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Live Rust - Rassegna Stampa


L'ambiente musicale della West Coast da qualche tempo è in continuo movimento, in una fase di ricambio che si prospetta piuttosto interessante. Mentre i vecchi nomi piano piano scompaiono sostanzialmente (anche se rimangono, in virtù della loro antica fama, aggrappati alle classifiche di vendita) divenendo miti da museo – così i Dead, gli Starship, gli Eagles, Santana e più o meno tutta la freak family californiana – alla ribalta e nella mente dei fans del rock 'n' roll si affacciano nomi nuovissimi, con tutt'altra grinta e, naturalmente, completamente immersi nello spirito dei tempi. Ma tra i vecchi nomi di punta della scena californiana e americana in genere, quello di Neil Young è sicuramente da salvare: e questo non per affetto o per nostalgia ma per l'effettivo valore dell'uomo e della sua musica. Nella sua più che decennale attività musicale Neil Young è passato attraverso numerose fasi, cambiamenti, crisi private, ma sempre distinguibili per la sua caparbia aderenza a se stesso, al proprio stile, alla propria sensibilità artistica; preferendo l'isolamento alla falsa luce dei riflettori del successo, rompendo con i Buffalo Springfield, con Crosby Stills e Nash, rimanendo solo con un gruppo di fidati amici. Ciò è dovuto senz'altro al suo carattere introverso, ma anche alla sua estrema sincerità, alla sua lucidità mentale che gli ha permesso in ogni momento di saper cogliere “lo spirito dei tempi”. Ed è per questo che oggi, mentre quasi tutti quelli che iniziarono come lui negli anni Sessanta, hanno il fiatone e sembrano personaggi da album dei ricordi, Neil Young può invece salire su un palco, prendere una Gibson e continuare a cantare il rock 'n' roll e le sue ballate come se avesse appena cominciato.
Negli ultimi due anni, poi, il canadese è entrato in una fase stilistica che risponde pienamente al grido di “back to rock 'n' roll” che hanno levato le nuove generazioni di rocker in tutto il mondo. Lo stacco che esiste tra Comes A Time, del tutto acustico, e il successivo Rust Never Sleeps è impressionante e testimonia di un profondo mutamento interiore, avvenuto soprattutto in conseguenza dell'attività live, del continuo contatto con i nuovi fans, stanchi di adorare i santoni ammuffiti del rock: e così Neil si è trovato di nuovo in crisi e di nuovo ne è uscito a modo suo. Live Rust è un album lacerato, iperteso, sporco e duro fino all'inverosimile, ma lucido, continuo, senza un attimo di sosta, senza contraddizioni. Una cavalcata che coinvolge quasi quindici anni di storia del rock: ogni periodo ne esce bene, ancora vivo, e per nessuno dei momenti passati ci sono lacrime e nostalgia. E, soprattutto, in ogni attimo di Live Rust si respira la voglia di vivere, la vitalità, l'energia, la certezza di non invecchiare mai.
Ciao 2001, 1979

 
È in pratica la colonna sonora del film proiettato un paio d'anni fa anche in Italia. Lo spettacolo propone un suo concerto nel quale naturalmente scorrono i brani più significativi della sua attività e in particolare il film, e la colonna sonora, sono l'ennesima riprova della doppia personalità di Young: dapprima acustico e subito dopo il bisogno di far ascoltare i suoni elettrici, di chiamare sul palco i Crazy Horse per le ballate più esasperate. Si sente il calore del pubblico ma, come per una strana magia, Young riesce ad essere sempre in primo piano, anche davanti alla forza del pubblico che per qualche attimo potrebbe sviare l'attenzione. Il suo carisma è molto forte, potrebbe anche non suonare alcun strumento, usare solo la voce e sarebbe ugualmente in grado di catalizzare lo sguardo del pubblico. Live Rust è un ottimo album live dove certi brani addirittura riescono ad acquistare in efficacia (è il caso di “Sugar Mountain” per esempio) e che lo rivela ottimo artista in concerto. Un particolare colpisce lo sguardo di chi osserva attentamente il film e la copertina del disco. Young ha un gadget di Hendrix sulla cinghia della chitarra e forse in comune se non la musica, vi sono la stessa rabbia e melanconia, lo stesso modo, spesso autodistruttivo, di affrontare la vita.
Elia Perboni, Music 1982

