Le Noise - Rassegna Stampa (pt.3)
L’orso del Canada, Sir Neil Young si schernisce quando alle domande di un intervistatore, sul fatto che il tocco che assalta la sua chitarra oramai è una zampata rabbiosa, radicale e primitiva, risponde sarcastico ….tutto è fatto per essere rotto….. Ed è proprio da prendere in parola, basta entrare nel suono di Le Noise, ultima fatica della sua chilometrica collana discografica, per rendersi conto che l’accoglienza non è morbida affatto e che, sempre sull’elevazione di una scrittura cattedratica, da un colpo di spugna al field melanconico delle antiche praterie per abbracciare la dottrina del rumore e un pelo nuovo da puma selvaggio.
Con la complicità del mitico Daniel Lanoise, Young, chiuso nella sua casa di Los Angeles, da solo, senza band e con l’accordatura ferrata di un’acustica e di un’elettrica, da fuoco e passione alla sua rabbia covata da tempo negli interstizi del suo caratteraccio looner e asociale, e le braci che rimangono a sfrigolare sono queste otto tracce doloranti, di clangore volumetrico, lasciano sospese perplessità e anche un plastico retrogusto dubbioso, di un’elettricità da planning work troppo studiata a tavolino e confezionata per un cash poco sincero.
Lanoise di suo ci mette tutta la tecnologia mirata ad esaltare timbriche e modalità delle sei corde, lui, il mito scontroso del grande rock sfoga, sperimenta e si ubriaca di questa sua urgenza espressionistica che si sposa o si odia senza mediazione, che potrebbe far guardare oltre i confini come fare amaramente rimpiangere il passato di ballate e trifogli sognanti in bocca.
Forse un progetto in cerca di nuovi ascoltatori, ma anche quest’improbabile e piccola salvezza non fa presa; riverberi, fuzz, delay e l’armatura coriacea di uno spirito anarchico non rendono giustizia – da un punto di vista d’analisi – a chi del suono polveroso e nicotinico dell’eroe ne ha fatto vessillo di libertà e propedeutiche respirazioni di spazi senza dogane; questo disco tracima a dissolvere quella rudezza vera e sporca della genuinità a favore di qualcosa di serie, artificioso e fuori memoria, inno al digitale e morte all’artigianilità, come a racchiudere una tempesta in una scatolina di plexiglas.
Voce e istinto sono preda di calcoli, livelli e led, forzati e devitalizzati da quel vero primal scream Younghiano che in anni e anni a fustigato la nostra colonna vertebrale di rockers impenitenti; una lancia di salvataggio si può avvicinare a quel piccolo isolotto acustico di “Love And War”, magari apprezzare le riflessioni di un passato “Hitchiker”, già conosciuta in live passati o sprofondarsi nell’abrasivismo lirico di “Angry World”, ma è la distanza di un flirt rustico che porta quasi al disinteresse per un disco che ponteggia tra un solido ieri e un destabilizzante punto interrogativo di domani.
Caro Lanoise, lascia in pace il vecchio orso, è una razza protetta e al giorno d’oggi non ne nascono più di questi autentici intrattabili, meglio concentrarsi tra mille gentili del bel canto no?
Max Sannella, indieforbunnies.com
Ed ecco l’ultima opera del “loner” per antonomasia: Neil Young, il canadese. Colui le cui numerose anime sfuggono puntualmente alla catalogazione paralizzante. Perché, nel predominio stilistico della ballata folk e della cavalcata elettro-nevrotica (anticipatrice per certi versi del punk e, soprattutto, del grunge), l’unico filo conduttore della propria vita (artistica), è stato quello caratterizzato del divenire continuo delle proprie contraddizioni interne: a partire dagli anni ’60, Young, il folk-singer della generazione dylaniana; l’hippie e l’anti-hippie; il folle visionario; l’antirazzista; il pessimista cosmico; il democratico e il repubblicano; il rocker per eccellenza; il punk; lo sperimentatore..
Nel corso della sua infinita carriera – mettendo un attimino da parte le sue importantissime presenze in band capitali come Buffalo Springfield e, appunto, il supergruppo Crosby, Stills, Nash e Young - ha sfornato alcuni dei capolavori fondamentali della storia del rock, tutti ovviamente aventi come patria reale e morale gli Stati Uniti. (Solo per citarne alcuni: Everybody Knows This Is Nowhere (1969); After The Gold Rush (1970); Harvest (1972); Tonight’s The Night (1975); Rust Never Sleeps (1979): opere dall’importanza incontrovertibile).
