nell’ottica della discografia younghiana, questo è un album chiaramente minore.
Uno che dimenticheremo in fretta.
Young non è nuovo a queste capate, già in passato ha propinato dischi inutili, soprattutto negli anni Ottanta, e spesso mostra di lasciarsi trasportare più dall’emotività che dal ragionamento. Inciso in fretta e furia per perseguire la sua nuova avventura, quella dell’energia alternativa per la macchina, studiata assieme a Jonathan Goodwin, ed applicata alla sua Lincoln Continental del ’59. E ci ha costruito sopra un disco. Un disco garage, elettrico, ma scombinato.
Apre “When Worlds Collide”: elettrica, dura, con stacchi continui. Una canzone che mischia rabbia e forza: non male, ma niente di speciale. Questo è un po’ il motivo dominante del disco: tutto è già sentito.
Proprio tutto.
“Fuel Line”: ancora dura, la voce urla. Dal vivo rende abbastanza, ma manca di una linea melodica e si riduce ad un groviglio elettrico con voce tesa.
“Just Singing a Song” è una delle più belle del disco.
Se non altro ha una linea melodica piacevole, è una canzone. La base è sempre elettrica, ma le voci si impastano bene e il ritornello (“Just singing a song won’t change the world”) è decisamente ben costruito.
“Johnny Magic” è un brano rock qualunque, corredato da un coro che fa botta e risposta con il leader. La canzone è veloce, elettrica, con un buon assolo di chitarra centrale ma mi lascia completamente indifferente.
“Cough Up the Bucks” è anche peggio. Lungo intro strumentale poi Young si mette a cantare, con un ritornello rappato che torna di continuo ripetendo sino alla nausea il titolo del brano. Ce lo poteva risparmiare.
“Get Behind the Wheel” è uno speed rock, quasi rock and roll. Voce tesa, base melodica inesistente: solo energia, ritmo e chitarra. Non è male, anche se l’abbiamo sentita mille volte.
“Off the Road” è una ballata lenta, quasi introspettiva, però anche in questo caso la canzone manca. Anzi diventa noiosa con il suo lento ed inutile proseguo.
“Hit the Road” viene aperta da una chitarra elettrica devastante, poi entra la band e diventa un up tempo con le voci che fanno botta e risposta. Come il resto del disco è già sentita e non ha un minimo di appeal.
Young rifà sé stesso fino alla nausea, ma non rifà le cose migliori. Aveva fatto la stessa cosa con Living With War, ma li c’erano le canzoni ed il disco aveva un senso. Qui manca un po’ tutto, a parte la chitarra, la rabbia e voglia di arrivare a tutti con un messaggio indubbiamente nobile.
“Light a Candle”, quasi acustica, è la migliore del lavoro, assieme alla già citata “Just Singing a Song”. Come le altre è già sentita, ma se non altro c’è la ricerca di una melodia e poi, al contrario del resto, cresce alla distanza.
Chiude la canzone che dà il titolo al disco. Quasi sei minuti di doccia elettrica, “Fork In The Road”, come gran parte del lavoro, è stata preceduta dai commenti negativi di chi aveva già sentito le canzoni dal vivo (gli americani). Una sequenza di suoni, Young parla più che cantare e “Fork In The Road” mi sembra tirata per i capelli, decisamente poco ispirata e fondamentalmente inutile.
