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Prairie Wind - Rassegna Stampa pt.3


Neil Young non è una garanzia. Nella sua lunghissima carriera, iniziata negli anni Sessanta con i Buffalo Springfield e diventata nel 1969 la storia di un solista/solitario che ha rapporti occasionali con altri musicisti, ha sbagliato qualche disco. Ha sbagliato perfino dei periodi, vagando alla ricerca di un suono per qualche anno.
Non è questo il caso: Prairie Wind riporta con la mente e la memoria a uno dei dischi cardine della vita artistica dell'uomo con la White Falcon in mano: Comes A Time, LP del 1978, fra i più noti e importanti.
Non è difficile capire perché rimanda così puntualmente a quel disco, se si legge ciò che Young dichiara a proposito di "It's A Dream", traccia numero cinque del nuovo disco: "Quando l'ho scritta e portata in studio il mattino seguente per registrarla, ho detto a Ben Keith (coproduttore dell'album insieme a Young, NdA) - Ben, sai, qui ci starebbero bene gli archi, che ne pensi? Chiamiamo Chuck Cochran? Chiamiamo Chuck, che ha fatto gli archi per Comes A Time e (ed è questo che mi piace di Nashville) dopo due ore è arrivato. E non lo vedevamo da almeno 15 anni...".
Non che ci siano soltanto gli archi di Cochran in questo disco: c'è la passione e l'intelligenza di un cantautore che è conscio della propria importanza ma anche del proprio sentiero, ormai tracciato e non troppo lungo nella parte ancora da percorrere.
C'è una strana alternanza nel disco, con canzoni placide che si alternano spesso a brani più inquieti, come se la prateria lasciasse di tanto in tanto spazio a strade nervose e tortuose. Traccia per traccia:
"The Painter", dedicata alla figlia pittrice, è una canzone malinconica e acustica, che guarda al passato ("It's a long road/behind me") e che dispensa consigli: "If you follow every dream/you might get lost".
"No Wonder", uno dei pezzi più vivi del disco, con un coro iniziale e qualche inciso che riporta direttamente alle cavalcate con Crosby, Stills & Nash. La struttura mette insieme un andamento rock e armonie vocali che potrebbero venire dalla pancia di una chiesa.
"Falling Off The Face Of The Earth", si torna ad atmosfere più tranquille. L'uso degli archi e del falsetto è piuttosto esteso. Il ritornello morbido, la tessitura piacevole la rendono una delle canzoni del disco in cui è più facile perdersi.
"Far From Home", ritratto di famiglia con armonica a bocca. La storia è quella di un vecchio che ricorda quand'era ragazzo, i suoni sono quelli del blues del Delta, con influssi Nashville.
"It's A Dream", di nuovo ritmi lenti, con archi che volteggiano ampi. Il tono è languido, come se d'improvviso si fosse accorto di essere rimasto solo.
"Prairie Wind", continua l'alternanza fra dolcezza e inquietudine: da buon solitario, è più inquieto quando è in compagnia, come in questo caso. Qui ci sono fiati, cori femminili e chitarra, acustica sì, ma aggressiva.
"Here For You", armonica in grande spolvero e slide guitar su panorami amichevoli quanto malinconici. Anche qui si sente forte il richiamo di Comes A Time.
"This Old Guitar", si viaggia sul morbido, Neil è chiuso nei propri pensieri, da cui cercano di sottrarlo la sua chitarra, personificata nel testo, e la voce amica di Emmylou Harris. "This old guitar has caught some breaks/but it's never searched for gold".
"He Was The King", celebrazione e sottile presa in giro del fenomeno Elvis. La più casinista: niente di imperdibile, ma neanche troppo sopra le righe.
"When God Made Me", entra il pianoforte per il congedo, c'è di nuovo un coro plenario (forse è sempre stato lì, in attesa e in silenzio). È una preghiera, ma non è per nessun dio. Tutt'al più per chi pensa di aver titolo di decidere che cosa devono credere e pensare gli altri. 
