Neil Young - Milano 2003
ECCO
NEIL YOUNG IN «GREENDALE»: UNA BUONA NOVELLA
Ci
vuole coraggio. Forse anche un pizzico d’incoscienza. Andare in
giro da solo per il mondo con un pugno di magnifiche chitarre e di
tastiere d'altri tempi, sistemarsi al centro del palco di un teatro e
mettersi a suonare tante canzoni nuove. Raccontandole per filo e per
segno. E lasciando in seconda battuta i classici di un repertorio di
stratosferica bellezza. Roba da pazzi. O da Neil Young. Che cavallo
matto del rock lo è per davvero e se n’è sempre altamente
infischiato di regole e convenzioni, facendo esattamente quel che
voleva. A rischio di far perdere l’equilibrio mentale anche al più
accanito dei fan. La sua ultima follia è questo tour atipico. Due
tempi in perfetta solitudine per tre ore di musica. Una prima parte
dedicata ai dieci inediti di Greendale , concept-album d’uscita
prossima ventura (forse questa estate) registrato con Billy Talbot e
Ralph Molina dei Crazy Horse. Una seconda riservata ai cavalli di
battaglia, riveduti e corretti. Scelta estrema, che divide. E,
infatti, in Scandinavia, all’apertura del tour europeo, sono volati
pareri contrapposti. Chi ha (quasi) gridato al miracolo, chi allo
scandalo. Allo Smeraldo di Milano, buona parte dei «rusties» (lo
zoccolo duro dei fan) sa già tutto e non si lascia sorprendere. Chi,
invece, è lì per sentirsi una nostalgica collezione di vecchie hits
ci rimane un po’ male. Anche perché i biglietti non sono proprio a
prezzi popolari: le prime file superano, infatti, i 90 euro.
L’altissimo Neil, di buon umore e in ottima forma, mette subito in
chiaro le cose: «Prima le nuove canzoni, poi quelle che vi aspettate
di ascoltare». Si mette a sedere e parte con una bellissima ballata
vecchio stile, destinata a diventare il manifesto di Greendale :
titolo ancora incerto, chi la chiama “Falling From Above” e chi,
prendendo spunto dal ritornello, “Love And Affection”. Il
messaggio, però, arriva chiaro e forte: «Un po’ d’amore e
d’affetto/ in tutto quello che fai/ renderà il mondo un posto
migliore/ con te e senza di te». Su quel palco spoglio, circondato
dalle chitarre acustiche e dalla luce fioca di grossi ceri bianchi,
il grande canadese presenta la sua ultima creatura. Ci fa entrare nel
mondo di una cittadina chiamata Greendale, dove vive gente tranquilla
e l’atmosfera ricorda antichi tempi bucolici. C’è la famiglia
Green, nonni, figli e nipoti. Chi si gode il meritato riposo, chi fa
l’artista senza fortuna, chi si dedica a cause sociali, ognuno ha
il suo posto. C’è anche una prigione a due passi dalla chiesa.
Tutto bello, tutto tranquillo. Lontano mille miglia dal caos malvagio
del resto del pianeta. Poi, come spesso capita, il diavolo ci mette
la coda. Scatta la violenza: il giovane Green, fermato in macchina,
spara a un poliziotto e finisce in galera. Il giocattolo si rompe e
sulla tranquilla cittadina piomba la rapacità dei media. La famiglia
cerca di difendersi dall’invasione, ma è inutile. Il nonno,
esasperato dalla situazione, viene colto da infarto, rivendicando
sino all’ultimo il diritto alla privacy. La nipote, attivista
ambientale, viene sequestrata dall’Fbi. Tanti temi, insomma, si
rincorrono e si sovrappongono strada facendo in quella che Neil ha
definito una «musical novel», che si dice diverrà presto anche un
film. Young spiega i pezzi con maniacale minuzia attraverso lunghi
monologhi e chi non sa l’inglese rischia l’abbiocco. Gesti
lentissimi, cambi di chitarra, pause per lavare l’armonica.
Qualcuno, esasperato, esce dalla sala, qualcuno protesta ad alta
voce. Laconica la risposta dal palco: «Fuck You». E si riprende.
Sono ballate scarne, spesso venate di blues, talvolta con suggestioni
melodiche da brivido. Come quando Neil lascia la sei corde e passa
all’organo. Fioccano titoli sparsi, da confermare: “Devil's
Door”, “Carmichael”, “Find What You're Looking For”, la
commovente “Grandpa's Dinner”. Inquietante la voce filtrata, da
megafono, che anima alcuni momenti finali e comunica una sgradevole
sensazione di stato d’assedio. Ogni riferimento alla recente guerra
è puramente casuale? Dopo il tuffo nella storia agrodolce di
Greendale, ecco il secondo tempo tanto atteso. Classici a go-go,
quindi, ma anche qui scheletrici e disadorni, privi di qualsivoglia
smania retorica. Anzi, con qualche umanissima imprecisione. Si parte
con “Lotta Love”, si esulta con la meraviglia poetica di “Old
Man”, uno dei suoi capolavori di sempre. Poi un tentativo abortito
al piano per “Expecting To Fly”: Neil ci prova, ma non è serata.