Paolo Carù, Buscadero
Sono passati 44 anni da quando, a bordo di una Pontiac del 1953 adattata a carro funebre, un ventenne Neil Young lasciò il natio Canada diretto a Los Angeles in cerca di fortuna. Di lì a poco, sarebbero nati i Buffalo Springfield. Il viaggio che questo mostro sacro del folk rock si appresta a fare adesso è molto diverso. Non solo per il mezzo utilizzato, una Lincoln Continental del '59 trasformata per l'occasione in auto elettrica di ultima generazione, ma anche per la direzione, da Wichita in Kansas a Washington DC. Un viaggio attraverso gli States (lo si potrà seguire in diretta su www.lincvolt.com) di cui il nuovo album di Young, il 34esimo in studio, costituisce l'ideale colonna sonora. A partire dal titolo, Fork In The Road, bivio nella strada. Dieci brani da ascoltare con i capelli al vento su una bella autostrada assolata, in cui l'anima allo stesso tempo sociale e intimista dell'autore di Harvest (1972) si dispiega completamente. Il tutto all'insegna di un rock blues che s'incunea nell'umore come un chiodo nel burro. L'iniziale “When worlds collide” s'incarica di traghettare l'ascoltatore nel mood giusto («Taking a trip across the Usa, gonna meet a lot of people along the way») ricordandoci che «accadono strane cose» quando «i mondi si scontrano». In un simile scenario può capitare, come narra “Johnny Magic”, di incontrare il destino «in un garage lontano», nascosto nelle «ingombranti sembianze di una Continental». Sporco e potente, Fork In The Road farà ricredere chi trova esagerata l'etichetta di «padrino del grunge» appiccicata a Young da certa critica. Sbaglierebbe però chi pensasse di avere a che fare con un disco monocorde. Nella ruvida omogeneità dei brani, di cui campione è il singolo “Fork In The Road”, spiccano per contrasto i romantici sussurri di “Off the road” e le malinconie folk di “Light a candle”. Quando il vecchio Neil scala la marcia e rallenta la corsa della sua auto, insomma, è ancora capace di farci sognare. Il disco è disponibile anche in versione con dvd.
Michele Monteverdi, Il Sole 24 Ore
Torna a ruggire il vecchio Neil Young nel nuovo album Fork In The Road. Anni disseminati di classici della musica pop rock , ma anche di paurose cadute artistiche e di stile, non hanno fiaccato la verve di Neil che riparte da ritmiche rocciose, chitarre sporche, giri boogie in stile southern rock (ascoltare la grintosa title track che chiude il disco, spesso vicina all'ultimo Bob Dylan più bluesy), rare occhiate all'anima acustica di Harvest (che torna però prepotentemente nella commovente "Light A Candle", uno dei migliori episodi), lunghi brani dalle ritmiche ossessive, su cui il Nostro torna ad occuparsi di tematiche sociali, dall'ecologia alla globalizzazione. Come già ci aveva abituato, l'impressione è che molto materiale sia stato registrato quasi in diretta, mantenendo volutamente l'urgenza, l'immediatezza, la rozza approssimazione della prima versione. Se l'album alla fine ne risente per un eccessivo tono monocorde del suono, ne guadagna per sincerità e freschezza. Ottimo lavoro, Neil.
PiacenzaSera.it
Fork In The Road è il bivio su cui ognuno di noi si affaccia almeno una volta nella vita. Lui, la direzione da prendere l’ha già decisa. È rock and roll, sporca, elettrica, venata di hip hop, arrabbiata ed ecologista. La strada di un tizio che a sessant’anni suonati non vuole proprio mettersi l’anima in pace. Uno che lotta da sempre: contro la dipendenza dalla droga a 20 venti anni, contro le sventure della vita, contro le malattie che hanno colpito due figli, contro le amministrazioni scellerate degli Usa. Neil Young non ci sta, neppure in quest’ultimo, potentissimo album Fork In The Road . Disco dove i testi sono espliciti, come avvisa l’adesivo di ordinanza, dove i mezzi termini sono banditi e la poesia è messa da parte a favore di un linguaggio pragmatico. Il tutto condito dalla vecchia ma pur sempre affascinante metafora del viaggio. Viaggio come libertà, innocenza, ricordo. Viaggio, sempre in macchina, che inizia con il primo brano dove Neil avvisa, da moderno traghettatore delle nostre miserie contemporanee, che stiamo per attraversare gli Usa. E allora basta mettersi comodi e pescare a piene mani nel nostro immaginario infarcito di leggende dell’America «on the road», prendere una macchina in affitto, magari una vecchia Lincoln, magari dal garage di Neil che adora collezionare auto. Le macchine saranno alimentate con qualsiasi cosa tranne che a petrolio perché il musicista vuole dimostrare l’efficacia delle energie alternative. La musica del viaggio è più varia che mai: l’hip hop in “Cough up the bucks”, la durezza delle chitarre in “Fuel line”, la morbidezza inconfondibile della ballata acustica in “Light the candle”. Poi c’è la title-track, che è rock and roll ad alti giri, voce scura da bandito, casse dello stereo sparate altissime. Neil ne è certo: qualcosa si può fare con una canzone, tranne cambiare il mondo.
