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Psychedelic Pill - Rassegna Stampa (pt.3)


A soli quattro mesi di distanza dall’uscita del suo primo album di cover, Americana, Neil Young ritorna in studio insieme ai suoi collaudatissimi e fidati Crazy Horse nella formazione al completo, regalandoci l’ennesimo capolavoro discografico. Psychedelic Pill, il 35esimo disco del sessantaseienne Neil Young è un viaggio nel centro degli anni 70 a cavallo tra il country e la psichedelica attraverso nove tracce dilazionate in un doppio cd (o un triplo vinile per i nostalgici) e lungo oltre un’ora e mezza.
L’album si apre con “Driftin’ Back”, splendida jam lunga ben 27 minuti dove i quattro cowboys del rock si divertono e giocano con i loro strumenti affidando la prima parte del pezzo ad un’esecuzione unplugged, asciutta e precisa, colorata solo dalla voce di Young, una chitarra e i cori dei Crazy Horse. Ma l’atmosfera dura ben poco, giusto un paio di minuti, il tempo per fare entrare l’intera band elettrica al completo su un solo di chitarra semplice ma poderoso. A seguire troviamo la title track dell’album, “Psychedelic Pill”, completamente avvolta da un effetto flanger, mai titolo più azzeccato di questo per un brano acido e aggressivo che sembra arrivare direttamente da Woodstock. “Ramada Inn” è una graziosa ballad da ascoltare tutto in un fiato in cui gli assoli si perdono tra le digressioni musicali sciolte in quasi 17 minuti di brano. “Twisted Road” con il suo ritmo sanguigno ed un leggero effetto echo sulla voce sembra uscire da un saloon pieno di buona birra e cappelli da cowboy poggiati sul tavolo.
Una delle mie preferite è “For The Love Of Man”, delicata poesia quasi sussurrata su di un tappeto leggero di chitarre ed una ritmica ermetica, quasi eterea. Ma la perla dell’album è “Walk Like a Giant” dove riescono a convivere perfettamente chitarre distorte, un fischio sornione e cori doo-wop alla Beach Boys. Durante i suoi 16 minuti il brano riesce ad evolversi, sviluppandosi tra echi, feedback, fuzz e dissonanze ipnotiche, come un’allucinazione sonora che ci porta lontano quasi a voler frantumare ogni limite. L’ultimo brano è una bonus track, un mix alternativo della title track “Psychedelic Pill”, ruggente e rabbiosa ma senza nessun effetto sopra. Decisamente più godibile rispetto alla versione precedente. Un album imperdibile per chi ha voglia di fare un viaggio nel passato per arrivare fino ai giorni nostri a cavallo di una chitarra ed assaporando lentamente un pezzo di storia della musica americana.
Tony Romano, Panorama

“Dite che dovremmo civilizzarci ma noi non non vogliamo la vostra civilizzazione”: questa frase di Cavallo Pazzo risuona in ogni nota dei Crazy Horse da più di quarant’anni. Psychedelic Pill ne è una delle più memorabili testimonianze: un’ora e mezza di cavalcate elettriche, registrate in presa diretta e senza tagli, gloriosamente imperfette, abrasive, trabordanti. Una sfida alle produzioni leccate, al consumo di mp3, al tempo che corrode, a chi vive tranquillo ma muore arrugginito.
Si parte col grande capo Neil, voce e chitarra acustica: "Hey now now, Hey now now, I’m driftin’ back". Un invito a tornare indietro, trasportati da un mantra che fa eco all’indimenticabile “Hey Hey My My”… ed ecco che un fade cinematografico fa entrare in scena i Crazy Horse, già nel mezzo di una jam. I quattro improvvisano per mezz’ora, fregandosene di tutto (sì, anche di te, caro ascoltatore). Le due chitarre bruciano mentre la voce racconta di finti guru, music business e quadri di Picasso che diventano wallpapers. Non è solo una delle canzoni più autoindulgenti che abbiano aperto un disco. E’ anche una sfida: tu da che parte stai? Non priva di ironia, comunque: l’ultima strofa recita “Troverò la mia religione, dovrei diventare un pagano, mi farò un taglio di capelli hip-hop”. Neil, l’hai promesso eh?
La title-track ha l’unica originalità di sembrare inzuppata nell’LSD: la voce ondeggia a destra e sinistra e il suono delle chitarre è fradicio di flanger. Un trip di tre minuti che deve aver lasciato incerti anche i nostri, se alla fine han pensato di metterla come bonus track, ripulita dagli effettacci. Il primo capolavoro invece è “Ramada Inn”: la storia di un amore che dura negli anni, vede i figli partire, supera i dolori, impara la resistenza. I Crazy Horse suonano una ballata elettrica di diciassette minuti mentre Neil canta strofe con una melodia molto semplice e molto bella. La sua forza comunicativa è nella schiettezza: “Ogni giorno il sole spunta e loro si aggrappano a quello che hanno passato, lui la ama così tanto, così tanto, semplicemente fa quello che si deve fare”. Chi non vorrebbe dedicare questa canzone alla propria compagna, quando entrambi si avrà i capelli bianchi?