 
È il 1979. I mitici 70, segnati dall'hard rock, dal progressive, dal country rock, volgono al termine. Si affaccia sul mondo la rivoluzione del punk, e come al solito Neil Young, il canadese solitario, non resta a guardare... Passata la tremenda crisi dovuta alla droga che gli ha portato via il chitarrista Danny Whitten e l'amico Bruce Berry, dopo il buio di Tonight's The Night (un incredibile documento di vita), Young torna alla luce con Zuma (1974) e Comes A Time (1978), pronto a scrivere l'ennesima nuova pagina della storia della musica.
Rust Never Sleeps nasce da una serie di concerti che Neil Young e i Crazy Horse registrano nella seconda metà dei 70. Da questo storico tour estrapoleranno i pezzi inediti per il disco e successivamente quelli che costituiranno il noto Live Rust. Young porta ogni sera sul palco le proprie inquietudini, i segni della fine dell'era hippie, la scossa rabbiosa del neonato punk, le melodie del suo country rock.
Il video omonimo (giudicato nel 1987 dalla rivista "Rolling Stone" come "uno dei più grandi live degli ultimi vent'anni"), ha in realtà la tracklist del Live Rust. È un vero e proprio show, con strane figure incappucciate che fanno da service sul palco, sagome di amplificatori, microfono e addirittura diapason enormi. Le foto di quello show sono pubblicate nella copertina di Rust Never Sleeps, la performance è davvero emozionante, ma, come in ogni live, con qualche sbavatura. Così per l'album in questione e per il Live Rust furono scelte le migliori versioni registrate in tour. Il video, per la sua particolarità, è autentico, con tutti gli errori.
Il disco, suddiviso come ogni live di Young in parte acustica solitaria e cavalcata elettrica con i Crazy Horse, si apre con "My my hey hey (out of the blue)", pezzo acustico molto suggestivo che sfida il tempo. "Rock and roll can never die" canta la sua vocina che quasi si spezza, "the King is gone but is not forgotten…", riferendosi a Elvis Presley, simbolo del rock and roll. Young è consapevole della fine di un'epoca, come canta nel bellissimo secondo pezzo, "The thrasher", ma altrettanto sicuro di difendere il vecchio rock and roll, "like dinosaurs in the shrine". Young è un dinosauro del rock, ma lo sguardo verso il nuovo è palese, nell'inneggiare a Johnny Rotten (Sex Pistols) nella stessa "My my hey hey", da ricordare anche per la frase "it's better to burn out theh to fade away" presente nell'addio di Kurt Cobain (a conferma della resistenza al tempo dei temi trattati).
La parte acustica continua. Il canadese lascia le inquietudini presenti, e si butta nel passato con i classici pezzi pro-indiani d’America, come "Ride my llama" e la celebre "Pocahontas", senza dimenticare la dolce "Sail away", con Nicolette Larson alla seconda voce. Il tema dello sterminio delle americhe torna dopo il fantastico Zuma, disco del 1974 interamente dedicato a questo tema. La rabbia per i teepee bruciati e per la morte di tante pocahontas continua anche nella parte elettrica, con il capolavoro dell'album: "Powderfinger". Il titolo si riferisce a un fucile (il titolo tradotto letteralmente è "polveredito") e non è di facilissima interpretazione. Racconta di un'invasione e di un ragazzo che deve difendere i propri cari. Ma questi è troppo giovane, il suo grido disperato ("shelter me from the powder and the finger") non viene accolto: la sua rassegnazione lascia l'amaro in bocca e anche una lacrima…"(remember me to my love, I know I'll miss her…").
I Crazy Horse scatenati accompagnano la sporca ma sempre appassionata chitarra di Neil Young, Ralph Molina scandisce tempi semplici ma con grande precisione, Bill Talbott suona come al solito con gran cuore, Frank Sampedro è un "mediano", lavoro oscuro ma fondamentale... et voilà, ecco l'inimitabile sound Crazy Horse. Un suono caldo, uniforme, pieno, essenziale, risultato di un grande cuore. Poca tecnologia, nessun controllo maniacale di centinaia di effetti. La Gibson di Young (sempre la stessa dagli anni 70, è visibile nel "Live at Red Rocks", ormai consumata per le plettrate) è collegata a una pedaliera con la qiuale egli controlla solo il volume e talvolta inserisce il deelay; per il resto, solo distorsione, un po' di leva, e sentimento, ingrediente fondamentale per il rock, che spesso supplisce la tecnica.
Il disco va avanti con pezzi come "Welfare mothers" e "Sedan delivery", denuncia di lati oscuri della società (la prima inneggia al divorzio, la seconda racconta il degrado metropolitano) che in pochi hanno sottolineato nella storia della musica. Il disco si chiude con la versione elettrica del primo pezzo, un topos della produzione younghiana. "Hey hey my my (into the black)" chiude l’album così come era iniziato, ma con una dose di rabbia maggiore, quasi punk, con gli amplificatori Fender ormai esausti, con Young che picchia sulla chitarra producendo i suoi caratteristici armonici e con l'incitamento a difendersi e a vivere al massimo, "cause rust never sleeps"… 
Angelo Pierantoni


