Fork In The Road - Rassegna Stampa pt.2
Il “Grande Bisonte” è di nuovo in pista, e ogni volta che parla, è come se lasciasse scorrazzare il tempo, tra i canyon delle rughe che solcano il suo volto; e come vecchi capi Sioux, dispensa le scarse dichiarazioni con franchezza e convinzione, senza lasciare la minima possibilità di battibecco. 63 anni passati dall’altra parte della barricata, contro tutto e tutti, sempre a fianco del bisogno e degli ideali. Il marchio di fabbrica Young – anche se qualche volta logorato da scivoloni - surclassa la sua stessa mitologia dove anche le pietre ne conoscono vizi e virtù; Fork In The Road è il disco dell’attualità ecologica e prettamente versato alle fonti di energia alternativa al petrolio, che esce dalle crociate anti Bush di Living With War, ed entra nelle grazie della nuova politica Obamiana con la freschezza indomita di un rockers ventenne. Ma appunto, come ventenni pieni di speranze e molti controsensi e facinorosità ambigue.
Non ci sono i “Cavalli Pazzi” al suo seguito, e lo spirito del Canadese non sembra accusarne la mancanza; come da prassi tira dritto a testa bassa, senza peli sulla lingua, e via all’ennesima battaglia di giustizia e verità. Già definito, dalla critica americana, un flop come lo fu il suo Greendale, per la verità il disco si scosta di molto dal Neil Young abituè, si rivela a tratti un po’ come tirato su nell’ingenuità di fare pur di fare, di cavalcare l’onda new deal per fare notizia, e al quale – l’altra America - non gli perdonerà mai di aver sostenuto a spada tratta, tempo addietro, Ross Perot, braccio destro di Reagan e della sua politica nucleare. Ora siamo di nuovo a parlare dell’evoluzione del cantastorie a paladino, e il rockers sposa la tematica dell’inquinamento delle auto e della benzina come sangue infettante da locomozione; e per farlo spolvera tutto l’armamentario di suoni e di parole come sempre dettate dall’impulsività e dalla sua cocciutaggine da almanacco.
E il suono che esce dai solchi di Fork In The Road, è quello pompato, pieno di ariosità e cromatismi, come se questa battaglia fosse già vinta in partenza, ma del resto Young ci ha abituato da sempre al suo modo bisontiaco di seguire l’istinto e di fare quello che gli sembra giusto, a non semplificarsi le cose. Quasi come se fosse dedicato a John Goodwin – detentore del brevetto del motore elettrico montato su auto Lincoln delle quale Young ne è uno estimatore da lunga data e al quale inventore dedica il southern-rock in “Johnny Magic” – il disco esalta come sempre altisonanti attacchi rock di pura razza (“Get Behind the Wheel”, “Hit the Road”), la west-coast sincopata (“Couhg up the Bucks”), svia nell’honky-tonk da Baton-Rouge, e fa una capatina nella Detroit della Motown (“Fuel Line”), Torna il Neil delle ballate da grandi pianure in “Off the Road”, stupendo lentone di organo gospel, e in “Light a Candle”, old Irish mood che ci fa stillare una lacrima evergreen senza che ci si rende conto.
Neil Young torna in pista con un episodio discografico che si può collocare tra i lavori “sospesi” della sua storia, che non lascia il segno come dovrebbe, che lascia il sapore in bocca di un progetto abbozzato in attesa di un nuovo Zuma, Harvest, After The Gold Rush a venire; ma rimane sempre un artista mustang di razza selvaggia che detta regole e compiti, un vero rockers che il tempo non abbatte, e se in questo album ha celebrato la velocità, la corsa e il consumo dell’automobile mancando di un pelo abbondante il centro, c’è sempre una grande lezione, una grande metafora del riscatto e della sete di libertà alla quale il “Grande Bisonte” a dedicato una vita, una chitarra contro. Anche nei momenti di confusione.
Massimo Sannella, mescalina.it
È bello vedere come un’artista di 63 anni, che è passato indenne negli ultimi 40 anni di musica, sia ancora qui a suonare la sua musica e a far uscire dischi che non scadono nel manieristico.
Di Neil Young si può dire tutto tranne che non sia prolifico: 34 album a suo nome, alcuni con gruppi al seguito (i leggendari Crazy Horse, Stray Gators, Shoking Pinks, The Restless, Blue Note e perfino i Pearl Jam), senza contare i lavori con Buffalo Springfield e Crosby, Stills & Nash. Il segreto di tutta questa produttività? Seguire l’istinto e pubblicare i lavori senza calcoli e ripensamenti vari. Ovvio che è un’arma a doppio taglio, perchè non sempre i lavori sono all’altezza delle aspettative, ma c’è da dire che dopo 40 anni di carriera non deve più dimostrare niente a nessuno e può anche fare musica per se stesso.
Ma dopo questo preambolo passiamo all’album in questione: Fork In The Road è a mio avviso un buon disco, niente di trascendentale, ma suona decisamente bene, grazie anche al fatto di essere un album molto chitarristico (molto simile ai suoi lavori di fine anni ‘80 primi ‘90), in cui Young abbandona il ruolo di menestrello folk singer per rievocare la sua vena rock. Canzoni come “Just Singing A Song”, “Johnny Magic” e la stessa title track, giusto per citarne qualcuna, sono brani di autentico rock senza compromessi, come si diceva una volta. Oltre alla ritrovata vena rock, vorrei sottolineare anche la tematica portante del lavoro: se col precedente Living With War era prettamente un disco anti Bush, Fork In The Road si concentra sul problema dell’inquinamento e della bontà delle fonti di energia alternativa. Un problema a cui lo stesso Neil Young non riesce a dare una risposta, perchè di fronte alla biforcazione che da il titolo all’album, canta ”I don’t know which way I’m gonna turn” (non so quale direzione prenderò). In “Just Singing A Song” canta “Just singing a song won’t change the world” (il solo cantare una canzone non cambierà il mondo), regalando poi una speranza in “Light A Candle”: “Instead of cursing in the darkness/Light a candle for where we’re going/There’s something ahead, worth looking for” (invece di imprecare nell’oscurità, accendi una candela per dove stiamo andando, c’è qualcosa davanti per la quale vale la pena guardare).