Seguono due pezzi meno ambiziosi, di poco più di tre minuti: “Born In Ontario” è un country elettrico e scanzonato, che potrebbe stare su Americana; più originale invece “Twisted Road”, nella quale Neil rende omaggio agli anni ‘60 rubando un riff alla Band e raccontando della scoperta di “Like a Rolling Stone”, dei Grateful Dead e di Roy Orbison. Imperdibile il ritratto di Dylan: “La poesia rotolava fuori dalla sua lingua, sembrava un Hank Williams con la gomma da masticare che ti chiedeva, how does it feeeels?”. Segue “She’s Always Dancing”, la terza lunga cavalcata del disco, che ricorda “Like A Hurricane” ma purtroppo non ha un riff memorabile. Spicca soprattutto per l’atmosfera dei cori, ma le due canzoni che seguono la oscurano subito.
“For The Love Of Men”, unico momento di raccoglimento del disco, é dedicato a Ben, uno dei due figli disabili di Neil. Si potrebbe chiamarla country se il ritornello, sostenuto da un imprevisto tappeto di archi, non si trasfigurasse in una vera e propria preghiera. Il riverbero immerge il brano in una luce crepuscolare, mentre il vibrato della voce ricorda la fiamma tremula di una candela. L'ennesima dimostrazione dello straordinario potere di Neil, che riesce ad essere poetico perché è senza retorica. e commuove così tanto perché mette in scena con sincerità sentimenti profondamente umani.
L’emozione è appena calata che attacca “Walk Like A Giant”, il grande capolavoro del disco e forse degli ultimi vent’anni di carriera del nostro. I Crazy Horse incedono marziali su due accordi di fuoco, condotti da un fischiettare straniante, finché il grande capo torna e canta la rabbia di una generazione: “Camminavo come un gigante sulla terra, ora mi sento come una foglia al vento, io e alcuni amici cercavamo di salvare il mondo, poi il vento è cambiato e tutto si è rotto, e mi si spezza il cuore a pensare a quanto ci siamo andati vicini". Al termine di ogni strofa parte un pezzo di quell’assolo infinito cominciato quarant’anni fa su “Cowgirl In The Sand”, una contorsione ogni volta più incendiaria. Alla fine la rabbia diventa suono, quel suono: quello della ruggine che non dorme mai. Un’eruzione di overdrive, l’urlo selvaggio e disarticolato delle corde. “Hoka Hey! oggi è un buon giorno per morire” urlava Cavallo Pazzo ai suoi, prima della battaglia. E “Walk Like A Giant” sembra proprio un gigantesco moto di ribellione verso la schiavitù che abbiamo imposto all'uomo e alla terra, verso la tecnica che ha ucciso lo spirito, guidati, come trenta e passa anni fa, da un unico principio: "“E’ meglio bruciare subito che arrugginire”.
Chiudono quattro minuti di violenza, gli strumenti che rintoccano all’unisono fra echi di feedback e rumori valvolari. E’ musica concreta, un funerale sioux, un requiem per un sogno. Il suono si spegne, nero.
