Year Of The Horse - Rassegna Stampa
Trent’anni di ribellione rock riletti dal Neil Young più «maturo».
Le canzoni, tratte dal suo immenso archivio, sono rielaborate in versioni sorprendenti, come se l’artista avesse la consapevolezza della vecchiaia che si avvicina. «Vivo ancora nel vostro vecchio sogno, perme non è finito».
L’uscita di Year Of The Horse, ennesimo live nella discografia di Neil Young, coincide purtroppo con la notizia dell’annullamento del breve tour italiano, dovuto a un banale incidente domestico. E ci permette tuttavia di tracciare un breve profilo del musicista canadese. Un esercizio di qualche utilità, se si considera l’influenza che Young ha esercitato ed esercita su decine e decine di gruppi rock. Senza volerlo essere, Young è diventato, più di tanti altri artisti della sua generazione, un vero eroe della cultura alternativa. Basta una sua immagine per evocare una vera e propria epopea di speranze, di contrasti tra business e purezza, di irriducibile ribellione a qualsiasi schema e costrizione. In questo senso Year Of The Horse è un altro ritocco alla leggenda. Si tratta di un disco dal vivo, certo, come Time Fades Away, Live Rust e Weld, ma l’atmosfera è un’altra, le canzoni sono differenti, spesso rielaborate in versioni sorprendenti, ripescate dall’immenso archivio di Young, che, è bene ricordarlo, incide dischi e fa concerti da più di trent’anni. E se Time Fades Away era l’istantanea di un tour drammatico, segnato dalla morte per overdose dell’amico chitarrista dei Crazy Horse Danny Whitten, se Live Rust documentava con un pizzico d’ironia il trionfo di un uomo all’apice della creatività, se Weld segnava con fragore l’ingresso definitivo nella storia del rock, Year Of The Horse trasmette palpabile la consapevolezza della vecchiaia che si avvicina. Quante volte ci è sembrato impossibile associare il rock, la musica giovane per eccellenza, ai capelli bianchi e alle rughe? Invecchiano i bluesmen, i suonatori jazz, ma chi fa rock non se lo può permettere. Forse Year Of The Horse e ci dice soprattutto questo, che si può avere cinquant’anni senza rinunciare ai sogni e alla libertà. Young lo canta in modo esplicito in “Big Time”, non a caso ripresa dal suo ultimo disco in studio Broken Arrow: «Vivo ancora nel nostro vecchio sogno, per me non è finito». E dire che intorno a lui sono crollati miti e utopie... Quando Young decise di lasciare il Canada e di tentare la fortuna a Los Angeles, terra promessa della nuova musica come Londra e New York, erano i primi mesi del 1966. Lui e il suo amico Bruce Palmer avevano appena vent’anni, ma invece di viaggiare su un autobus decorato a motivi floreali si spostavano su un vecchio carro funebre. Si tratta di un particolare curioso, che tuttavia la dice lunga sul senso dell’umorismo di Young, un lato del suo carattere che gli ha sempre impedito di essere un integralista. Con i Buffalo Springfield, fondati con Stephen Stills e Richie Furay, Young ebbe un ruolo importante nell’estate dell’amore (Buffalo Springfield Again è uno dei tanti capolavori pubblicati nel 1967), ma non fu mai realmente coinvolto nella nascente ideologia degli hippies californiani. Era l’indiano di Hollywood, un personaggio schivo e misterioso che scriveva canzoni malinconiche come “Expecting To Fly”, inquietanti come “Broken Arrow” o acide come “Mr. Soul”. E quando i Buffalo Springfield si sciolsero tra conflitti di ego e mille ripensamenti, Young preferì cominciare una carriera solista. Il suo primo disco, uscito al principio del ‘69, parla di ecologia, amori perduti e morte (“The Old Laughing Lady”). E quello era l’anno di Crosby, Stills & Nash, lo stesso in cui Stills riusciva a farlo entrare nel supergruppo e a portarlo a Woodstock. Di quei tre giorni di pace, amore e musica Young ricorda tuttora una folle corsa in un furgone rubato con l’amico Jimi Hendrix. Neil Young era il lato oscuro dell’Utopia della West Coast, il pessimista di Everybody Knows This Is Nowhere il primo lavoro con i Crazy Horse, anche questo del ’69) o di After The Gold Rush. Perfino Harvest, ancora oggi il suo album più famoso, fu messo insieme con grande fatica ed è tutto meno che un’opera solare e rilassata. Per liberarsi dell’immagine di cantautore triste che i mass media gli avevano subito e nonostante tutto cucito addosso, facendone una sorta di doppio californiano di James Taylor, Young pubblicò un live devastante, Time Fades Away, e un disco straordinario (e misconosciuto) come On The Beach, in cui metteva a nudo le proprie contraddizioni e raccontava le tragiche imprese di Charles Manson. È quasi impossibile raccontare in poche righe una storia tanto complessa, ma bisogna ricordare almeno Tonight’s The Night (1975), da molti considerato il suo capolavoro assoluto, Zuma (1975), Rust Never Sleeps (1979) e Live Rust (1979). Gli anni ’80 sono per Young i più faticosi, quelli in cui, come ha detto lui stesso, vola come una farfalla impazzita. Il matrimonio con Pegi e la nascita di