Le Noise, dunque: album questo che sembra ricollegarsi idealmente a un’opera dal carattere para-sperimentale come Dead Man (1996), colonna sonora dell’omonimo film di Jarmusch, in cui a prevalere sono la voce pulita di Young, la sua chitarra e tutte le relative tracce, lasciate per strada da una distorsione rivelatasi primaria per l’esperienza musicale del nostro (a verificare gli effetti dell’elettricità nell’atto di un suo sprigionamento mediamente controllato). I risultati – ben in sintonia col titolo che significa appunto “il rumore”, alludendo in secondo luogo al produttore Daniel Lanois – di questa programmatica operazione sono: l’overdrive in sovrapposizione di “Walk With Me”; quello “saturante” di “Sign Of Love”; il phasing appena accennato di “Someone Is Gonna Rescue You”; la desolata ma incantevole ballata “Love And War”; la dilatazione “ossessiva” di “Angry World” e “Hitchhiker”; i sette minuti - che non sfigurerebbero nel film di cui sopra - di “Peaceful Vally Boulevard” e la dispersione sonica straordinariamente significativa della folk-rock ballad “Rumblin”.
Un lavoro, tutto sommato, ancora una volta soddisfacente, quello del cantautore canadese (checché se ne dica), che a 65 anni rinnova la sua capacità creativa continuando a “cavalcare” la propria schizofrenia artistica, in barba a tutti i giovani della generazione “indie-rock”.
Angelo Damiano Delliponti, corrieresalentino.it
Con la complicità del mitico Daniel Lanoise, Young, chiuso nella sua casa di Los Angeles, da solo, senza band e con l’accordatura ferrata di un’acustica e di un’elettrica, da fuoco e passione alla sua rabbia covata da tempo negli interstizi del suo caratteraccio looner e asociale, e le braci che rimangono a sfrigolare sono queste otto tracce doloranti, di clangore volumetrico, lasciano sospese perplessità e anche un plastico retrogusto dubbioso, di un’elettricità da planning work troppo studiata a tavolino e confezionata per un cash poco sincero.
Lanoise di suo ci mette tutta la tecnologia mirata ad esaltare timbriche e modalità delle sei corde, lui, il mito scontroso del grande rock sfoga, sperimenta e si ubriaca di questa sua urgenza espressionistica che si sposa o si odia senza mediazione, che potrebbe far guardare oltre i confini come fare amaramente rimpiangere il passato di ballate e trifogli sognanti in bocca.
Forse un progetto in cerca di nuovi ascoltatori, ma anche quest’improbabile e piccola salvezza non fa presa; riverberi, fuzz, delay e l’armatura coriacea di uno spirito anarchico non rendono giustizia – da un punto di vista d’analisi – a chi del suono polveroso e nicotinico dell’eroe ne ha fatto vessillo di libertà e propedeutiche respirazioni di spazi senza dogane; questo disco tracima a dissolvere quella rudezza vera e sporca della genuinità a favore di qualcosa di serie, artificioso e fuori memoria, inno al digitale e morte all’artigianilità, come a racchiudere una tempesta in una scatolina di plexiglas.
Voce e istinto sono preda di calcoli, livelli e led, forzati e devitalizzati da quel vero primal scream Younghiano che in anni e anni a fustigato la nostra colonna vertebrale di rockers impenitenti; una lancia di salvataggio si può avvicinare a quel piccolo isolotto acustico di “Love And War”, magari apprezzare le riflessioni di un passato “Hitchiker”, già conosciuta in live passati o sprofondarsi nell’abrasivismo lirico di “Angry World”, ma è la distanza di un flirt rustico che porta quasi al disinteresse per un disco che ponteggia tra un solido ieri e un destabilizzante punto interrogativo di domani.
Caro Lanoise, lascia in pace il vecchio orso, è una razza protetta e al giorno d’oggi non ne nascono più di questi autentici intrattabili, meglio concentrarsi tra mille gentili del bel canto no?
Max Sannella, indieforbunnies.com
Ed ecco l’ultima opera del “loner” per antonomasia: Neil Young, il canadese. Colui le cui numerose anime sfuggono puntualmente alla catalogazione paralizzante. Perché, nel predominio stilistico della ballata folk e della cavalcata elettro-nevrotica (anticipatrice per certi versi del punk e, soprattutto, del grunge), l’unico filo conduttore della propria vita (artistica), è stato quello caratterizzato del divenire continuo delle proprie contraddizioni interne: a partire dagli anni ’60, Young, il folk-singer della generazione dylaniana; l’hippie e l’anti-hippie; il folle visionario; l’antirazzista; il pessimista cosmico; il democratico e il repubblicano; il rocker per eccellenza; il punk; lo sperimentatore..