Silvia Boschero, L’Unità
Al di là dell'ovvia mitologia (trasformata come da contratto in luogo comune dai tanti che ne scrivono, per passione o per dovere) tutta nordamericana fatta di strade e macchine - nello specifico, la sua Lincoln Continental del '59 adattata alle alimentazioni alternative - la vera domanda da porsi sarebbe: che tassello occupa Fork In The Road nel 2009 di Neil Young? Un 2009 fatto tanto di passato (il lavoro, immane, sulla sua colossale retrospettiva attesa a breve nei negozi) quanto di futuro (i video appena pubblicati sul suo sito). Un 2009, in sostanza, fatto di contraddizioni tra quello che è stato, quello che è, e quello che potrebbe essere. E di recessione. Se, quindi, dovessimo trovare una collocazione nel corpus younghiano annuale per questo Fork In The Road, potremmo assegnare al nuovo capitolo in studio del rocker canadese il ruolo di faro sull'attualità, quella contingente, che condiziona la vita quotidiana dei tanti John Doe che "devono dimenticare quest'anno, per salutare le truppe, ancora invischiate in quella cazzo di guerra" (dalla title track). Un seguito tutto sommato coerente a Living With War, forse più domestico e meno militante, in un certo senso, ma sempre politico. Per questo più spontaneo, anche musicalmente: sicuramente sincero, diretto, a tratti polveroso. Energico, senza dubbio. Non trascurato, però, nonostante certi aspetti che potrebbero far pensare gli audiofili ad una diffusa leggerezza nel fissare su nastro i brani. Si percepisce una certa urgenza, infatti, nel "tirare fuori" le canzoni di questo disco: dal cantato, quasi sempre stentoreo, declamatorio, al riff scabro, in apertura, di "When worlds collide" (ogni riferimento alla pietra miliare della fantascienza del '51 sarà puramente casuale?), che marca - anche a livello sonoro - lo standard di questo disco (un crunch saturo, quasi onnipresente - eccezion fatta per le "soste" su "Off the road" e "Light a candle" - lungo le dieci tracce, come il rombo dei motori delle auto in viaggio ascoltato da uno dei tanti distributori disseminati sulle highway statunitensi), è subito chiara la matrice primitiva di Fork In The Road. Primitiva perché adatta a salire "dal basso", perché conscia che non sono questi i periodi più propizi a voli pindarci, nonostante le grandi speranze ("Ho una speranza, ma non puoi mangiare la speranza", sempre da "Fork In The Road") che si stagliano all'orizzonte. È quindi molto più complesso e sfaccettato, l'ultimo lavoro di Young, nonostante l'elementare e scarna apparenza. Perché Neil, come tutti noi, sa che di questi tempi ci si trovi tutti davanti ad un bivio ("a fork in the road", appunto), e che la posta in gioco sia altissima. E che, forse, le questioni di maggiore gravità vanno trattate con (intelligente) leggerezza. Magari stando "dietro al volante, cantando una canzone. Per cambiare il mondo".
Davide Poliani, rockol.it
Passata la sua personale demagogia anti-Bush di Living With War (e i dischi-recupero di Chrome Dreams II e soprattutto dei due bootleg live di pregio), Neil Young approda ancora all’attualità mondiale con un nuovo disco “a pretesto” (non propriamente “a tema”), stavolta larvatamente Obama-oriented. Fork In The Road è così dedicato alle problematiche ecologico-ambientali, e alle cosiddette “fonti energetiche alternative”. Il punto di vista, manco a dirlo, è quello delle automobili - una delle passioni del loner canadese - e delle “Lincoln” in modo particolare. Come in Living With War Young si rimangiava la sua leggendaria introversione, in Fork In The Road si rimangia il suo amore per prendere posizione contro l’inquinamento e il mercato del petrolio.
A parte lo scialpo rock sudista di “Johnny Magic” (che si porta ancora dietro la logorrea di Greendale), il disco rimpolpa la chitarra del leader - di nuovo privata dei Crazy Horse - di cori hippie in “Just Singing a Song”, di soul motown in “Fuel Line”, del passo quasi west-coast rap in “Cough Up The Bucks”.