Fabio Alcini


Dall'uscita di Harvest in poi, con un intervallo di 6-7 anni l'uno dall'altro, Young è solito proporre un disco “alla Harvest”. È il caso di Comes A Time (1977), Old Ways (1985), Harvest Moon (1992) e Silver & Gold (2000). Nel 2005 è il turno di Prairie Wind, ultima e molto attesa fatica del canadese. Ciò che si può affermare con certezza è che tra i dischi in stile Harvest di Neil, questo è senza dubbio il migliore. Prairie Wind ci restituisce uno Young rilassato, nei testi e nella musica, sognante e nostalgico, non più arrabbiato e depresso, capace di pubblicare un gioiellino country-folk semi-acustico, affiancato da musicisti del calibro di Ben Keith e Spooner Oldham.
Il difetto di tutti gli eredi di Harvest è stato sempre quello di non avere pezzi all'altezza di un disco che ha avuto come unico difetto una produzione approssimativa e troppo 'pop oriented'. In Prairie Wind, già dal primo ascolto, si notano brani di ottima fattura, e un suono pulito e curatissimo. Young, ormai con quattro decenni di rock alle spalle, ha raggiunto una padronanza del suono in studio veramente notevole, e l'ultimo lavoro conferma questa tendenza, peraltro già evidenziata dall'ottimo Silver & Gold, con un sound caldo, bucolico e rassicurante, lontano mille miglia dal Neil Young abrasivo e devastante degli anni '90, ma non per questo meno apprezzabile.
Un disco autunnale, dalle tinte tenui, intriso di nostalgia, intimo e autobiografico, pensato da un artista che ha finalmente raggiunto una serenità tale da poter cominciare a fare il punto sulla propria vita. Alle composizioni più tipicamente country-folk come "The Painter", "Falling Off The Face Of The Earth" (splendida), si aggiungono vere perle. La 'springsteeniana' e stupenda "No Wonder", uno dei livelli massimi di tutto il cd, sembra uscita elettrificata da "The Ghost Of Tom Joad". "Far From Home", irrobustita dai fiati, ci mostra uno Young molto 'errebi', che ai più accesi proseliti del canadese ricorderà This Note's For You. "It's A Dream" è una squisita ballata per piano e voce, arricchita dagli archi, e commovente non meno di "Birds": che pezzo!
La title-track, a metà tra soul e r'n'b, non sfigurerebbe su un disco di Van Morrison. "Here For You" sembra esser stata catturata, dopo esser fuggita da Harvest per trent'anni, con la sua armonica da brividi e una steel guitar decisamente tex mex. "This Old Guitar" è una bella ballata, dove Young cita se stesso, rubando il giro di chitarra ad "Harvest Moon". "He Was The King" è l'ennesimo omaggio di Neil ad Elvis, un country-r'n'r scanzonato, con cori e fiati soul, dove il canadese dà l'idea di divertirsi molto. "When God Made Me", un brano atipico, dal testo fortemente religioso, una ballata per voce, piano solenne e cori gospel, insolita per Young, chiude il disco, donandogli una sorta di aura magica.
Young, dopo alcuni dischi controversi e non sempre riusciti 'in toto', questa volta fa centro, pubblicando un lavoro di grande spessore, estremamente equilibrato e profondo, curato in ogni dettaglio, che spazia tra folk, country, r'n'r, rythmn & blues e soul. Prairie Wind ribadisce per l'ennesima volta che, quando si parla di 'american rock', bisogna ancora confrontarsi con il cavallo pazzo. 