Nel corso della sua infinita carriera – mettendo un attimino da parte le sue importantissime presenze in band capitali come Buffalo Springfield e, appunto, il supergruppo Crosby, Stills, Nash e Young - ha sfornato alcuni dei capolavori fondamentali della storia del rock, tutti ovviamente aventi come patria reale e morale gli Stati Uniti. (Solo per citarne alcuni: Everybody Knows This Is Nowhere (1969); After The Gold Rush (1970); Harvest (1972); Tonight’s The Night (1975); Rust Never Sleeps (1979): opere dall’importanza incontrovertibile).
Le Noise, dunque: album questo che sembra ricollegarsi idealmente a un’opera dal carattere para-sperimentale come Dead Man (1996), colonna sonora dell’omonimo film di Jarmusch, in cui a prevalere sono la voce pulita di Young, la sua chitarra e tutte le relative tracce, lasciate per strada da una distorsione rivelatasi primaria per l’esperienza musicale del nostro (a verificare gli effetti dell’elettricità nell’atto di un suo sprigionamento mediamente controllato). I risultati – ben in sintonia col titolo che significa appunto “il rumore”, alludendo in secondo luogo al produttore Daniel Lanois – di questa programmatica operazione sono: l’overdrive in sovrapposizione di “Walk With Me”; quello “saturante” di “Sign Of Love”; il phasing appena accennato di “Someone Is Gonna Rescue You”; la desolata ma incantevole ballata “Love And War”; la dilatazione “ossessiva” di “Angry World” e “Hitchhiker”; i sette minuti - che non sfigurerebbero nel film di cui sopra - di “Peaceful Vally Boulevard” e la dispersione sonica straordinariamente significativa della folk-rock ballad “Rumblin”.
Un lavoro, tutto sommato, ancora una volta soddisfacente, quello del cantautore canadese (checché se ne dica), che a 65 anni rinnova la sua capacità creativa continuando a “cavalcare” la propria schizofrenia artistica, in barba a tutti i giovani della generazione “indie-rock”.
Angelo Damiano Delliponti, corrieresalentino.it
Le Noise è il ritratto dell’atteggiamento da eroe solitario che da tempo Neil Young ha nei confronti della musica e del mondo. Un disco registrato in solitudine, otto brani in tutto, un paio acustici, il resto è l’ormai classico “wall of sound” costruito con la chitarra elettrica.
La produzione è di Daniel Lanois, che ha firmato album degli U2, Bob Dylan, Peter Gabriel, Robbie Robertson e che ha convinto Young a rinunciare al progetto di un album acustico e a imbracciare la chitarra elettrica. Il risultato è stato definito da Rolling Stone, ”un disco con i Crazy Horse ma senza i Crazy Horse”, mentre Mojo ha scritto che Young ”sembra un burbero sedicenne che accende l’amplificatore nella sua camera per mettere in fuga la madre”.
Le Noise è un distillato dell’idea che Neil Young ha della musica: prima di tutto c’è la sua chitarra che lui suona in modo furibondo comunque, che si tratti di una registrazione in studio, di un concerto, di un album con una band o da solo, di una colonna sonora. Poi c’e la sfida ormai ultradecennale (negli anni ’80 la Geffen lo accusò di realizzare album volutamente inascoltabili) ad ampliare il confine tra suono e rumore (noise vuol dire rumore).
Lanois, che durante la registrazione a Los Angeles ha avuto un grave incidente in moto, in questo è un complice perfetto: il suo lavoro asseconda a perfezione il suo compagno d’avventura, creando, per usare un’espressione cara a Brian Eno, con cui ha condiviso esperienze importanti a cominciare dagli U2, paesaggi sonori minimalisti che tra echi, riverberi, loop e distorsioni, di volta in volta sono il terreno ideale per esprimere i sentimenti di rabbia, passione, dubbio, amore, rimpianto, speranza.