Andrea Liuzza, goldsoundz.it


A Neil Young si potrebbe dedicare quel brano di Paul Simon, “Still Crazy After All These Years”, perché dopo tutti questi anni (e stiamo parlando di cinque decadi), l'artista canadese è ancora fuori dagli schemi, completamente imprevedibile e, detto nel mondo migliore possibile, folle. A pochi mesi di distanza da Americana, Young infatti pubblica il 30 ottobre un doppio cd/triplo vinile Psychedelic Pill, la prima raccolta di materiale originale dal 2003, inciso con la sua storica band Crazy Horse. Gli ci sono voluti due compact perché il materiale è costituito da lunghe cavalcate elettriche, psichedeliche e cosmiche, con le chitarre in evidenza, e la sua voce è sempre più lunare, eterea e sottile. Il titolo viene da una delle canzoni più pazze del disco -nel senso di sfrenate, sciolte, libere dai vincoli delle mode e dei trend- in cui Neil descrive una ragazza con un vestito luccicante, una «party girl» che «cerca di divertirsi», con una voglia matta di ballare, una donna che ipnotizza e porta a una dimensione altra. Il chitarrista dei Crazy Horse, il chitarrista Frank «Poncho» Sampedro ha detto al periodico americano Rolling Stone che «si tratta di noi che facciamo una jam con Neil e ci divertiamo. Sarebbe piaciuto al nostro produttore David Briggs (scomparso nel '95). Da quando se n'è andato, abbiamo perso un po' la guida. Potevamo suonare qualsiasi cosa e abbastanza bene, ma non è che abbiamo fatto 'sti grandi dischi». Certo, magari nemmeno il nuovo Psychedelic Pill è superiore a Everybody Knows This Is Nowhere o Ragged Glory, per non parlare di Rust Never Sleeps. Ma il nuovo disco contiene così tante parti splendide di chitarra, solista e non solo, da lasciar soddisfatti coloro che hanno consumato nei decenni quei capolavori. C'è anche l'autobiografica “Born in Ontario”, dove Neil, su una cascata sferragliante di chitarre, canta: «Non importa da dove vieni; importa cosa fai/ E questo vecchio mondo è stato buono con me/ cerco di ricambiare e di vivere da uomo libero/ sono nato in Ontario». Poi offre uno squarcio sulla sua ispirazione e sui motivi per i quali viene spinto a comporre: «Cerco di scrivere una canzone allegra ma ogni tanto, quando le cose vanno male, mi capita di prendere la penna e scribacchiare delle frasi su un foglio, cercando di dare un senso alla rabbia che covo dentro». Più delicata è “Drifting Back”, all'inizio dominata dalle chitarre acustiche e avvolta nella nebbia della voce di Neil ma dopo un minuto e mezzo trasformata in una ballata elettrica. A torreggiare sull'intero album, i 20 minuti colmi di feedback di “Walk Like A Giant” in linea con quello che Neil oggi è: un rocker che cammina come un gigante.
Giulio Brusati, Il Giornale di Vicenza

E' uscito da pochi giorni il nuovo album della forse più famosa rockstar canadese. Vecchio e rabbioso come un cane ammalato, Neil Young non riesce a rassegnarsi alla pensione, e torna alla riscossa con i suoi Crazy Horse, con i quali sempre nel 2012 ha pubblicato un discusso Americana. Di inediti tuttavia era da un po’ che non se ne vedevano, per la precisione dal 2003 con Greendale, e per alcuni può essere un sollievo accorgersi che il sound di dischi immortali come Rust Never Sleeps possa rivivere in un doppio album nuovo di zecca. Anzi, a dirla tutta sembra proprio che poco o nulla sia mutato dal modo di fare musica che i Crazy Horse hanno inventato ormai molti anni or sono, guidati da un personaggio come Neil Young, che nonostante gli alti e bassi di una lunga carriera ha diffusamente dimostrato doti innegabili come autore di musica, paroliere, interprete, arrangiatore, solista, poeta…
Psychedelic Pill si presenta come un disco fuori dal tempo, a cominciare da un titolo e da una copertina che richiamano dritto agli anni d’oro dell’acid rock, con forse qualche lacrima di nostalgia che in alcuni punti del disco ha evidentemente preso la mano a Cavallo Pazzo e i suoi, portandoli a realizzare otto brani quasi come se il tempo non fosse passato. Un disco intriso di nostalgia, che spesso affida la sua voglia di passato a un verso, a un giro armonico imparato a memoria, a un assolo familiare, tanto che il Boston Globe scriveva con benevola ironia “Neil Young’s new journey through the past”. Giochi di parole a parte, l’osservazione è perfettamente sottoscrivibile: il disco non aggiunge nulla di nuovo a quanto già si può apprezzare dai dischi storici del connubio Young-Crazy Horse, ma si presenta piuttosto come il ritorno di un modo di fare musica che dà prova di essere inossidabile. Solo Neil Young poteva impiegare due dischi per incidere nove tracce: la sua specialità è proprio questa, dilatare fino all’inverosimile lo spazio musicale di un brano, riempiendolo di soli di chitarra che paiono scariche elettriche, passaggi strumentali duri, grezzi come la colonna sonora di Dead Man. Poesia del grunge. Apre il disco un brano esemplare: “Driftin’ Back”. Nei suoi 27 minuti, Young ha voluto riversare una serie di pensieri e impressioni che paiono vagabondaggi in un passato che è ricordo: una lunga meditazione elettrica a cui forse non siamo più molto abituati, e in cui il nostro amato ha voluto apparire forse più vecchio di quel che è, prendendosela anche con la moda degli mp3 con frasi del tipo: “quando ascoltate la mia canzone, avete solo il 5 per cento, una volta prendevate tutto”. Un brano che con la sua ingombranza di sicuro non sa stare al passo con i tempi dell’iPhone, ma che ha davvero la voglia di dimostrare che un file mp3 è forse troppo piccolo per una carica emotiva così forte e intensa, come solo Young è capace. “Driftin’ Back” sembra però essere solo uno dei lati della medaglia, e il disco purtroppo abbina momenti come questo, di grande ispirazione, ad altri brani che non hanno la stessa energia, e sembrano più che altro una ripresa non troppo convinta di suggestioni tratte da altri album: basta sentire la title track per rendersi conto che di buono c’è solo il riff iniziale in questo brano, ma il testo è inconsistente, e anche l’arrangiamento sembra seguire troppo fedelmente alcune sperimentazioni di Le Noise, non così piacevoli. Molto meglio il colosso da 16 minuti di “Ramada Inn”, che dà sempre l’impressione di qualcosa di già sentito, come fosse una variazione su “Like a Hurricane”, ma la struggente malinconia di cui è intriso, unita al procedere narrativo dei testi di Young, in cui però è sempre aperta la porta delle emozioni, regala un brano appassionante e appassionato.