E cambia pezzo suggellando il tutto con un «fuck» ben assestato.
Ancora brividi con “Don't Let It Bring You Down” e sorpresa per
una strana versione di “Long May You Run”, la country-ballad che
incise nel 1976 con Stephen Stills. Young la esegue all’organo,
lentissima e chiesastica, scandendo il ritornello che così assume
significati più profondi e universali: l’atmosfera è di massima
emozione. Poi “Comes A Time” e “After The Gold Rush”: il
pubblico ascolta in religioso silenzio, i pochi che osano applausi a
scena aperta, urletti all’americana e titoli a richiesta vengono
sonoramente insultati dai più. La chiusura, prima del magnifico bis
di “Heart Of Gold”, è simbolicamente affidata a “War Of Man”:
«Nessuno vince, è una guerra dell’uomo» canta Neil. Come dargli
torto?
Diego
Perugini, L'Unità 5 maggio 2003
ALLO
SMERALDO DI MILANO L'UNICA DATA ITALIANA DEL TOUR TRA INEDITI E BRANI
STORICI
Neppure
uno tra i duemila spettatori del Teatro Smeraldo (ieri tutto
esaurito) s' è pentito di aver pagato salato il biglietto per
l'unico concerto italiano di Neil Young. Anche l'isolato contestatore
che dopo un' ora di concerto gli ha gridato «home» (và a casa),
subito zittito sonoramente dall'artista e dal resto del pubblico, si
dev' essere infine convinto che valeva la pena di spendere gli 85
euro per una poltrona delle prime file e i 45 per un posto lassù in
galleria: perché la generosità espressa in quasi tre ore di musica
è la dimostrazione che non sempre il rock è una grande truffa; e le
emozioni, i turbamenti, le impressioni, i pensieri che l'indomito
canadese ha solleticato - proponendo anche una decina di inediti
preceduti tutti da storielle dell'immaginaria cittadina di Greendale
- sono di valore inestimabile. Un concerto buono per riconciliarsi
con le avidità del music business; un successo caldo e meritato,
riscosso senza giocare la facile carta di una serata tutta greatest
hits storici.
Sul palco, Neil Young ha portato solo
se stesso, e le sue chitarre, naturalmente, oltre che piano e pump
organ su cui spiccano delle candele accese, e l'armonica sempre a
portata di bocca. È infatti un «Solo Tour Europeo» quello che lo
ha fatto approdare allo Smeraldo, dopo il debutto a Stoccolma il 22
aprile e le prime tappe in Norvegia, Danimarca e Germania; un tour
solitario e acustico con ancora poco più di una manciata di date,
tra cui tre serate all'Apollo di Londra dal 17 al 19 maggio. In
giugno Young batterà in lungo e in largo gli States, ma in versione
elettrica con band alimentando così il dilemma che da sempre
affascina i fan di quale sia la vera essenza della sua anima:
acustica o elettrica? In attesa di ascoltare il nuovo album
annunciato per settembre e realizzato con due musicisti già Crazy
Horse, la sua band storica, il bassista Billy Talbot e il batterista
Ralph Molina. In penombra, circondato da una serie di chitarre e con
a portata di mano il piano, il grande vecchio canadese - 58 anni il
12 novembre - ha subito fatto capire che non riposa sugli allori dei
quarant'anni di carriera: per i primi 90 minuti di concerto ha
proposto soltanto nuove canzoni, nessuna - ad essere sinceri -
d'impatto sconvolgente, per lo meno al primo ascolto, ma comunque
simbolo innegabile del coraggio di Young di mettere in discussione la
sua ispirazione presente, di non accontentarsi di essere una leggenda
vivente del rock.
La
capacità di reinventarsi pur rimanendo sempre se stesso è d'altra
parte una delle qualità che contribuiscono a renderlo speciale fin
dagli esordi negli anni Sessanta: ha esplorato i colori di folk,
rockabilly, country, rock, persino del soul e del R&B con l'album
pubblicato l'anno scorso Are You Passionate?. Riuscendo peraltro a
far puntualmente riconoscere al volo il suo personale sound. Solo
nella seconda parte del concerto, Neil Young s' è concesso il lusso
di far salire al massimo l'entusiasmo generale con brani già
conosciuti e tanto amati: con solo l'imbarazzo della scelta tra le
decine e decine di gioielli del suo prezioso passato come “After
the Gold Rush”, “Harvest Moon”, “Lotta Love”, “Old Man”,
“Don' t Let It Bring You Down”. L'essenzialità della performance
e il minimalismo del set non hanno fatto altro che esaltare la
potenza della forza espressiva di Young, artista mito e uomo dai
grandi dolori privati, una voce dal timbro inconfondibile, fragile,
acuta, cupa, comunque appassionata, e un tocco di chitarra che è
vero marchio di fabbrica e non delude mai.
Gloria
Pozzi, Corriere della Sera (2003)