Per sottolineare la situazione di libertà creative, Young ha detto: ”Questo disco mi ha dato la possibilità di esprimermi in un modo più diretto e personale rispetto a quando si lavora in modo tradizionale”. È un periodo creativamente felice per Neil Young che dal 2009 a oggi ha pubblicato il primo volume dei suoi “Archivi” e un nuovo album in studio, Fork In The Road. Con Le Noise Young sembra trasmettere il messaggio che, per rispondere a questi tempi confusi, il rock deve tornare in garage, recuperando i suoi valori essenziali.
Non per niente da almeno 20 anni è un guru della scena alternativa: è stato tra i primi a sponsorizzare i Sonic Youth, mentre è uno dei padrini riconosciuti del Grunge. Ancora oggi i Pearl Jam, con i quali negli anni ’90 ha inciso Mirror Ball e fatto un tour, continuano a cantare “Rockin’ In The Free World”, uno dei pezzi di Neil Young che nel tempo si sono trasformati in un inno.
blitzquotidiano.it
Nel 1979 in piena esplosione punk, uno dei massimi esponenti della Woodstock Generation, l’hippie per eccellenza, capello lungo, anzi lunghissimo, jeans pieni di toppe colorate (come si potevano ammirare nel retro copertina del suo disco del 1970, After The Gold Rush), l’autore di ballate spezza cuori come ad esempio Helpless, se ne usciva con un disco di rovente rock al calore bianco che non aveva niente da invidiare a quello dei pischelli del punk. Il disco in questione - che era poi un tributo a Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols - si intitolava Rust Never Sleeps, la ruggine non dorme mai, e il suo autore era Neil Young. Non solo: in uno dei pochi brani acustici di quell’album, dava l’addio ai suoi vecchi compagni nell’avventura hippie (Crosby, Stills and Nash con cui aveva inciso dischi memorabili come Deja Vu o 4 Way Street) con parole che suonavano quasi degli insulti: “A un certo punto mi annoiai e li lasciai lì, per me loro erano solo un peso morto, è molto meglio andare in giro senza quel peso addosso”. Il tizio che stava sconvolgendo una generazione era Neil Young. Negli anni, di cambiamenti epocali che avrebbero gettato nello sconforto e nello smarrimento i fan ne avrebbefatti sempre di più, a volte autentiche immondizie musicali, come quando si diede all’elettronica o quando si impomatò i capelli di brillantina per fare del rockabilly. Altre volte gli riuscì meglio, anzi così bene che la generazione dei Kurt Cobain e degli Eddie Vedder, quella del grunge, lo elesse proprio padre putativo, “il padrino del grunge” appunto. E fecero anche dei dischi insieme. Cambiare, per Neil Young, è necessità vitale, più che artistica, perché “la uggine non dorme mai” e per tenerla lontana bisogna muoversi. A volte, in questo percorso, Young è anche tornato ai vecchi amori, incidendo dolenti dischi di country acustico o tornando sul palco con “i dinosauri” Crosby, Stills and Nash, ma una nuova svolta musicale è sempre dietro l’angolo. Addirittura qualche anno fa provò anche con il R&B alla Blues Brothers. Che abbia fatto parecchi dischi brutti si può dire; che a Neil Young manchino onestà personale e integrità invece non si potrà mai neanche pensare. Il 28 settembre esce il suo nuovo capitolo discografico. Si intitola Le Noise, un titolo quanto mai appropriato per il musicista ormai 65enne. Il titolo sta per “rumore”, e Neil Young è uno che con il rumore ci sa fare. Qualche anno fa pubblicò un disco che non conteneva neanche canzoni, ma solo feedback, quelle lunghe code chitarristiche che ama fare al termine delle sue lunghe cavalcate elettriche sul palco. Un disco assurdo, similare a quanto fece Lou Reed con il suo Metal Machine Music. Chi ha visto Neil Young dal vivo sa cosa intendiamo per “rumore”: chitarrista non particolarmente dotato tecnicamente - non è Eric Clapton, tutt’altro - è capace però di esprimere una potenza sonora devastante, in brani che possono durare anche venti minuti di autentico “noise”, rumore. Ecco perché tanti “giovani” come Sonic Youth o Pearl Jam hanno amato esibirsi con lui. Il nuovo disco dunque come tributo al lato più “perverso” del canadese, mai così lontano dall’hippie di Woodstock. Perché il titolo in francese, Le Noise. Perché Neil Young è canadese, nazione francofona per eccellenza, e in questo disco si è fatto aiutare nella produzione da un altro canadese di primo piano, quel Daniel Lanois che ha prodotto dischi di U2, Bob Dylan e Peter Gabriel fra gli altri. Ci si aspettava un disco elettrico come i tanti che Young ha inciso con i Crazy Horse, sua backing band per eccellenza. Sì, è un disco elettrico, ma è anche il primo vero disco completamente da solo del cantautore. A parte Lanois che fa qualche effetto sonoro, qualche loop in sottofondo, c’è solo Young, la sua Gretsch sfavillante e in un paio di brani l’acustica. E la sua voce. Un disco sperimentale dunque, ma dal grandissimo fascino. Più che rumore però, questo disco avrebbe dovuto chiamarsi “sound”, suono. È una concessione totale all’idea del suono che una chitarra può generare, il riverbero per eccellenza, una sorta di catalessi sonora che dura quanto il suo autore vuole possa durare. Affascinante, comunque, perché il quasi settantenne musicista a differenza dei suoi coetanei continua a sfidare se stesso e il suo pubblico. Ma affascinante anche perché c’è moltissima poesia in questo “rumore”. Daniel Lanois ha raccontato che il disco è stato messo insieme durante un periodo “di quattro lune piene”. E si sente. Le Noise è disco notturno per eccellenza, quelle notti in cui il cuore urla impaziente il suo bisogno di infinito, e una canzone e una chitarra scorticante che brucia insieme alla luna e al cuore sono l’unica cosa che resta per attaccarsi e non sprofondare. Neil Young decadi fa, dedicò uno dei suoi dischi più dolorosi a due amici morti di droga e lo intitolò Tonight’s The Night, questa notte è la notte. Quella notte eccola che torna nuovamente, adesso che da ricordare c’è l’amico di una vita Ben Keith morto proprio durante queste incisioni. Ma non è più la notte alcolica e drogata di allora. Una luce di speranza si accende alla fine di questo disco. E allora, nel dettaglio, questo il disco che abbiamo ascoltato in anteprima.
La produzione è di Daniel Lanois, che ha firmato album degli U2, Bob Dylan, Peter Gabriel, Robbie Robertson e che ha convinto Young a rinunciare al progetto di un album acustico e a imbracciare la chitarra elettrica. Il risultato è stato definito da Rolling Stone, ”un disco con i Crazy Horse ma senza i Crazy Horse”, mentre Mojo ha scritto che Young ”sembra un burbero sedicenne che accende l’amplificatore nella sua camera per mettere in fuga la madre”.
Le Noise è un distillato dell’idea che Neil Young ha della musica: prima di tutto c’è la sua chitarra che lui suona in modo furibondo comunque, che si tratti di una registrazione in studio, di un concerto, di un album con una band o da solo, di una colonna sonora. Poi c’e la sfida ormai ultradecennale (negli anni ’80 la Geffen lo accusò di realizzare album volutamente inascoltabili) ad ampliare il confine tra suono e rumore (noise vuol dire rumore).
Lanois, che durante la registrazione a Los Angeles ha avuto un grave incidente in moto, in questo è un complice perfetto: il suo lavoro asseconda a perfezione il suo compagno d’avventura, creando, per usare un’espressione cara a Brian Eno, con cui ha condiviso esperienze importanti a cominciare dagli U2, paesaggi sonori minimalisti che tra echi, riverberi, loop e distorsioni, di volta in volta sono il terreno ideale per esprimere i sentimenti di rabbia, passione, dubbio, amore, rimpianto, speranza.
Per sottolineare la situazione di libertà creative, Young ha detto: ”Questo disco mi ha dato la possibilità di esprimermi in un modo più diretto e personale rispetto a quando si lavora in modo tradizionale”. È un periodo creativamente felice per Neil Young che dal 2009 a oggi ha pubblicato il primo volume dei suoi “Archivi” e un nuovo album in studio, Fork In The Road. Con Le Noise Young sembra trasmettere il messaggio che, per rispondere a questi tempi confusi, il rock deve tornare in garage, recuperando i suoi valori essenziali.