Dispiace però riscontrare anche momenti di grande ingenuità come “Twisted Road”, in cui Young ha voluto celebrare i grandi del suo periodo, a cominciare dai suoi idoli Dylan, Roy Orbison e i Grateful Dead di Jerry Garcia: un’idea che potrebbe anche essere meritoria, ma non sembra molto ben riuscita soprattutto per la povertà artistica del brano, che veramente sembra scritto da qualcuno che non ha vissuto quegli anni, e non ha conosciuto da vicino i personaggi di cui parla. E in effetti a ben guardare di materiale riempitivo se ne trova un po’ troppo per essere un disco di nove brani, a cominciare da Ontario, che spreca un buon riff in un ritornello abbozzato e piuttosto ripetitivo. Sicuramente meglio nel lato B “She's Always Dancing”, e soprattutto “Walk Like a Giant”, in cui di nuovo c’è un quarto d’ora abbondante di tempo per permettere agli strumenti di occupare i propri spazi e preparare il terreno a un brano che è davvero un bel sentire tanto per il testo e il cantato quanto per le parti strumentali, articolate anche da un punto di vista ritmico al punto da fare il brano uno dei migliori del disco.
Si può concludere osservando che i brani migliori sono i più lunghi, perché lì Young e soci mostrano di non lasciare inutilizzato nemmeno un secondo, e ci sono il tempo e lo spazio per raccontare storie appassionanti, ispirate e convincenti da un punto di vista musicale. Poteva essere un disco di soli cinque brani, e non avrebbe avuto punti deboli, ma troppo forte è stata la tentazione di realizzare un’opera più grande, che contenesse anche pezzi meno riusciti, che da un caposcuola come Young potevano tranquillamente venire scartati.
Eugenio Gona, outsidersmusica.it

Il nome di Neil Young viene associato soprattutto a due formazioni, Buffalo Springfield e Crosby, Stills, Nash & Young, nelle quali il musicista ha militato durante la sua carriera. Spesso e volentieri però viene anche affiancato da quello dei Crazy Horse, una backing band, precisamente la backing band con cui il cantautore ha sfornato un bel po' di album e alcuni tra i suoi pezzi più conosciuti (“Cinnamon Girl” e “Cowgirl In The Sand” vi dicono niente?).
Una collaborazione iniziata nel lontano '69 e che continua fino ad oggi. Il 2012 in particolare è stato un anno prolifico per la coppia Young-Crazy Horse, che infila una bella doppietta in discografia: Americana, raccolta di cover di canzoni tradizionali americane uscito lo scorso giugno e a distanza di neanche cinque mesi il nuovo Psychedelic Pill.
Al numero trentacinque nel catalogo dei lavori in studio del menestrello canadese, l'album è composto da nove brani inediti divisi in due cd, visto che l'ascolto si protrae per quasi un'ora e mezza. Tanta carne sul fuoco quindi, ad iniziare dal brano che apre le danze, “Driftin' Back”, il più lungo in tracklist: distorte e conturbanti le corde dell'elettrica vibrano al classico tocco del songwriter, in un'intensa cavalcata folk rock di quasi mezz'ora. Chitarre ed effetti sparati restano al centro della scena anche nei pezzi successivi e si fanno da parte solo per il brano che chiude la prima parte di Psychedelic Pill, il leggero country rock di “Born In Ontario”, in cui Young celebra lo Stato che gli ha dato i natali. Il secondo cd è altrettanto ruvido, graffiante e amplificato, eccezion fatta per la ballata “For The Love Of Man”. Sono proprio le lunghe parti strumentali, inebrianti “pillole psichedeliche”, la punta di diamante dell'intero lavoro.
La sensazione è quella di un gruppo di vecchi amici che suonano insieme da anni e che si ritrovano ancora una volta nella stessa stanza ad improvvisare e buttare giù note che sgorgano dagli strumenti naturalmente, una dietro l'altra, fluide e imponenti come le cascate del Niagara, al confine con l'Ontario.
Antonietta Frezza, xtm.it

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