È bello vedere (o meglio sentire) che a 63 anni suonati Neil Young non stia a fare la morale (lui che in 40 anni di musica ha visto proprio di tutto) ma offra spunti di riflessione.
Il valore di un’artista si vede anche da questo.
Michael, soundmagazine.it
Chi ama e segue cavallo pazzo Neil Young è abituato alle bizzarrie che costellano la carriera del più geniale, ombroso e instabile talento della storia del rock. Non c’è dunque da stupirsi che la pubblicazione dei tanto sospirati Archivi – dopo gli antipasti live – sia stata nuovamente posticipata, per fare spazio a un nuovo album di inediti, scritto e registrato di getto sulla falsariga del Living With War di tre anni fa.
Allora l’autore di “Ohio” aveva rispolverato l’ardente passione politica nel momento di massima indignazione per il Texas leaguer alla Casa Bianca, addentrandosi con piglio da tribuno in una intricata selva di riff garage con un paio di momenti memorabili quali “Shock and awe” o “The restless consumer”. Stavolta è la passione ecologica ad aver ispirato zio Neil, intento a cavalcare il new deal verde obamiano.
Ecco dunque un concept album tra strali contro l’industria petrolifera e istantanee sull’ America odierna scattate da auto alimentate ad energia alternativa: ne fa fede in scaletta la trilogia dell’asfalto composta da titoli quali “Hit The Road”, “Off The Road” e “Fork In The Road”. I più sensibili dei youngofili potrebbero a questo punto avere i brividi, e rievocare miraggi sepolti nel remoto immaginario del Canadese legati alla dimensione “on the road”. Strade che per Neil non sono state teatro del riscatto di umiliati e offesi springsteenieni o terreno per le geniali allegorie sulle orme di Mark Twain della Highway 61 dylaniana. Bensì di volta in volta peripezie visionarie (“The Last Trip to Tulsa”), cavalcate di sfavillanti Cadillac sotto il sole del profondo Sud (“Alabama”), tappe del calvario di una Nazione tra depressione post-hippie e scorie vietnamite (“Ambulance blues”) o passaggi dal bitume alla sabbia quale metafora della propria rinascita artistica e personale (“Thrasher”).
Niente di tutto questo, ma un album proiettato verso le sfide di sostenibilità del futuro, ossia il bivio cui fa riferimento il titolo del lavoro. Intento di sensibilizzazione lodevole e bersaglio centrato: nonostante una certa retorica senile qua e là inevitabilmente affiori, Young è ancora capace di sgommare con abilità oltre i contrasti del suo grande paese adottivo, in cui “sbagliato è giusto, verità è finzione, verità è bugia”, e di insinuare dubbi e inquietudini al grido di“ There's a bailout coming but it's not for you” (“C’è una cauzione in arrivo, ma non è per te”).
In musica ciò si traduce nell’ennesimo album in chiaroscuro di questa decade, la prima dai Sixties a non aver avuto un autentico capolavoro da parte di un Young sempre più ostaggio di una capricciosa ispirazione. Fork In The Road accentua il feeling garage di Living With War: rock sanguigno e smargiasso, non però in maniera geniale come in un Re-ac-tor ma a tratti imballato come in Greendale.
Si ascoltino le manierate scorribande sudiste di “Cough the bucks” e “Johnny Magic” e la parodistica citazione di “Roadhouse blues” dei Doors su “Get behind the wheel”. Il Young elettrico, intricato e dolente che tanto amiamo, compare occasionalmente, con alcune scorie sprigionate da “Hit the road” e “Fork In The Road”. Ma il solo Ben Keith, a differenza del precedente e riuscito Chrome Dreams II, non basta a ricreare certe affinità elettive, in contumacia Crazy Horse. Specialmente se le intuizioni di “When worlds collide” e “Just singing a song” vengono appesantite nel refrain da stucchevoli cori tardo-hippie.
A nobilitare il disco provvede per fortuna la scalata di marce su “Fuel Line”, con capatina a Motown che riporta agli anni Ottanta del sottostimato This Note's For You e su “Off the road”, dai riusciti tocchi gospel. Fino all’asso nella manica, l’esercizio youngiano per eccellenza, la ballata:la squisita
“Light a candle”, acquerello folk alla Bert Jansch che vivacizza con soffici iridescenze l’ennesimo dipinto del Loner. Certo, Neil Young non potrebbe sbagliare una ballata neanche se volesse.
Junio C. Murgia, storiadellamusica.it
Non ci sono i “Cavalli Pazzi” al suo seguito, e lo spirito del Canadese non sembra accusarne la mancanza; come da prassi tira dritto a testa bassa, senza peli sulla lingua, e via all’ennesima battaglia di giustizia e verità. Già definito, dalla critica americana, un flop come lo fu il suo Greendale, per la verità il disco si scosta di molto dal Neil Young abituè, si rivela a tratti un po’ come tirato su nell’ingenuità di fare pur di fare, di cavalcare l’onda new deal per fare notizia, e al quale – l’altra America - non gli perdonerà mai di aver sostenuto a spada tratta, tempo addietro, Ross Perot, braccio destro di Reagan e della sua politica nucleare. Ora siamo di nuovo a parlare dell’evoluzione del cantastorie a paladino, e il rockers sposa la tematica dell’inquinamento delle auto e della benzina come sangue infettante da locomozione; e per farlo spolvera tutto l’armamentario di suoni e di parole come sempre dettate dall’impulsività e dalla sua cocciutaggine da almanacco.