Non per niente da almeno 20 anni è un guru della scena alternativa: è stato tra i primi a sponsorizzare i Sonic Youth, mentre è uno dei padrini riconosciuti del Grunge. Ancora oggi i Pearl Jam, con i quali negli anni ’90 ha inciso Mirror Ball e fatto un tour, continuano a cantare “Rockin’ In The Free World”, uno dei pezzi di Neil Young che nel tempo si sono trasformati in un inno.
blitzquotidiano.it
Nel 1979 in piena esplosione punk, uno dei massimi esponenti della Woodstock Generation, l’hippie per eccellenza, capello lungo, anzi lunghissimo, jeans pieni di toppe colorate (come si potevano ammirare nel retro copertina del suo disco del 1970, After The Gold Rush), l’autore di ballate spezza cuori come ad esempio Helpless, se ne usciva con un disco di rovente rock al calore bianco che non aveva niente da invidiare a quello dei pischelli del punk. Il disco in questione - che era poi un tributo a Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols - si intitolava Rust Never Sleeps, la ruggine non dorme mai, e il suo autore era Neil Young. Non solo: in uno dei pochi brani acustici di quell’album, dava l’addio ai suoi vecchi compagni nell’avventura hippie (Crosby, Stills and Nash con cui aveva inciso dischi memorabili come Deja Vu o 4 Way Street) con parole che suonavano quasi degli insulti: “A un certo punto mi annoiai e li lasciai lì, per me loro erano solo un peso morto, è molto meglio andare in giro senza quel peso addosso”. Il tizio che stava sconvolgendo una generazione era Neil Young. Negli anni, di cambiamenti epocali che avrebbero gettato nello sconforto e nello smarrimento i fan ne avrebbefatti sempre di più, a volte autentiche immondizie musicali, come quando si diede all’elettronica o quando si impomatò i capelli di brillantina per fare del rockabilly. Altre volte gli riuscì meglio, anzi così bene che la generazione dei Kurt Cobain e degli Eddie Vedder, quella del grunge, lo elesse proprio padre putativo, “il padrino del grunge” appunto. E fecero anche dei dischi insieme. Cambiare, per Neil Young, è necessità vitale, più che artistica, perché “la uggine non dorme mai” e per tenerla lontana bisogna muoversi. A volte, in questo percorso, Young è anche tornato ai vecchi amori, incidendo dolenti dischi di country acustico o tornando sul palco con “i dinosauri” Crosby, Stills and Nash, ma una nuova svolta musicale è sempre dietro l’angolo. Addirittura qualche anno fa provò anche con il R&B alla Blues Brothers. Che abbia fatto parecchi dischi brutti si può dire; che a Neil Young manchino onestà personale e integrità invece non si potrà mai neanche pensare. Il 28 settembre esce il suo nuovo capitolo discografico. Si intitola Le Noise, un titolo quanto mai appropriato per il musicista ormai 65enne. Il titolo sta per “rumore”, e Neil Young è uno che con il rumore ci sa fare. Qualche anno fa pubblicò un disco che non conteneva neanche canzoni, ma solo feedback, quelle lunghe code chitarristiche che ama fare al termine delle sue lunghe cavalcate elettriche sul palco. Un disco assurdo, similare a quanto fece Lou Reed con il suo Metal Machine Music. Chi ha visto Neil Young dal vivo sa cosa intendiamo per “rumore”: chitarrista non particolarmente dotato tecnicamente - non è Eric Clapton, tutt’altro - è capace però di esprimere una potenza sonora devastante, in brani che possono durare anche venti minuti di autentico “noise”, rumore. Ecco perché tanti “giovani” come Sonic Youth o Pearl Jam hanno amato esibirsi con lui. Il nuovo disco dunque come tributo al lato più “perverso” del canadese, mai così lontano dall’hippie di Woodstock. Perché il titolo in francese, Le Noise. Perché Neil Young è canadese, nazione francofona per eccellenza, e in questo disco si è fatto aiutare nella produzione da un altro canadese di primo piano, quel Daniel Lanois che ha prodotto dischi di U2, Bob Dylan e Peter Gabriel fra gli altri. Ci si aspettava un disco elettrico come i tanti che Young ha inciso con i Crazy Horse, sua backing band per eccellenza. Sì, è un disco elettrico, ma è anche il primo vero disco completamente da solo del cantautore. A parte Lanois che fa qualche effetto sonoro, qualche loop in sottofondo, c’è solo Young, la sua Gretsch sfavillante e in un paio di brani l’acustica. E la sua voce. Un disco sperimentale dunque, ma dal grandissimo fascino. Più che rumore però, questo disco avrebbe dovuto chiamarsi “sound”, suono. È una concessione totale all’idea del suono che una chitarra può generare, il riverbero per eccellenza, una sorta di catalessi sonora che dura quanto il suo autore vuole possa durare. Affascinante, comunque, perché il quasi settantenne musicista a differenza dei suoi coetanei continua a sfidare se stesso e il suo pubblico. Ma affascinante anche perché c’è moltissima poesia in questo “rumore”. Daniel Lanois ha raccontato che il disco è stato messo insieme durante un periodo “di quattro lune piene”. E si sente. Le Noise è disco notturno per eccellenza, quelle notti in cui il cuore urla impaziente il suo bisogno di infinito, e una canzone e una chitarra scorticante che brucia insieme alla luna e al cuore sono l’unica cosa che resta per attaccarsi e non sprofondare. Neil Young decadi fa, dedicò uno dei suoi dischi più dolorosi a due amici morti di droga e lo intitolò Tonight’s The Night, questa notte è la notte. Quella notte eccola che torna nuovamente, adesso che da ricordare c’è l’amico di una vita Ben Keith morto proprio durante queste incisioni. Ma non è più la notte alcolica e drogata di allora. Una luce di speranza si accende alla fine di questo disco. E allora, nel dettaglio, questo il disco che abbiamo ascoltato in anteprima.