Young si ritaglia pure uno spazio per un lento con organo gospel (“Hit The Road”) e una ballata folkish vecchio stile, quasi dimentica di Harvest, ma riprende toni possenti in “Get Behind The Wheel”, con cui rispolvera persino l’honky-tonk di Everybody’s Rokin’ (ma stavolta innervandolo del giusto spirito di rocker di razza) e in “Off The Road”, la risposta da macho a “Hit The Road”.
Con l’ormai usuale accompagnamento video (che lo vede nuovamente star sui generis), con il singolo “Cough Up The Bucks” e svariati brani distribuiti gratuitamente via myspace, e con un bilancio che tende di nuovo all’attivo (tiro corretto, meno ingenuità), le dieci tracce hanno un mood sfacciatamente arioso, in linea con il supporto alla conversione da consumo a benzina a consumo elettrico delle “Lincvolt”, brevettate da Jon Goodwin.
Nondimeno, hanno assorbito il modus operandi degli ultimi decorsi del vegliardo autore: la scrittura di getto, che evita spesso e volentieri di guardarsi indietro preferendo puntare all’istintività (resa competente dall’esperienza).
Preludio alla fantomatica pubblicazione del primo volume dei mitici Archives.
Michele Saran, ondarock
Da Chuck Berry a Bruce Springsteen, passando per i Beatles e i Rolling Stones, il rock celebra da sempre le automobili e la strada. Neil Young ha portato questa connessione a un livello superiore con Fork In The Road, il suo nuovo disco nei negozi da oggi, incentrato sulla sua Lincoln Continental del 1959.
Ma non pensiate che il vecchio cantautore canadese sia un nostalgico: l'automobile di cui è follemente innamorato, tanto da dedicarle un intero album, è un modello molto particolare che funziona a elettricità e benzina, con un motore ibrido che Neil ha finanziato. La sua Lincoln fa parte del LincVolt Project, una joint venture con Johnathan Goodwin, il pioniere americano del biodiesel. Da anni Young sta finanziando la costruzione di un modello commerciabile di motore che possa andare a elettricità e a combustibile ecologico. In una dichiarazione ormai entrata nella storia, Neil ha detto lo scorso anno che «la musica non cambierà il mondo», lo ha ribadito nella canzone finora inedita “Just Singing A Song” («Cantare una canzone e basta non cambierà il mondo») ed ha precisato - a proposito del suo programma di pubblicazione di inediti, Archives, annunciato da anni e in arrivo in dvd e Blu-ray a giugno - che «la LincVolt è più importante per il pianeta Terra di qualsiasi Archive», scatenndo l'ira dei fan che lo seguono in ogni parte del mondo e che guardano a lui come una delle ultime rockstar in grado di fare la differenza in campo artistico. Ma il cambiamento che prefigurava Bob Dylan, secondo Neil, non è possibile attraverso la musica e allora - fermo restando i brani, per il 90% elettrici di Fork In The Road - le sue forze sono concentrate sul progetto della Lincoln elettrica/biodiesel, ribattezzato «Repowering the american dream» (ridare potere al sogno americano) lo stesso titolo scelto per un documentario che finirà in dvd e che testimonierà il viaggio di Young e compagni dalla California fino alla Casa Bianca, a Washington.
«Questa è l'epoca dell'innovazione. È importante avere fiducia. Ma la fiducia da sola non basta. Bisogna trovare il carburante per la gente, ed è questa la sfida più grande. Chi riuscirà a raccogliere questa sfida? Chi ne ha le forze? Chi fa ricerca, oggi? Io lo sto facendo, ogni ora e ogni giorno che passano».
Ovvio che la musica finisca in secondo piano, anche se è già pronto un tour europeo, in partenza dalla Germania il 9 giugno senza alcuna tappa, finora, fissata in Italia. L'edizione speciale di Fork In The Road affianca al cd un dvd con dei videoclip realizzati sulla base dei nuovi brani, oltre alla registrazione di una parte di un concerto in cui Young e la sua band suonano “A Day In The Life”, il capolavoro dei Beatles di Sgt. Pepper. Scelta bizzarra, visto che di Lennon & McCartney avrebbe potuto rifare “Drive My Car”.
Giulio Brusati
È il Neil Young più ispido e spettinato, quindi il più vero; un signore di 64 anni che come quel cugino del Minnesota non presta attenzioni più di tanto ai suoi dischi e tour, li fa e basta, senza clamore, senza spot, con la medesima energia compulsiva di quand'era giovane. Ci gioco la camicia (non la porto mai) che ha sfogato queste dieci canzoni in pochi giorni, arrangiandole all'impronta; e magari le aveva nel cassetto da una vita, bozze a loro volte sfogate dopo una notte insonne o in un accesso di energia alla fine di un tour.