E il suono che esce dai solchi di Fork In The Road, è quello pompato, pieno di ariosità e cromatismi, come se questa battaglia fosse già vinta in partenza, ma del resto Young ci ha abituato da sempre al suo modo bisontiaco di seguire l’istinto e di fare quello che gli sembra giusto, a non semplificarsi le cose. Quasi come se fosse dedicato a John Goodwin – detentore del brevetto del motore elettrico montato su auto Lincoln delle quale Young ne è uno estimatore da lunga data e al quale inventore dedica il southern-rock in “Johnny Magic” – il disco esalta come sempre altisonanti attacchi rock di pura razza (“Get Behind the Wheel”, “Hit the Road”), la west-coast sincopata (“Couhg up the Bucks”), svia nell’honky-tonk da Baton-Rouge, e fa una capatina nella Detroit della Motown (“Fuel Line”), Torna il Neil delle ballate da grandi pianure in “Off the Road”, stupendo lentone di organo gospel, e in “Light a Candle”, old Irish mood che ci fa stillare una lacrima evergreen senza che ci si rende conto.
Neil Young torna in pista con un episodio discografico che si può collocare tra i lavori “sospesi” della sua storia, che non lascia il segno come dovrebbe, che lascia il sapore in bocca di un progetto abbozzato in attesa di un nuovo Zuma, Harvest, After The Gold Rush a venire; ma rimane sempre un artista mustang di razza selvaggia che detta regole e compiti, un vero rockers che il tempo non abbatte, e se in questo album ha celebrato la velocità, la corsa e il consumo dell’automobile mancando di un pelo abbondante il centro, c’è sempre una grande lezione, una grande metafora del riscatto e della sete di libertà alla quale il “Grande Bisonte” a dedicato una vita, una chitarra contro. Anche nei momenti di confusione.
Massimo Sannella, mescalina.it
È bello vedere come un’artista di 63 anni, che è passato indenne negli ultimi 40 anni di musica, sia ancora qui a suonare la sua musica e a far uscire dischi che non scadono nel manieristico.
Di Neil Young si può dire tutto tranne che non sia prolifico: 34 album a suo nome, alcuni con gruppi al seguito (i leggendari Crazy Horse, Stray Gators, Shoking Pinks, The Restless, Blue Note e perfino i Pearl Jam), senza contare i lavori con Buffalo Springfield e Crosby, Stills & Nash. Il segreto di tutta questa produttività? Seguire l’istinto e pubblicare i lavori senza calcoli e ripensamenti vari. Ovvio che è un’arma a doppio taglio, perchè non sempre i lavori sono all’altezza delle aspettative, ma c’è da dire che dopo 40 anni di carriera non deve più dimostrare niente a nessuno e può anche fare musica per se stesso.
Ma dopo questo preambolo passiamo all’album in questione: Fork In The Road è a mio avviso un buon disco, niente di trascendentale, ma suona decisamente bene, grazie anche al fatto di essere un album molto chitarristico (molto simile ai suoi lavori di fine anni ‘80 primi ‘90), in cui Young abbandona il ruolo di menestrello folk singer per rievocare la sua vena rock. Canzoni come “Just Singing A Song”, “Johnny Magic” e la stessa title track, giusto per citarne qualcuna, sono brani di autentico rock senza compromessi, come si diceva una volta. Oltre alla ritrovata vena rock, vorrei sottolineare anche la tematica portante del lavoro: se col precedente Living With War era prettamente un disco anti Bush, Fork In The Road si concentra sul problema dell’inquinamento e della bontà delle fonti di energia alternativa. Un problema a cui lo stesso Neil Young non riesce a dare una risposta, perchè di fronte alla biforcazione che da il titolo all’album, canta ”I don’t know which way I’m gonna turn” (non so quale direzione prenderò). In “Just Singing A Song” canta “Just singing a song won’t change the world” (il solo cantare una canzone non cambierà il mondo), regalando poi una speranza in “Light A Candle”: “Instead of cursing in the darkness/Light a candle for where we’re going/There’s something ahead, worth looking for” (invece di imprecare nell’oscurità, accendi una candela per dove stiamo andando, c’è qualcosa davanti per la quale vale la pena guardare).
È bello vedere (o meglio sentire) che a 63 anni suonati Neil Young non stia a fare la morale (lui che in 40 anni di musica ha visto proprio di tutto) ma offra spunti di riflessione.
Il valore di un’artista si vede anche da questo.
Michael, soundmagazine.it
Chi ama e segue cavallo pazzo Neil Young è abituato alle bizzarrie che costellano la carriera del più geniale, ombroso e instabile talento della storia del rock. Non c’è dunque da stupirsi che la pubblicazione dei tanto sospirati Archivi – dopo gli antipasti live – sia stata nuovamente posticipata, per fare spazio a un nuovo album di inediti, scritto e registrato di getto sulla falsariga del Living With War di tre anni fa.
Allora l’autore di “Ohio” aveva rispolverato l’ardente passione politica nel momento di massima indignazione per il Texas leaguer alla Casa Bianca, addentrandosi con piglio da tribuno in una intricata selva di riff garage con un paio di momenti memorabili quali “Shock and awe” o “The restless consumer”. Stavolta è la passione ecologica ad aver ispirato zio Neil, intento a cavalcare il new deal verde obamiano.