“Walk With Me” - Il disco si apre con l’abrasiva chitarra e una voce doppiata che si alza con tono disperato, anche se si parla del “sentire il tuo amore”. Quattro minuti e ventisei di riff incalzanti e un senso di dislocamento che è più forte che altrove nel disco. Feedback naturalmente e la voce che sprofonda e riemerge dai magma sonori.
“Sign Of Love” - Attacco del pezzo ancora con un riff imponente, ancora una canzone d’amore e il contrasto tra la delicatezza dei versi e la brutalità sonora, che è un po’ la chiave del disco. Ma è una brutalità smorzata: è il riverbero il segreto del sound, del suono, di questo cd.
“Someone’s Gonna Rescue You” - La voce in falsetto tipica delle canzoni più oniriche e trascendenti del canadese. La chitarra ricca di effetti, su cui ha evidentemente lavorato Lanois costruendo loop ed effetti sonori all’infinito. Il riff finale ricorda curiosamente quello che concludeva la classicissima Everybody’s Knows This Is Nowhere, risalente al 1969.
“Love And War” - È la prima pausa acustica del disco, un pezzo che attacca con il tipico modo di suonare strumming del canadese. La melodia è antica e sa del vecchio folk odoroso di querce canadesi. “Ho visto giovani andare in guerra lasciando giovani moglie, ho cercato di spiegare ai loro figli che il loro padre non tornerà più a casa”. Versi stucchevoli? Non per uno che è passato tra tre guerre, quella del Vietnam e due in Iraq, che si sono portate via prima quelli della sua generazione, poi i loro figli. Quasi sei minuti di acustica poesia: “Quando canto di amore e guerra, non so davvero di cosa sto cantando, ma vedo un sacco di gente pregare”.
“Angry World” - Comincia con la voce in loop quindi il riff doppiato di elettrica. La melodia è maggiormente curata in questo pezzo, ricorda l’approccio di certi brani incisi ai tempi dei Buffalo Springfield, la band in cui Young iniziò la carriera a metà degli anni Sessanta. La chitarra viene sdoppiata con un riuscito effetto sonico mentre loop vocali galleggiano tra i feedback. Il finale è quasi un minuto di rumorismo vocale e sonico.
“Hitchhiker” - Pezzo aggressivo, che aspetta solo l’entrata di una sezione ritmica che però non arriva mai. “Cerco di lasciarmi dietro il passato ma continua a prendermi, non so come faccio stare in piedi a vivere la vita che vivo: ringrazio i miei figli e la mia fedele moglie”: chi ha detto che i musicisti rock sono trasgressivi? Oppure avere una moglie fedele e dei figli è la vera trasgressione, in questa epoca di false trasgressioni e menzogne idealistiche. Si finisce sempre per tornare da dove si era partiti, evidentemente, anche per quelli della generazione di Woodstock, e forse quei valori una volta combattuti erano meglio di quanto si è proclamato. E per uno che su tre figli ne ha due gravemente malati (cerebrolesi) queste sono parole che significano parecchio. Il resto lo fa il suono abrasivo e scorticato della chitarra elettrica.
“Peaceful Valley Boulevard” - Il secondo pezzo acustico. Pochi sanno imporre un “suono” così imponente con una chitarra acustica. Sicuramente Young lo sa fare. Ballata malinconica senza tempo dal passo inconfondibile: poteva essere su uno dei suoi primi dischi. Lo stesso senso di lucida malinconia che permea brani immortali come “Last Trip to Tulsa”.