Young sistema le cose dopo un paio di dischi equivoci come American Stars ‘n Bars (uno dei suoi peggiori) e Comes A Time (bello, ma al sapor di camomilla). Lo fa in due mosse, nel giro di pochi mesi: prima un disco in studio forte e determinato, Rust Never Sleeps, poi un ruggente album dal vivo, Live Rust, dove svela senza finzioni le sue due facce di menestrello romantico e di cowboy punk. Ne farà anche un film, famosissimo, con il trucco scenico di musicisti incappucciati e diffusori giganti. La parte migliore è quella elettrica, con le tempestose folate dei ritrovati Crazy Horse che si abbattono su pezzi nuovi (“Powderfinger”, “Hey Hey My My”), su classici recenti (“Cortez The Killer”, “Like A Hurricane”) ma anche su lontane pagine per niente dimenticate (“Cinnamon Girl” e soprattutto un'ispirata “The Loner” , dai primi due album). Belle ma non così speciali le parti acustiche. “Sugar Mountain”, “I Am A Child” , “The Needle And The Damage Done” sono canzoni favolose ma soffrono di un'esecuzione un po' affrettata e di un clima che non le favorisce; avrebbero dovuto stare più raccolte, al riparo, magari nella serra di un piccolo club. 
Riccardo Bertoncelli, delrock.it


La ruggine non dorme mai, ma vive. Era tempo che Young non si presentava puntuale ad un appuntamento discografico; questa volta, quando si poteva non solo prevedere ma anche ragionevolmente giustificare un ritardo (il disco era stato annunciato come doppio, troppo vicino nel tempo al precedente, per di più con lo stesso titolo...), ecco invece il nuovo microsolco pubblicato senza problemi. Di che si tratta dovrebbe essere cosa abbastanza risaputa: è l'album del film Rust Never Sleeps girato a L. A. nel ’78 durante un concerto con i Crazy Horse, film che dovrebbe circolare regolarmente tra breve anche da noi.
Ma, a differenza di quanto solitamente accade per esperienze analoghe dove la musica non riesce a reggere separata dall'immagine, si può parlare in questo caso di un lavoro che non ha bisogno di supporto da parte della macchina da presa per essere considerato e apprezzato. Siamo ben lontani da Journey Through The Past del novembre '72, il precedente tentativo cinematografico di Neil trasferito, senza successo, su vinile: troppo noiosa e deludente la musica prescelta (eccettuati i primi documenti storici degli Springfield), così come dal precedente live ufficiale Time Fades Away del '73 che raccoglieva solo nuovi motivi e che forse proprio per questo non è riuscito ad incontrare il favore del grosso pubblico che avrebbe preferito avere anche qualcosa di più familiare da ascoltare.
Live Rust (il titolo è stato opportunamente cambiato) invece saprà convincere senza difficoltà perché c'è in esso tutto lo Young di oggi, che tanto seguito e consenso ha pure qui da noi, nelle sue due differenti facce, acustica ed elettrica, e la differenza tra le due, come il precedente lavoro di studio (sempre con i Crazy Horse) Rust Never Sleeps ha ampiamente sottolineato, è più marcata che mai. E sul fatto che ciò sia una cosa positiva pare siamo tutti d'accordo.
Per di più l'album raccoglie i brani più noti di Neil, quelli che, più o meno, piacciono di più (si tratta di una sorta di best on stage in fondo), infliggendo così un duro colpo al mercato dei bootleg che da sempre prolifera intorno alla figura del cantautore canadese. Un disco quindi gagliardo, vivo, ricco e completo. Questi i pezzi acustici presenti (chitarra e armonica): “Sugar Mountain”, “I'm A Child”, “Comes A Time”, “After The Gold Rush”, “My Hey Hey Hey (Out Of The Blue)”, “The Needle And The Damage Done”.
Quelli elettrici, che occupano poco meno di tre facciate su quattro, sono: “When You Dance I Can Really Love”, “The Loner”, “Lotta Love”, “Sedan Delivery”, “Powderfinger”, “Cortez The Killer”, “Cinnamon Girl”, “Like A Hurricane”, “Hey Hey My My (Into The Black)”, “Tonight's The Night”. Sono questi ultimi, resi più grintosi dallo spavaldo e deciso accompagnamento dei Crazy Horse, a concedersi ovviamente maggior libertà strumentale, senza intaccare però la struttura originale di ciascun brano. Il pubblico partecipa naturalmente, tutto preso dall'entusiasmo per la musica che scorre e che riconosce, mostrando di amare Neil più di quanto si creda. 
Raffaele Galli, Mucchio Selvaggio

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