Ecco dunque un concept album tra strali contro l’industria petrolifera e istantanee sull’ America odierna scattate da auto alimentate ad energia alternativa: ne fa fede in scaletta la trilogia dell’asfalto composta da titoli quali “Hit The Road”, “Off The Road” e “Fork In The Road”. I più sensibili dei youngofili potrebbero a questo punto avere i brividi, e rievocare miraggi sepolti nel remoto immaginario del Canadese legati alla dimensione “on the road”. Strade che per Neil non sono state teatro del riscatto di umiliati e offesi springsteenieni o terreno per le geniali allegorie sulle orme di Mark Twain della Highway 61 dylaniana. Bensì di volta in volta peripezie visionarie (“The Last Trip to Tulsa”), cavalcate di sfavillanti Cadillac sotto il sole del profondo Sud (“Alabama”), tappe del calvario di una Nazione tra depressione post-hippie e scorie vietnamite (“Ambulance blues”) o passaggi dal bitume alla sabbia quale metafora della propria rinascita artistica e personale (“Thrasher”).
Niente di tutto questo, ma un album proiettato verso le sfide di sostenibilità del futuro, ossia il bivio cui fa riferimento il titolo del lavoro. Intento di sensibilizzazione lodevole e bersaglio centrato: nonostante una certa retorica senile qua e là inevitabilmente affiori, Young è ancora capace di sgommare con abilità oltre i contrasti del suo grande paese adottivo, in cui “sbagliato è giusto, verità è finzione, verità è bugia”, e di insinuare dubbi e inquietudini al grido di“ There's a bailout coming but it's not for you” (“C’è una cauzione in arrivo, ma non è per te”).
In musica ciò si traduce nell’ennesimo album in chiaroscuro di questa decade, la prima dai Sixties a non aver avuto un autentico capolavoro da parte di un Young sempre più ostaggio di una capricciosa ispirazione. Fork In The Road accentua il feeling garage di Living With War: rock sanguigno e smargiasso, non però in maniera geniale come in un Re-ac-tor ma a tratti imballato come in Greendale.
Si ascoltino le manierate scorribande sudiste di “Cough the bucks” e “Johnny Magic” e la parodistica citazione di “Roadhouse blues” dei Doors su “Get behind the wheel”. Il Young elettrico, intricato e dolente che tanto amiamo, compare occasionalmente, con alcune scorie sprigionate da “Hit the road” e “Fork In The Road”. Ma il solo Ben Keith, a differenza del precedente e riuscito Chrome Dreams II, non basta a ricreare certe affinità elettive, in contumacia Crazy Horse. Specialmente se le intuizioni di “When worlds collide” e “Just singing a song” vengono appesantite nel refrain da stucchevoli cori tardo-hippie.
A nobilitare il disco provvede per fortuna la scalata di marce su “Fuel Line”, con capatina a Motown che riporta agli anni Ottanta del sottostimato This Note's For You e su “Off the road”, dai riusciti tocchi gospel. Fino all’asso nella manica, l’esercizio youngiano per eccellenza, la ballata:la squisita
“Light a candle”, acquerello folk alla Bert Jansch che vivacizza con soffici iridescenze l’ennesimo dipinto del Loner. Certo, Neil Young non potrebbe sbagliare una ballata neanche se volesse.
Junio C. Murgia, storiadellamusica.it
Fork In The Road, il 39° album inedito di Neil Young, uscito il mese scorso, riporta alla luce l’ostinata follia della lunga serie di critiche che hanno accompagnato il suo lavoro di una vita – un microcosmo della follia intrinseca alla critica rock mainstream.
La verità è che la complessità di Young non è mai stata compresa, né dalle legioni dei suoi inconsapevoli fan, né da quegli pseudo-intellettuali pop che amano definirsi “critici rock”.
Entrambi hanno sempre cercato di incasellare artisti come Young – per comodità, o per l’incapacità di cogliere la vena grintosamente innovativa del grande rock – sin dai tempi di Everybody Knows This Is Nowhere (1969). Quell’album – il primo che Neil realizzò insieme ai suoi complici di sempre (i Crazy Horse, che non hanno partecipato al suo nuovo lavoro) – fu il primo esempio degli sconvolgenti contrasti che hanno sempre caratterizzato le sue opere e arrivano dritti a Fork In The Road.
Certo, questo non è di sicuro il suo lavoro migliore, ma nel rock e nel folk non c’è nessuno che sappia promuovere la propria voce sincera quanto Young. Che ha sempre seguito la sua musa, e non ha mai abbandonato la strada che ha scelto per il suo sound, la sua furia e i suoi contenuti. Come con Living With War (2006) la sua arte entra con forza nel dibattito internazionale sui temi sociopolitici ed economici più attuali. Cosa che è sempre un rischio per la validità e l’integrità d’ogni forma d’arte, e lo è soprattutto per il rock, già propenso di suo a diventare parte di quel teatro dell’assurdo che è il pozzo saturo (e spesso controllato dalle corporation) dell’informazione ai tempi di internet e della Cnn. Eppure, Young riesce a mettere la cultura americana davanti a uno specchio in questi tempi di apparenti mutamenti.
Canzoni da polverizzare le ossa – fra il rockabilly e il thrash rock – come “Fuel Line” e “Hit The Road” riescono insieme a celebrare e a dissacrare la storia d’amore dell’America e del resto del mondo con le automobili a benzina.
I loro testi crudi sono sia una pungente satira sull’ignoranza della gente sia un’ammissione di quanto Young si senta loro vicino, per linguaggio e sentimenti. Un ascolto più attento della sua voce e dei suoi testi rivela tutta l’arte che c’è dietro questo lavoro, nonostante la ruvidità di facciata. E proprio qui sta il genio di Young. Tutte le canzoni fanno riferimento al suo ultimo progetto: la riconversione di una Lincoln Continental del 1959, una “Linc-Volt”, in un’auto ibrida a motore elettrico (per saperne di più, www.lincvolt.com). Avrà 63 anni, ma è sempre all’avanguardia.