“Rumblin’” - Il brano conclusivo e anche il più inquietante Riffone implacabile, melodia inquietante, degna di quelle notti di luna piena in cui il disco ha preso vita. Un pezzo che dal vivo promette di entrare tra i grandi classici del canadese, dotato come è di una classica melodia della sua e di un impatto che può essere, tanto per rimanere in tema, puro “rumore”. Come quasi tutti i brani di questo disco, finisce troppo presto. Sembra solo accennato, quasi un demo, una prova. Avrebbe meritato un altro dispiegamento, ben più lungo. Ma ci sarà spazio nei prossimi concerti del canadese per apprezzare il contenuto profondo del "noise" di questo cd.
Paolo Vites, Il Sussidiario
“Sign Of Love” - Attacco del pezzo ancora con un riff imponente, ancora una canzone d’amore e il contrasto tra la delicatezza dei versi e la brutalità sonora, che è un po’ la chiave del disco. Ma è una brutalità smorzata: è il riverbero il segreto del sound, del suono, di questo cd.
“Someone’s Gonna Rescue You” - La voce in falsetto tipica delle canzoni più oniriche e trascendenti del canadese. La chitarra ricca di effetti, su cui ha evidentemente lavorato Lanois costruendo loop ed effetti sonori all’infinito. Il riff finale ricorda curiosamente quello che concludeva la classicissima Everybody’s Knows This Is Nowhere, risalente al 1969.
“Love And War” - È la prima pausa acustica del disco, un pezzo che attacca con il tipico modo di suonare strumming del canadese. La melodia è antica e sa del vecchio folk odoroso di querce canadesi. “Ho visto giovani andare in guerra lasciando giovani moglie, ho cercato di spiegare ai loro figli che il loro padre non tornerà più a casa”. Versi stucchevoli? Non per uno che è passato tra tre guerre, quella del Vietnam e due in Iraq, che si sono portate via prima quelli della sua generazione, poi i loro figli. Quasi sei minuti di acustica poesia: “Quando canto di amore e guerra, non so davvero di cosa sto cantando, ma vedo un sacco di gente pregare”.
“Angry World” - Comincia con la voce in loop quindi il riff doppiato di elettrica. La melodia è maggiormente curata in questo pezzo, ricorda l’approccio di certi brani incisi ai tempi dei Buffalo Springfield, la band in cui Young iniziò la carriera a metà degli anni Sessanta. La chitarra viene sdoppiata con un riuscito effetto sonico mentre loop vocali galleggiano tra i feedback. Il finale è quasi un minuto di rumorismo vocale e sonico.
“Hitchhiker” - Pezzo aggressivo, che aspetta solo l’entrata di una sezione ritmica che però non arriva mai. “Cerco di lasciarmi dietro il passato ma continua a prendermi, non so come faccio stare in piedi a vivere la vita che vivo: ringrazio i miei figli e la mia fedele moglie”: chi ha detto che i musicisti rock sono trasgressivi? Oppure avere una moglie fedele e dei figli è la vera trasgressione, in questa epoca di false trasgressioni e menzogne idealistiche. Si finisce sempre per tornare da dove si era partiti, evidentemente, anche per quelli della generazione di Woodstock, e forse quei valori una volta combattuti erano meglio di quanto si è proclamato. E per uno che su tre figli ne ha due gravemente malati (cerebrolesi) queste sono parole che significano parecchio. Il resto lo fa il suono abrasivo e scorticato della chitarra elettrica.
“Peaceful Valley Boulevard” - Il secondo pezzo acustico. Pochi sanno imporre un “suono” così imponente con una chitarra acustica. Sicuramente Young lo sa fare. Ballata malinconica senza tempo dal passo inconfondibile: poteva essere su uno dei suoi primi dischi. Lo stesso senso di lucida malinconia che permea brani immortali come “Last Trip to Tulsa”.
“Rumblin’” - Il brano conclusivo e anche il più inquietante Riffone implacabile, melodia inquietante, degna di quelle notti di luna piena in cui il disco ha preso vita. Un pezzo che dal vivo promette di entrare tra i grandi classici del canadese, dotato come è di una classica melodia della sua e di un impatto che può essere, tanto per rimanere in tema, puro “rumore”. Come quasi tutti i brani di questo disco, finisce troppo presto. Sembra solo accennato, quasi un demo, una prova. Avrebbe meritato un altro dispiegamento, ben più lungo. Ma ci sarà spazio nei prossimi concerti del canadese per apprezzare il contenuto profondo del "noise" di questo cd.
Paolo Vites, Il Sussidiario