Non voglio fare l'ipercritico, sono solo un fotografo. Clic. Il Neil Young 2009 è questo, non tanto diverso a dire il vero da quello degli anni passati. Una tetragona testa dura che non perde occasione per ribadire amori e vizi, il gusto per rockabilly e blues, il passo ritmico da bar band di provincia, la passioncella per i suoni distorti specie se incongruenti. Sì, certo, molti passaggi Young li ha già suonati e noi li abbiamo già ascoltati. Ma, come ama dire suo cugino, quello di prima, "succede che prendo una canzone che conosco e semplicemente inizio a eseguirla nella mia mente. È così che faccio meditazione. Molti, per meditare, si mettono a guardare una crepa nel muro o a contare pecore, angeli, soldi o cose del genere... Io non medito su nessuna di queste cose. Io medito su una canzone. Ad esempio, nella mia mente eseguo di continuo “Tumbling Tumbleweeds” di Bob Nolan, mentre guido l'auto o sto seduto o qualunque altra cosa faccio. La gente pensa che mi sta parlando e che io risponda loro, ma non è così. Io ascolto una canzone nella mia mente. A un certo punto alcune parole cambiano e allora inizio a scrivere un pezzo nuovo."
Chi cerca serenate deve attendere fino a “Off The Road”, traccia numero 7, e alla fine non farà gran bottino. È un disco Zumesco piuttosto, graffiante, nervoso, anche se un po' distratto, con molta energia che si perde per aria. Comunque segnatevi “Johnny Magic” e “Just Singing A Song”, fra tutte sembrano le canzoni che navigheranno meglio il tempo e ogni tanto faranno capolino nelle scalette dei concerti.
Riccardo Bertoncelli, delrock.it
Essere giovani è forte. All’inizio, nella seconda metà degli anni Cinquanta e soprattutto nel decennio successivo, l’insegnamento del rock (and roll) fu innanzitutto questo: i ragazzi non sono solo degli abbozzi di adulti, da considerare alla stregua di un apprendista più o meno maldestro al cospetto di un lavoratore fatto e finito. I ragazzi sono forze della natura che muoiono dalla voglia di liberarsi, di sprigionarsi, di stagliarsi sullo sfondo di un muro, di uno stadio, di un orizzonte sconosciuto che ancora non riescono a vedere ma che già li reclama. I ragazzi, per loro fortuna e a loro rischio, ancora non conoscono così a fondo la paura e il dubbio, e la sconfitta, da barattare i propri slanci con un po’ di sicurezza.
Essere giovani è forte. È un valore in se stesso. È un universo parallelo - che si ripopola, provvidenzialmente, a ogni nuova generazione, e che ad ogni nuova generazione, fatalmente, si svuota quasi del tutto - in cui si entra senza nessun merito ma dal quale si merita eccome di essere espulsi. Non è solo questione di età: la differenza tra restare all’interno con onore e uscire con ignominia non la fa l’età in quanto tale; la fa l’invecchiamento del cuore, la disponibilità mansueta, codarda, a omologarsi in tutto e per tutto. Il fallimento del rock, a partire dagli anni Settanta, è stato questo: nella maggior parte dei casi, purtroppo, i ragazzi di talento avevano solo talento. Nessuna tempra morale. Nessuna determinazione a battersi non solo per se stessi ma per gli altri. Individualisti nel senso peggiore del termine, intossicati di successo ancor più che di droga.
Eppure, se non altro, i fallimenti collettivi hanno un pregio: fanno risaltare le figure di quei pochi che hanno tenuto duro e hanno seguitato ad andare dritti per la loro strada, convinti che il rivoluzionario convertito faccia ancora più schifo del cortigiano precoce. Per restare nell’ambito del rock, ci sono quelli che con l’andare del tempo hanno fatto una pessima fine - lasciandosi scivolare di buon grado nella melma del pop più ruffiano, nel cui tiepido abbraccio sguazzano tutti contenti esibendo le loro abbronzature patinate e i loro migliori sorrisi - e quelli che in un modo o nell’altro sono rimasti in piedi a darci dentro sul serio, cacciatori per passione e non (non sia mai) bracconieri per profitto.