Lucas E. Alden, europaquotidiano.it
Neil Young è autentico come il rombo di una vecchia automobile. Non troverete mai nella sua musica una, seppur minima, contraddizione. Non potrebbe, il buon Neil. Lui che da quarant’anni raccoglie nel suo garage ferraglie rock 'n' roll pronte ad essere lucidate e messe in strada proprio come la Lincoln Continental del ’59 di cui si vanta. Un viaggio lunghissimo, il suo, nelle highway del rock, ”con una Coca Cola in mano, nella terra della speranza, percorrendo la Route 66” come canta ironicamente in “When Words Collide”. Fork In The Road, ventinovesimo gettone in studio, è Neil che balla e canta davanti a una webcam con un panama in testa. Il videoclip, che dà faccia anche alla copertina del disco, mostra il musicista canadese in una forma smagliante e arzillo nei suoi sessantatre anni. E questo albo, che suona elettrico al 100%, che non cerca ruffianismi artistoidi, che non si vergogna della pelle un po’ rattrappita e bianchiccia che esce dai pantaloncini, che è blues, spremuta di chitarre e ritmo, cronaca di un’America dove ”il nero è nero, il bianco è bianco, sbagliato è sbagliato”, ma che poi ”sbagliato è giusto, verità è finzione, verità è bugia”, è un lavoro di puro entusiasmo, rifocillato dalla nuova era Obama e dalla ventata di fiducia che per musicisti come lui (e come Springsteen) vuol dire ossigeno. Prima dell’elezione di Barak, gli States si trovavano ad un bivio (“fork”): rassegnarsi o cambiare (detto all’americana). Ora che il presidente è lì alla Casa Bianca, Neil chiede un ulteriore sforzo: ritirare le truppe ”che sono ancora lì, nella fottuta guerra”, cantare canzoni che però ”non cambieranno il mondo” e rispettare la natura e le fonti di energia alternativa. Un disco in movimento, con il vento a spettinare i capelli. In viaggio, sulla strada, sfrecciando e lasciando indietro i problemi. Neil è felice, critico ma felice. Punge ma sorride, sgomma cantando, mastica tabacco e parolacce, suona la sua chitarra, si muove al blues. Ma nonostante tutto si ritrova sempre all’interno di una gabbia ben visibile. Il suo stato d’animo? ”There's a bailout coming but it's not for you”: “C’è una cauzione in arrivo, ma non è per te”.
Nota: Il disco è ispirato al LincVolt Project, un progetto di auto elettrica a cui ha partecipato insieme al pioniere del biodiesel Johnathan Goodwin, cui è dedicata Johnny Magic.
Riccardo Marra, ilcibicida.com
“Just singing a song won’t change the world”: Neil Young la pensa così da quando, per realizzare un documentario, ha rimesso mano al materiale video di CSN&Y nel loro periodo di metà settanta…”those were the days”! Ma non credere più di poter cambiare il mondo, a quanto pare, non è una scusa per dispensarsi dal commentarne le sbandate: dal 2005 ad oggi, mettendo nel conto anche la riapertura degli archivi storici, il patròn dei cantautori canadesi macina dischi con una media di un’uscita e mezzo all’anno. Un ritmo che lo allontana di parecchie lunghezze dalle cadenze decennali di molti coetanei e che in più gli consente di restare sempre “sul pezzo”: gli attentati dell’11 settembre su Prairie Wind, l’inizio della guerra in Iraq in Living With War e naturalmente la grande crisi finanziaria che spunta fuori dagli spigoli più polemici di quest’ultimo, attualissimo Fork In The Road. Ogni album una prima pagina, lo Young del 21° secolo vanta un tiro da cronista e pare quasi una versione del cantautore anni ‘70 aggiornata secondo le tempistiche dei nuovi media. Più che un songwriter, quindi, quasi un “songblogger”, lo canta anche nel singolo che dà il titolo all’album (“keep on bloggin’/ 'til the power goes out”…evvai di controcultura!).
Essendo stato registrato tra le tappe dell’ultima tournee, Fork In The Road si trova a metà strada fra il classico disco “on the road” e l’altrettanto classico concept politico: un po’ diario di bordo, un po’ raccolta di corsivi giornalistici, comunque sia perennemente in corsa per raggiungere qualche posto o per arrivare puntuali sul luogo del reato. Per Young il tempo possiede ancora quella pressione incalzante che aveva ad inizio carriera quando, appena 24enne, già empatizzava con l’“Old Man” della sua ballata. Ma ora che, a dispetto delle sue generalità, il “vecchio uomo” è diventato lui, opta per una versione 2.0 di se stesso che lo riporti ad esser mediaticamente giovane, produttivamente iperattivo, più prosaico e sbrigativo con i testi e con il corredo di una manciata di videoclip lo-fi che sembrano fatti apposta per affollare il canale di Youtube.
Sul versante musicale i tempi stretti e la naturale disillusione verso le capacità rivoluzionarie della musica portano inevitabilmente a qualche indulgenza in più: volendo iddio, Fork In The Road non replica le smargiassate con fiati sfoggiate da Chrome Dreams II un paio di anni orsono, ma in compenso annovera lo pseudorap di “Cough on the Bucks” che ha comunque già un posto d’onore assicurato fra i suoi peggiori peccati veniali.
Meglio prenderla alla leggera, come un divertissment da parte di una compagine di ottimi musicisti che non hanno più nulla da dimostrare a nessuno e, proprio perché hanno imparato che il mondo non si può cambiare con una canzone, si concedono finalmente un po’ di sano cazzeggio. Certo, così manca la scrittura che si faccia ricordare (anche se quella “Light the Candle”, unico episodio acustico, non sfigurerebbe in bocca all’ultimo Springsteen…), ma chiedere qualcosa di più a chi ha già tanto segnato la storia della musica pare quasi maleducazione…se però fosse lecito bisbigliare consigli alle orecchie dei giganti avremmo un solo suggerimento: stare meno ossessivamente dietro ai tempi che corrono e prendersi invece un po’ più di tempo per se stessi. L’ozio e la lentezza non sono solo lussi da rockstar milionarie, ma anche unguenti benefici che hanno già rimesso in forze più di una discografia.
