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Neil Young - Teatro degli Arcimboldi, Milano 24.2.2008

di Salvatore Esposito da www.ilpopolodelblues.com


Neil Young sin dai suoi esordi ha lasciato che nella sua eclettica personalità artistica convivessero sempre e comunque due anime, una acustica e una elettrica, a cui spesso ha alternato esperimenti e incursioni in territori a lui nuovi come la musica elettronica, il blues, il soul e il country. Le due anime del canadese sono state cristallizzate in due dischi epocali, Rust Never Sleeps, mitico disco inciso dal vivo con soli brani inediti e Live Rust, successivo live inciso nel corso del tour del 1978 per promozionale proprio Rust Never Sleeps, da cui fu tratto anche l’omonimo film-concerto. Così a distanza di trent’anni da Rust Never Sleeps e dopo aver scelto per anni di concentrarsi sul palco solamente su concerti ora elettrici ora acustici, Neil Young torna alla vecchia formula con una band messa su per l’occasione composta da Ben Keith (pedal steel, lap steel, chitarra e organo), Rick Rosas (basso) e Ralph Molina (batteria) con la partecipazione di Antony Crawford (piano e background vocal) e la moglie Pegi (background vocal), che ha anche aperto il concerto con una bella performance unplugged in cui ha eseguito alcuni brani tratti dal suo recente album di debutto. Il concerto, come da programma si è aperto con il set acustico introdotto dalla sempre emozionante From Hank To Hendrix un brano quasi programmatico, che era contenuto in Harvest Moon del 1992. Neil Young sempre all’acustica regala prima una Ambulance Blues mozzafiato segnata da una eccellente performance vocale, poi quel gioiello che è l’ancora inedita Sad Movies. Il canadese si sposta poi al piano per una magnifica versione di A Man Needs A Maid in cui il refrain strumentale è eseguito al sintetizzatore. Seguono poi prima l’inedita Try poi la sempreverde Harvest anche questa segnata da un ottima prova vocale. Neil ritorna poi al piano per Journey Through The Past, eseguita in un silenzio quasi irreale, con la sua voce a fare da assoluta padrona della scena. Seguono poi Yellow My Mind eseguita al bajo, l’inedita Love Art Blues che risale ai tempi dell’abortito reunion album con Crosby, Stills & Nash del 1974, Don’t Let Bring You Down e i due superclassici Heart Of Gold e Old Man, a suggellare un set acustico da brividi. Dopo una pausa di circa un quarto d’ora, il candese risale sul palco con la band e si parte subito con una torrida Mr. Soul, seguita a ruota da due brani tratti dal suo ultimo album Chrome Dreams II, ovvero il quasi punk di Dirty Old Man e la melodica Spirit Road. La band è in grande forma con Rick Rosas che scandisce i tempi come un metronomo al basso, il Crazy Horse Ralph Molina che sfoggia un drumming mai così perfetto e il grande ben Keith che accompagna all’altra chitarra Neil Young. Sul palco mentre vengono eseguiti i vari brani un artista dipinge delle tele (che in seguito saranno vendute all’asta su internet) che richiamano le varie canzoni che canta Neil e ciò crea un atmosfera di magmatica creatività, essendo molte di queste tele davvero molto interessanti in termini prettamente artistici, essendo ispirate direttamente dalla performance del canadese. Arrivano poi due super classici Down By The River e Hey Hey My My, tiratissime e dense di feedback con Neil assolutamente sugli scudi alla chitarra. La sempre intensissima Too Far Gone apre ad un break semi-acustico con la cover di Don Gibson, Oh Me Lonesome e la gradevolissima The Believer tratta da Chrome Dreams II. Chiudono il set una travolgente Powderfinger e la lunghissima e roventissima  No Hidden Path, a suggellare un concerto assolutamente perfetto. Neil ritorna poi sul palco per un graditissimo bis con Cinnamon Girl applauditissima dal pubblico. Certo se al suo fianco ci fossero stati i Crazy Horse probabilmente ora staremmo parlando di un altro concerto, forse con più sbavature ma la storia si sarebbe ripetuta troppo pedissequamente. Chi conosce Neil Young sa che non ama ripetersi e questo concerto, come tutto il tour ha una storia a se, fatta di grande rock, grandi canzoni e tanta poesia. Per chi non c’è stato consigliamo vivamente di procurarsi una registrazione del concerto, perché merita davvero dato l’alto tasso di intensità emotiva nel set acustico e di grande energia in quello elettrico.


L'eterno trionfo

"Sei un poeta!" gli grida qualcuno dopo le prime canzoni, ma lui non risponde, anzi, per la prima mezz'ora di concerto non pronuncia nemmeno una parola fino a quando non alza lo sguardo sulla sala gremita degli Arcimboldi e dice: "Bel posto qui, eh? E meno male che questa sala doveva essere provvisoria". Chi domenica sera si aspettava un Neil Young in tono minore dopo i recenti problemi di salute, ha dovuto ricredersi assistendo a un concerto di quasi due ore e mezzo che, dopo l'apertura affidata alla moglie Pegi e alle sue canzoni country, ha visto Young esibirsi prima per un' ora in veste solista tra chitarra, pianoforte e pianola riproponendo classici degli anni Settanta come “Heart of gold”, “Ambulance blues”, “A man needs a maid”, “Harvest” e “Old man” poi, dopo una fisiologica pausa di venticinque minuti per riprendere fiato, il canadese è salito sul palco con la band per un'altra ora abbondante, questa volta con un set elettrico e tiratissimo in cui non si è risparmiato alternando vecchi pezzi come “Mr. Soul”, “Down by the river” e “Powderfinger” a cose più recenti come “Dirty old man”, “Spirit road” e i dieci minuti di “No hidden path”, fino al boato che ha accolto “Hey hey my my”. Pubblico in predominanza maschile e over 40, diviso nell'ascolto tra soggezione e adorazione nei confronti di un artista che a sessantadue anni riesce ancora a emanare un carisma incredibile. E alla fine del concerto la folla abbandona le poltrone e si accalca sotto il palco ad ascoltare “Cinnamon girl” con Young soddisfatto che saluta e ringrazia. È il musicista invecchiato meglio tra quelli della sua generazione. Bob Dylan compreso.
Andrea Morandi, Repubblica 26 febbraio 2008

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