«Uhm, lungo la strada per venire qui, Stone Gossard… ha detto che un suo amico, Lonnie, chiama la musica di Neil, uh… “funk di montagna”. Lui era “il re del funk di montagna.” Ho pensato che fosse forte».
Neil è Neil Young. Stone Gossard è il chitarrista dei Pearl Jam. La frase è di Eddie Vedder, a sua volta cantante dei Pearl Jam. L’occasione, che risale al 12 gennaio 1995, è la cerimonia di ingresso dello stesso Young nella “Rock’n'Roll Hall of Fame”. Come qualsiasi altra, naturalmente, la definizione di Gossard è opinabile. Però ha ragione Vedder: è forte. Una bella, robusta, azzeccata (e azzardata) combinazione di termini in cui coesistono un’impressione immediata di potenza e un sottofondo di pericolo: re, funk, montagna. Il re fa quello che crede e, se non è solo un innocuo ornamento delle democrazie liberali, non ne deve rispondere a nessuno. Il funk è il lato oscuro della black music: non così immediato come il blues, non così suadente come il soul, non così celebrato come il jazz. La montagna è durezza e difficoltà: riparo naturale per chi sia abbastanza in gamba da viverci, minaccia costante per chi vi si accosti in modo avventato.
Piaccia o non piaccia - nei suoi esiti artistici e nei suoi atteggiamenti personali - Neil Young ha innanzitutto questo pregio: non si arruffiana nessuno. Non rincorre le mode, non replica i dischi in funzione del loro esito commerciale, non è disposto a cedere i suoi pezzi a uso pubblicitario. Preferisce sbagliare qualcosa, e fare molto, piuttosto che eclissarsi chissà dove e lasciare che la sua immagine sia ingigantita dall’assenza, nel presupposto, quasi sempre falso, che il protrarsi dell’elaborazione incrementi le probabilità di ottenere un capolavoro. La sua prospettiva è completamente diversa: dieci canzoni, o giù di là, equivalgono a un album. Quando le canzoni sono state scritte si incidono. Quando si è finito di inciderle si pubblicano. E lo stesso, più o meno, vale per l’approccio espressivo: battere nuove strade significa sondarne le possibilità, vuoi con un’incursione isolata, vuoi con una serie di esplorazioni successive, e non abiurare per sempre a ciò che si è fatto in precedenza.
Album dopo album, canzone dopo canzone, Neil Young si spinge in direzioni diverse. Anche contraddittorie, certo. Come ha ben sintetizzato Antonio Lodetti sul Giornale, recensendo quest’ultimo Fork In The Road, «Esistono e convivono - spesso contraddicendosi - mille Neil Young. Dal rocker solitario all’indiano metropolitano folk e psichedelico dei Buffalo Springfield, dal ‘country boy’ disincantato di Harvest e di mille altre belle pagine acustiche a quello protopunk che ha ispirato i Pearl Jam. La mappa dei suoi dischi è frastagliata come la sua personalità. Unico comun denominatore: l’impegno sociale. Sempre contro la guerra, la violenza, l’ingiustizia».
Davvero non poco, specie di questi tempi. Ma la tensione morale è solo la premessa: “Fork In The Road” regge la scena con le proprie forze. La maggior parte dei pezzi, ad eccezione della mediocre “Johnny Magic”, è carica di un’energia fremente che scandisce il viaggio e che invita a seguire di buon passo questo “giovanotto di 63 anni” che non si dà per vinto, nonostante l’aneurisma cerebrale che lo ha colpito nel 2005 e che, per poco, non se l’è portato via. Le pause, “Off the Road” e “Light a Candle”, sono le piccole soste in cui lasciar rifluire i pensieri e le emozioni: i momenti in cui risalta ancora di più, forse, la consapevolezza che lui è lo stesso che tanti anni fa compose Harvest e Tonight’s The Night. Testardo e combattivo e improvvisamente introverso, oggi come allora. Pieno di fede nella sua arte. Pieno a volte di dolore, a volte di rabbia, per la società che c’è intorno. E però determinato, sempre, a fare a modo suo, a non sprecare, a non sporcare, il dono del suo talento. Ancora un passo. Ancora una canzone. Essere giovani è forte. Restare integri per tutta la vita è straordinario.