Simone Dotto, kalporz.com
La verità è che la complessità di Young non è mai stata compresa, né dalle legioni dei suoi inconsapevoli fan, né da quegli pseudo-intellettuali pop che amano definirsi “critici rock”.
Entrambi hanno sempre cercato di incasellare artisti come Young – per comodità, o per l’incapacità di cogliere la vena grintosamente innovativa del grande rock – sin dai tempi di Everybody Knows This Is Nowhere (1969). Quell’album – il primo che Neil realizzò insieme ai suoi complici di sempre (i Crazy Horse, che non hanno partecipato al suo nuovo lavoro) – fu il primo esempio degli sconvolgenti contrasti che hanno sempre caratterizzato le sue opere e arrivano dritti a Fork In The Road.
Certo, questo non è di sicuro il suo lavoro migliore, ma nel rock e nel folk non c’è nessuno che sappia promuovere la propria voce sincera quanto Young. Che ha sempre seguito la sua musa, e non ha mai abbandonato la strada che ha scelto per il suo sound, la sua furia e i suoi contenuti. Come con Living With War (2006) la sua arte entra con forza nel dibattito internazionale sui temi sociopolitici ed economici più attuali. Cosa che è sempre un rischio per la validità e l’integrità d’ogni forma d’arte, e lo è soprattutto per il rock, già propenso di suo a diventare parte di quel teatro dell’assurdo che è il pozzo saturo (e spesso controllato dalle corporation) dell’informazione ai tempi di internet e della Cnn. Eppure, Young riesce a mettere la cultura americana davanti a uno specchio in questi tempi di apparenti mutamenti.
Canzoni da polverizzare le ossa – fra il rockabilly e il thrash rock – come “Fuel Line” e “Hit The Road” riescono insieme a celebrare e a dissacrare la storia d’amore dell’America e del resto del mondo con le automobili a benzina.
I loro testi crudi sono sia una pungente satira sull’ignoranza della gente sia un’ammissione di quanto Young si senta loro vicino, per linguaggio e sentimenti. Un ascolto più attento della sua voce e dei suoi testi rivela tutta l’arte che c’è dietro questo lavoro, nonostante la ruvidità di facciata. E proprio qui sta il genio di Young. Tutte le canzoni fanno riferimento al suo ultimo progetto: la riconversione di una Lincoln Continental del 1959, una “Linc-Volt”, in un’auto ibrida a motore elettrico (per saperne di più, www.lincvolt.com). Avrà 63 anni, ma è sempre all’avanguardia.
Lucas E. Alden, europaquotidiano.it
Neil Young è autentico come il rombo di una vecchia automobile. Non troverete mai nella sua musica una, seppur minima, contraddizione. Non potrebbe, il buon Neil. Lui che da quarant’anni raccoglie nel suo garage ferraglie rock 'n' roll pronte ad essere lucidate e messe in strada proprio come la Lincoln Continental del ’59 di cui si vanta. Un viaggio lunghissimo, il suo, nelle highway del rock, ”con una Coca Cola in mano, nella terra della speranza, percorrendo la Route 66” come canta ironicamente in “When Words Collide”. Fork In The Road, ventinovesimo gettone in studio, è Neil che balla e canta davanti a una webcam con un panama in testa. Il videoclip, che dà faccia anche alla copertina del disco, mostra il musicista canadese in una forma smagliante e arzillo nei suoi sessantatre anni. E questo albo, che suona elettrico al 100%, che non cerca ruffianismi artistoidi, che non si vergogna della pelle un po’ rattrappita e bianchiccia che esce dai pantaloncini, che è blues, spremuta di chitarre e ritmo, cronaca di un’America dove ”il nero è nero, il bianco è bianco, sbagliato è sbagliato”, ma che poi ”sbagliato è giusto, verità è finzione, verità è bugia”, è un lavoro di puro entusiasmo, rifocillato dalla nuova era Obama e dalla ventata di fiducia che per musicisti come lui (e come Springsteen) vuol dire ossigeno. Prima dell’elezione di Barak, gli States si trovavano ad un bivio (“fork”): rassegnarsi o cambiare (detto all’americana). Ora che il presidente è lì alla Casa Bianca, Neil chiede un ulteriore sforzo: ritirare le truppe ”che sono ancora lì, nella fottuta guerra”, cantare canzoni che però ”non cambieranno il mondo” e rispettare la natura e le fonti di energia alternativa. Un disco in movimento, con il vento a spettinare i capelli. In viaggio, sulla strada, sfrecciando e lasciando indietro i problemi. Neil è felice, critico ma felice. Punge ma sorride, sgomma cantando, mastica tabacco e parolacce, suona la sua chitarra, si muove al blues. Ma nonostante tutto si ritrova sempre all’interno di una gabbia ben visibile. Il suo stato d’animo? ”There's a bailout coming but it's not for you”: “C’è una cauzione in arrivo, ma non è per te”.
Nota: Il disco è ispirato al LincVolt Project, un progetto di auto elettrica a cui ha partecipato insieme al pioniere del biodiesel Johnathan Goodwin, cui è dedicata Johnny Magic.