Ben, il secondo figlio malato di paralisi cerebrale (il primo, Zeke, era nato dalla relazione con l’attrice Carrie Snodgrass) lo gettano in uno stato di prostrazione e confusione da cui riemerge soltanto nel 1989 con Freedom, seguito nel 1990 dallo splendido Ragged Glory e dal già citato Weld (1991), entrambi realizzati con i Crazy Horse. Il resto, che comprende tra l’altro un eccellente «Unplugged » (1993), lo stupendo «Sleeps With Angels» (1994), ancora con i Crazy Horse, e «Mirror Ball» (1995), nato dalla collaborazione con i Pearl Jam, è storia di oggi. Mentre dei suoi coetanei e amici degli anni ‘60 si sono quasi perse le tracce, di Neil Young si parla con rispetto e ammirazione. La stampa specializzata (e non solo) lo considera il grande padre del rock americano contemporaneo e i segni del suo inconfondibile stile, di quel modo ipnotico e selvaggio di suonare la chitarra elettrica, si ritrovano nel suono di band come Dream Syndicate, Sonic Youth o Nirvana. Nella conferenza stampa che Young tenne a Roma nel settembre del 1982, qualcuno gli chiese dove fosse secondo lui il futuro del rock americano. Young non ebbe esitazioni e rispose: «Nelle cantine, nei garage». La storia degli anni ‘80 e ‘90 gli ha dato pienamente ragione. Ed è per questo che siamo qui a parlare di lui. È per questo che Year Of The Horse non è l’album qualsiasi di un musicista qualsiasi. Neil Young si mette come sempre a nudo e ci regala una manciata di canzoni formidabili: da “When You Dance I Can really Love” a “Barstool Blues”, da “Mr. Soul” a “Pocahontas”, da “Human Highway” a “Danger Bird”, da “Prisoners Of Rock’n’Roll” a “Sedan Delivery”. Canzoni conosciute, ma non invecchiate e in cui possiamo ancora una volta ritrovarci. Con le nostre paure, con le nostre debolezze, con le nostre esitazioni. E anche, quando il cuore batte forte, trascinato da quella chitarra, con i nostri inguaribili sogni.
Giancarlo Susanna, L'Unità
Lo so. Se si parla di Neil Young dal vivo tutti esclamano Rust Never Sleeps. Io non ci penso neanche. I menestrelli canadesi che cantano con la loro chitarra come se fossero le feste della parocchia non mi sono mai piaciuti. In “My, My, Hey, Hey”, quella acustica, perchè quella elettrica è “Hey, Hey, My, My”, il medesimo dice in modo chiaro ed inconfutabile che “Rock’n’ roll Is Here To Stay”. Appunto. A me piace il rock’n’roll quello con le chitarre belle in vista. Quelle elettriche, non quelle acustiche. Per questo fino a “Powderfinger” in Rust Never Sleeps non mi diverto per niente. Allora se si vuole un Neil Young che non stia lì troppo a miagolare, ma ci dia dentro come ci sa dar dentro con tutti i suoi Crazy Horse in fila, allora bisogna optare per altro. Io ho acquistato questa copia di Year Of The Horse dopo che avevo assistito ad un concerto a Brescia nel 2001. Di spalla avevano suonato i Black Crowes, non so se mi spiego e Neil Young suonava immediatamente dopo. Il giorno dopo sono entrato nel negozio di dischi con nella testa ancora il feedback che l’uomo aveva ammollato nel corso di “Like A Hurricane”. Come potevo aver bisogno di Rust Never Sleeps? Io volevo potenza e questo il negoziante mi ha dato. Tutta la potenza di Neil Young. E questo doppio cd è esattamente la trasposizione della parte elettrica di un concerto di Neil Young. La banda ed il chitarrista che suonano proprio come una canzone non dovesse mai smettere. Alla ricerca dell’ultima nota da tirare fuori da quel brano. Che sia “Pocahontas” o “Barstool Blues” non importa. Dopo il trattamento i pezzi sono svuotati da ogni significato che possa essere tratto. La canzone ed il pubblico sono esausti. Anche quando i toni calano e Neil Young torna all’acustica ed all’armonica lo stato di elettricità permane, tanto che gli odiati, molto personali, miagolii sono del tutto sedati. In Year Of The Horse c’è tutto il Neil Young che vorrei sentire. Lo so non ci sono “Cortez The Killer”, “Powderfinger” e “Like A Hurricane”, quelle stanno in Live Rust, ma il mio invito è di avvicinarvi ugualmente al baraccone. Acquistate e poi mi direte. Soddisfatti o rimborsati. Noi siamo gente seria.
Marco Bellestracci
Marco Bellestracci
Un disco lunatico e ineguale, fondamentalmente superfluo. Sono nastri del tour 1996, già documentato da Jim Jarmusch in un video che porta lo stesso titolo, con un insolito repertorio composto da brani del nuovissimo Broken Arrow, un paio di classici cari agli appassionati (“Mr. Soul” e “When You Dance”) più una collana di brani decisamente minori. I Crazy Horse non hanno più la mano scintillante di Weld e nei brani elettrici inclinano piuttosto a pesanti sottolineature, che si combinano con le lungaggini del leader; più avvincenti i momenti acustici, come “Human Highway” o una “Mr. Soul” in chiave western blues, con suggestiva introduzione di armonica. Fra le scelte insolite, una “Danger Bird” che resuscita dall'oblio di Zuma con uno strascico di 13 minuti.
Riccardo Bertoncelli, delrock.it
Riccardo Bertoncelli, delrock.it