Federico Zamboni, mirorenzaglia.org
Non voglio fare l'ipercritico, sono solo un fotografo. Clic. Il Neil Young 2009 è questo, non tanto diverso a dire il vero da quello degli anni passati. Una tetragona testa dura che non perde occasione per ribadire amori e vizi, il gusto per rockabilly e blues, il passo ritmico da bar band di provincia, la passioncella per i suoni distorti specie se incongruenti. Sì, certo, molti passaggi Young li ha già suonati e noi li abbiamo già ascoltati. Ma, come ama dire suo cugino, quello di prima, "succede che prendo una canzone che conosco e semplicemente inizio a eseguirla nella mia mente. È così che faccio meditazione. Molti, per meditare, si mettono a guardare una crepa nel muro o a contare pecore, angeli, soldi o cose del genere... Io non medito su nessuna di queste cose. Io medito su una canzone. Ad esempio, nella mia mente eseguo di continuo “Tumbling Tumbleweeds” di Bob Nolan, mentre guido l'auto o sto seduto o qualunque altra cosa faccio. La gente pensa che mi sta parlando e che io risponda loro, ma non è così. Io ascolto una canzone nella mia mente. A un certo punto alcune parole cambiano e allora inizio a scrivere un pezzo nuovo."
Chi cerca serenate deve attendere fino a “Off The Road”, traccia numero 7, e alla fine non farà gran bottino. È un disco Zumesco piuttosto, graffiante, nervoso, anche se un po' distratto, con molta energia che si perde per aria. Comunque segnatevi “Johnny Magic” e “Just Singing A Song”, fra tutte sembrano le canzoni che navigheranno meglio il tempo e ogni tanto faranno capolino nelle scalette dei concerti.
Riccardo Bertoncelli, delrock.it
Essere giovani è forte. All’inizio, nella seconda metà degli anni Cinquanta e soprattutto nel decennio successivo, l’insegnamento del rock (and roll) fu innanzitutto questo: i ragazzi non sono solo degli abbozzi di adulti, da considerare alla stregua di un apprendista più o meno maldestro al cospetto di un lavoratore fatto e finito. I ragazzi sono forze della natura che muoiono dalla voglia di liberarsi, di sprigionarsi, di stagliarsi sullo sfondo di un muro, di uno stadio, di un orizzonte sconosciuto che ancora non riescono a vedere ma che già li reclama. I ragazzi, per loro fortuna e a loro rischio, ancora non conoscono così a fondo la paura e il dubbio, e la sconfitta, da barattare i propri slanci con un po’ di sicurezza.
Essere giovani è forte. È un valore in se stesso. È un universo parallelo - che si ripopola, provvidenzialmente, a ogni nuova generazione, e che ad ogni nuova generazione, fatalmente, si svuota quasi del tutto - in cui si entra senza nessun merito ma dal quale si merita eccome di essere espulsi. Non è solo questione di età: la differenza tra restare all’interno con onore e uscire con ignominia non la fa l’età in quanto tale; la fa l’invecchiamento del cuore, la disponibilità mansueta, codarda, a omologarsi in tutto e per tutto. Il fallimento del rock, a partire dagli anni Settanta, è stato questo: nella maggior parte dei casi, purtroppo, i ragazzi di talento avevano solo talento. Nessuna tempra morale. Nessuna determinazione a battersi non solo per se stessi ma per gli altri. Individualisti nel senso peggiore del termine, intossicati di successo ancor più che di droga.
Eppure, se non altro, i fallimenti collettivi hanno un pregio: fanno risaltare le figure di quei pochi che hanno tenuto duro e hanno seguitato ad andare dritti per la loro strada, convinti che il rivoluzionario convertito faccia ancora più schifo del cortigiano precoce. Per restare nell’ambito del rock, ci sono quelli che con l’andare del tempo hanno fatto una pessima fine - lasciandosi scivolare di buon grado nella melma del pop più ruffiano, nel cui tiepido abbraccio sguazzano tutti contenti esibendo le loro abbronzature patinate e i loro migliori sorrisi - e quelli che in un modo o nell’altro sono rimasti in piedi a darci dentro sul serio, cacciatori per passione e non (non sia mai) bracconieri per profitto.