Riccardo Marra, ilcibicida.com
“Just singing a song won’t change the world”: Neil Young la pensa così da quando, per realizzare un documentario, ha rimesso mano al materiale video di CSN&Y nel loro periodo di metà settanta…”those were the days”! Ma non credere più di poter cambiare il mondo, a quanto pare, non è una scusa per dispensarsi dal commentarne le sbandate: dal 2005 ad oggi, mettendo nel conto anche la riapertura degli archivi storici, il patròn dei cantautori canadesi macina dischi con una media di un’uscita e mezzo all’anno. Un ritmo che lo allontana di parecchie lunghezze dalle cadenze decennali di molti coetanei e che in più gli consente di restare sempre “sul pezzo”: gli attentati dell’11 settembre su Prairie Wind, l’inizio della guerra in Iraq in Living With War e naturalmente la grande crisi finanziaria che spunta fuori dagli spigoli più polemici di quest’ultimo, attualissimo Fork In The Road. Ogni album una prima pagina, lo Young del 21° secolo vanta un tiro da cronista e pare quasi una versione del cantautore anni ‘70 aggiornata secondo le tempistiche dei nuovi media. Più che un songwriter, quindi, quasi un “songblogger”, lo canta anche nel singolo che dà il titolo all’album (“keep on bloggin’/ 'til the power goes out”…evvai di controcultura!).
Essendo stato registrato tra le tappe dell’ultima tournee, Fork In The Road si trova a metà strada fra il classico disco “on the road” e l’altrettanto classico concept politico: un po’ diario di bordo, un po’ raccolta di corsivi giornalistici, comunque sia perennemente in corsa per raggiungere qualche posto o per arrivare puntuali sul luogo del reato. Per Young il tempo possiede ancora quella pressione incalzante che aveva ad inizio carriera quando, appena 24enne, già empatizzava con l’“Old Man” della sua ballata. Ma ora che, a dispetto delle sue generalità, il “vecchio uomo” è diventato lui, opta per una versione 2.0 di se stesso che lo riporti ad esser mediaticamente giovane, produttivamente iperattivo, più prosaico e sbrigativo con i testi e con il corredo di una manciata di videoclip lo-fi che sembrano fatti apposta per affollare il canale di Youtube.
Sul versante musicale i tempi stretti e la naturale disillusione verso le capacità rivoluzionarie della musica portano inevitabilmente a qualche indulgenza in più: volendo iddio, Fork In The Road non replica le smargiassate con fiati sfoggiate da Chrome Dreams II un paio di anni orsono, ma in compenso annovera lo pseudorap di “Cough on the Bucks” che ha comunque già un posto d’onore assicurato fra i suoi peggiori peccati veniali.
Meglio prenderla alla leggera, come un divertissment da parte di una compagine di ottimi musicisti che non hanno più nulla da dimostrare a nessuno e, proprio perché hanno imparato che il mondo non si può cambiare con una canzone, si concedono finalmente un po’ di sano cazzeggio. Certo, così manca la scrittura che si faccia ricordare (anche se quella “Light the Candle”, unico episodio acustico, non sfigurerebbe in bocca all’ultimo Springsteen…), ma chiedere qualcosa di più a chi ha già tanto segnato la storia della musica pare quasi maleducazione…se però fosse lecito bisbigliare consigli alle orecchie dei giganti avremmo un solo suggerimento: stare meno ossessivamente dietro ai tempi che corrono e prendersi invece un po’ più di tempo per se stessi. L’ozio e la lentezza non sono solo lussi da rockstar milionarie, ma anche unguenti benefici che hanno già rimesso in forze più di una discografia.
Simone Dotto, kalporz.com
Neil Young non se ne frega. Se ne incarica. Reagisce con spregio volitivo. Lo ha fatto due anni fa con Living With War e lo scorso anno, in parte, con Chrome Dreams II. Torna a farlo con questo Fork In The Road dedicato alla crisi economica - ai suoi risvolti drammatici e demenziali - spargendo ulteriore sale sulle crisi parallele, quelle delle fonti energetiche e della global pollution. Ok, dio ci salvi dal pistolotto moral-ambientalista del vecchio fricchettone incanutito. E poi, ok, cos'altro vuole dimostrarci? Perché dovremmo avere voglia di ascoltare altri country rock rocciosi e funky o ballate da tramonto sul deserto delle nostre vite? Come se potessero aggiungere qualcosa ai Freedom, ai Rust Never Sleeps, ai Dejà Vu, persino ai Re-ac-tor o agli Harvest Moon, tanto per circoscrivere il raggio d'azione di quest'ultimo lavoro, trentottesimo titolo solista se non ho fatto male i conti.
No, il punto non è questo. Conta poco che “Singing A Song” sembri una nipotina sfigata di “Like A Hurricane” o che il corettino di “Johnny Magic” (dedicata al meccanico del Milwaukee Jonathan Goodwin che ha progettato un motore ad emissioni zero) rimandi un po' scioccamente a quello storico di “Hey Hey My My” (che chiamava in causa un tal Johnny Rotten...). Conta semmai che Young sembra davvero aver ritrovato l'urgenza di sbraitare rock in risposta al turbamento, allo sdegno, al giramento di palle o se volete a una speranza. Nel segno di uno sgarbato e acido keep it real che lo sbatte in prima linea anche se lontano dalle prime pagine, Don Chisciotte forse balzano ma ben dentro il solco del presente. Sentitevi come scapicolla e scollaccia boogie rock nella title track, come azzardi stralunato impasto funk e psych in “Cough Up The Bucks”, e che bel crepuscolo di voce regala alla trepida “Light A Candle”.
Tutta roba inessenziale, certo. Ma c’è del fascino in questa sua noncurante e scontrosa persistenza.
Stefano Solventi, sentireascoltare.com
Ogni volta che sembra ad un passo dal pubblicare finalmente i suoi fantomatici Archives (l’unica cosa che davvero interessa ai fans e gli addetti ai lavori) ecco che Neil Young blocca tutto perché ha pronto un nuovo, orripilante, album da dare in pasto alla povera gente. Era già successo con il pessimo Chrome Dreams II nel 2007, e due anni dopo il songwriter candese è riuscito nel miracolo di produrre un disco ancora più brutto ed inutile.