«Uhm, lungo la strada per venire qui, Stone Gossard… ha detto che un suo amico, Lonnie, chiama la musica di Neil, uh… “funk di montagna”. Lui era “il re del funk di montagna.” Ho pensato che fosse forte».
Neil è Neil Young. Stone Gossard è il chitarrista dei Pearl Jam. La frase è di Eddie Vedder, a sua volta cantante dei Pearl Jam. L’occasione, che risale al 12 gennaio 1995, è la cerimonia di ingresso dello stesso Young nella “Rock’n'Roll Hall of Fame”. Come qualsiasi altra, naturalmente, la definizione di Gossard è opinabile. Però ha ragione Vedder: è forte. Una bella, robusta, azzeccata (e azzardata) combinazione di termini in cui coesistono un’impressione immediata di potenza e un sottofondo di pericolo: re, funk, montagna. Il re fa quello che crede e, se non è solo un innocuo ornamento delle democrazie liberali, non ne deve rispondere a nessuno. Il funk è il lato oscuro della black music: non così immediato come il blues, non così suadente come il soul, non così celebrato come il jazz. La montagna è durezza e difficoltà: riparo naturale per chi sia abbastanza in gamba da viverci, minaccia costante per chi vi si accosti in modo avventato.
Piaccia o non piaccia - nei suoi esiti artistici e nei suoi atteggiamenti personali - Neil Young ha innanzitutto questo pregio: non si arruffiana nessuno. Non rincorre le mode, non replica i dischi in funzione del loro esito commerciale, non è disposto a cedere i suoi pezzi a uso pubblicitario. Preferisce sbagliare qualcosa, e fare molto, piuttosto che eclissarsi chissà dove e lasciare che la sua immagine sia ingigantita dall’assenza, nel presupposto, quasi sempre falso, che il protrarsi dell’elaborazione incrementi le probabilità di ottenere un capolavoro. La sua prospettiva è completamente diversa: dieci canzoni, o giù di là, equivalgono a un album. Quando le canzoni sono state scritte si incidono. Quando si è finito di inciderle si pubblicano. E lo stesso, più o meno, vale per l’approccio espressivo: battere nuove strade significa sondarne le possibilità, vuoi con un’incursione isolata, vuoi con una serie di esplorazioni successive, e non abiurare per sempre a ciò che si è fatto in precedenza.
Album dopo album, canzone dopo canzone, Neil Young si spinge in direzioni diverse. Anche contraddittorie, certo. Come ha ben sintetizzato Antonio Lodetti sul Giornale, recensendo quest’ultimo Fork In The Road, «Esistono e convivono - spesso contraddicendosi - mille Neil Young. Dal rocker solitario all’indiano metropolitano folk e psichedelico dei Buffalo Springfield, dal ‘country boy’ disincantato di Harvest e di mille altre belle pagine acustiche a quello protopunk che ha ispirato i Pearl Jam. La mappa dei suoi dischi è frastagliata come la sua personalità. Unico comun denominatore: l’impegno sociale. Sempre contro la guerra, la violenza, l’ingiustizia».
Davvero non poco, specie di questi tempi. Ma la tensione morale è solo la premessa: “Fork In The Road” regge la scena con le proprie forze. La maggior parte dei pezzi, ad eccezione della mediocre “Johnny Magic”, è carica di un’energia fremente che scandisce il viaggio e che invita a seguire di buon passo questo “giovanotto di 63 anni” che non si dà per vinto, nonostante l’aneurisma cerebrale che lo ha colpito nel 2005 e che, per poco, non se l’è portato via. Le pause, “Off the Road” e “Light a Candle”, sono le piccole soste in cui lasciar rifluire i pensieri e le emozioni: i momenti in cui risalta ancora di più, forse, la consapevolezza che lui è lo stesso che tanti anni fa compose Harvest e Tonight’s The Night. Testardo e combattivo e improvvisamente introverso, oggi come allora. Pieno di fede nella sua arte. Pieno a volte di dolore, a volte di rabbia, per la società che c’è intorno. E però determinato, sempre, a fare a modo suo, a non sprecare, a non sporcare, il dono del suo talento. Ancora un passo. Ancora una canzone. Essere giovani è forte. Restare integri per tutta la vita è straordinario.
Federico Zamboni, mirorenzaglia.org