Nato dalla “nobile ed elevata” ispirazione figlia della recente ossessione di Young per la sua Lincoln Continental (autovettura, prodotta dalla Ford, che sfrutta solo energie alternative brevettate da Johnatan Goodwin), Fork In The Road è un album che risulta offensivo già a partire dalla copertina che, probabilmente realizzata tramite paint dallo stesso Neil, è la più patetica e brutta di tutta la storia del rock. Ma questo potrebbe anche essere un problema relativamente inutile se il contenuto dell’album fosse di valore assoluto. Ovviamente, come avrete capito, non è questo il caso.
Registrato nelle pause dello scorso tour con la sua live band (con, tra gli altri, Rick Rosas al basso e Chad Cromwell alla batteria, quindi niente Crazy Horse again), l’album è caratterizzato per quasi la sua completa durata da un sound blues che vorrebbe suonare grezzo, ma in realtà risulta essere solo molto manieristico e che perde ogni briciolo di valore essendo al supporto di brani senza alcun minimo spessore. Melodie piatte come l’acqua in una bacinella, impasti vocali (il più delle volte tra Neil e sua moglie Pegi) ridicoli e stonati, testi di una banalità disarmante e chi meno ne ha meno ne metta.
Già nei mesi precedenti molti fan (perlomeno quelli non privi di spirito critico) erano allarmati dalla pochezza dei brani presentati in tour, e alcune operazioni come il terrificante video della title track avevano messo in apprensione davvero tutti sulla buona riuscita di questo ennesimo nuovo disco. Ma i risultati vanno oltre le più pessimistiche aspettative, ed è davvero difficile trovare delle canzoni che abbiano una ragione d’esistere (“Off The Road” e “Light Candle”, che lasciano intravedere qualche barlume di ispirazione nel loro intimismo soffice e delicato) confermando una volta di più che la carriera di questo straordinario musicista ed autore è finita nel 2005 con Prairie Wind, l’ultimo album davvero ispirato e gradevole. Invece, l’unica cosa che poteva fare Young per rendere degna tutta questa operazione, era regalarlo in download libero; invece non è così e bisogna sganciare quasi 20 euro se si vuole rimanere nella legalità. Imbarazzante.
Andrea Belcastro
No, il punto non è questo. Conta poco che “Singing A Song” sembri una nipotina sfigata di “Like A Hurricane” o che il corettino di “Johnny Magic” (dedicata al meccanico del Milwaukee Jonathan Goodwin che ha progettato un motore ad emissioni zero) rimandi un po' scioccamente a quello storico di “Hey Hey My My” (che chiamava in causa un tal Johnny Rotten...). Conta semmai che Young sembra davvero aver ritrovato l'urgenza di sbraitare rock in risposta al turbamento, allo sdegno, al giramento di palle o se volete a una speranza. Nel segno di uno sgarbato e acido keep it real che lo sbatte in prima linea anche se lontano dalle prime pagine, Don Chisciotte forse balzano ma ben dentro il solco del presente. Sentitevi come scapicolla e scollaccia boogie rock nella title track, come azzardi stralunato impasto funk e psych in “Cough Up The Bucks”, e che bel crepuscolo di voce regala alla trepida “Light A Candle”.
Tutta roba inessenziale, certo. Ma c’è del fascino in questa sua noncurante e scontrosa persistenza.
Stefano Solventi, sentireascoltare.com
Ogni volta che sembra ad un passo dal pubblicare finalmente i suoi fantomatici Archives (l’unica cosa che davvero interessa ai fans e gli addetti ai lavori) ecco che Neil Young blocca tutto perché ha pronto un nuovo, orripilante, album da dare in pasto alla povera gente. Era già successo con il pessimo Chrome Dreams II nel 2007, e due anni dopo il songwriter candese è riuscito nel miracolo di produrre un disco ancora più brutto ed inutile.
Nato dalla “nobile ed elevata” ispirazione figlia della recente ossessione di Young per la sua Lincoln Continental (autovettura, prodotta dalla Ford, che sfrutta solo energie alternative brevettate da Johnatan Goodwin), Fork In The Road è un album che risulta offensivo già a partire dalla copertina che, probabilmente realizzata tramite paint dallo stesso Neil, è la più patetica e brutta di tutta la storia del rock. Ma questo potrebbe anche essere un problema relativamente inutile se il contenuto dell’album fosse di valore assoluto. Ovviamente, come avrete capito, non è questo il caso.
Registrato nelle pause dello scorso tour con la sua live band (con, tra gli altri, Rick Rosas al basso e Chad Cromwell alla batteria, quindi niente Crazy Horse again), l’album è caratterizzato per quasi la sua completa durata da un sound blues che vorrebbe suonare grezzo, ma in realtà risulta essere solo molto manieristico e che perde ogni briciolo di valore essendo al supporto di brani senza alcun minimo spessore. Melodie piatte come l’acqua in una bacinella, impasti vocali (il più delle volte tra Neil e sua moglie Pegi) ridicoli e stonati, testi di una banalità disarmante e chi meno ne ha meno ne metta.
Già nei mesi precedenti molti fan (perlomeno quelli non privi di spirito critico) erano allarmati dalla pochezza dei brani presentati in tour, e alcune operazioni come il terrificante video della title track avevano messo in apprensione davvero tutti sulla buona riuscita di questo ennesimo nuovo disco. Ma i risultati vanno oltre le più pessimistiche aspettative, ed è davvero difficile trovare delle canzoni che abbiano una ragione d’esistere (“Off The Road” e “Light Candle”, che lasciano intravedere qualche barlume di ispirazione nel loro intimismo soffice e delicato) confermando una volta di più che la carriera di questo straordinario musicista ed autore è finita nel 2005 con Prairie Wind, l’ultimo album davvero ispirato e gradevole. Invece, l’unica cosa che poteva fare Young per rendere degna tutta questa operazione, era regalarlo in download libero; invece non è così e bisogna sganciare quasi 20 euro se si vuole rimanere nella legalità. Imbarazzante.
Andrea Belcastro