Alfredo Scacchi

Mi piacerebbe essere amico di Neil Young. Vorrei poter prendere il telefono e chiamarlo qualche volta. Come di regola faccio con gli amici sparsi per il globo. ‘Ciao, come stai? Qui tutto bene’. Oppure potergli mandare una mail di tanto in tanto per sapere come se la passa l’uomo che ha inciso i dischi che ho tenuto sotto il cuscino per tanti anni. Colui il quale ha scritto le canzoni che, quindicenne, mi hanno spinto a comprare una chitarra e imparare gli accordi. Mi piacerebbe potergli dire quanto importante sia stato per me. Mi piacerebbe potergli raccontare di cose facete, di come è bella la luce lunare che illumina la mia stanza stasera, oppure dell’odore d’inverno che si respira di questi tempi, con i caminetti accesi che speziano l’aria di carbone. Ecco, non parlerei di politica, giusto per non rischiare qualche delusione. Né chiaramente toccherei l’argomento musica. Questo incipit un pelo romantico solo per sottolineare il timore reverenziale con il quale mi accosto alla nuova fatica del canadese. Dopo i capolavori immortali degli anni 60 e 70, Everybody Knows This is Nowhere, After The Gold Rush, Harvest (che, anche se è di moda dire che fa schifo, resta bellissimo), Tonight's The Night, On The Beach, Zuma, e dopo il buio degli anni 80, la sbandata reaganiana e i dischi che definire brutti è poco, gli anni 90 hanno ricollocato nella giusta posizione la sua figura. I dischi del decennio trascorso sono quelli con i quali, per questioni anagrafiche, ho scoperto la sua musica: lo splendido Sleeps With Angels, che continuo a considerare una delle sue cose più riuscite di sempre, a partire dal sound ruvido messo a disposizione di un lotto di canzoni mai così ispirate; oppure l’emozionante Unplugged (con la più bella versione che si possa anche solo immaginare di “Like a Hurricane”: un solitario che piange l’amore accarezzando i tasti di un pump-organ). Ma mi piace citare anche Mirror Ball, con i Pearl Jam a fare da backing-band, che contiene una delle canzoni-confessione più belle del nostro, quella “I’m The Ocean” che a sentirla oggi sembra dire: “guardate che io ci sono sempre, che forse non ho più l’età ma sono ancora qui a ricordarvi che quando muoio dovrete intitolarmi strade e piazze”. Naturalmente ci sono stati anche dischi molto meno belli, e la melassa di Harvest Moon o l’ennesima riproposizione del modello elettrico a’ la Young di “Big Time” non era roba facile da mandar giù. Rispetto al decennio precedente comunque niente dischi che potremmo definire di merda tout court (Trans ed Everybody Rockin’ tento da anni di rivalutarli per darmi un tono da critico ma proprio non ci riesco). Gli ultimi dischi, invero, hanno mostrato segni di cedimento che potremmo anche definire fisiologici ma che non possiamo ignorare. Anzi, proprio gli ultimi tre, l’acustico Silver & Gold, il languido Are You Passionate?, l’elettrico Greendale mi sono sembrati davvero poca cosa. Questo Prairie Wind invece, sin dai primi ascolti, sembra possa invertire questa tendenza. Partiamo dal fatto che, pur collocandosi nella saga inaugurata da Harvest, risulta non essere immediatamente codificabile ergo non è così facile dire quale ruolo recita a 'sto giro il canadese: junkie, redneck, depresso, epilettico/elettrico... Le canzoni di questo disco non tradiscono la loro provenienza nashvilliana ma sono attraversate da una fragile anima soul che arricchisce non poco la vena compositiva di Young, che viene messa a servizio della solita band di specialisti (Emmylou Harris, Ben Keith, Spooner Oldham...). Intendiamoci, non sto parlando di rivoluzioni copernicane, perché le canzoni suonano proprio come te le aspetti da Neil: più o meno i soliti accordi (anzi, in un paio di pezzi direi che la progressione degli accordi è proprio la stessa di qualche classico), e più o meno le solite tematiche (l’ennesimo omaggio a Elvis the King, per dire). Ma il modo in cui ci vengono presentate mi sorprende. Per esempio, prendiamo “No Wonder”: epica e sbilenca, sferzata da cori esagerati (più lirici che weastcoastiani), sciancata da un drumming eccessivo, e infine attraversata dalle scosse elettriche che suonano familiari e che amiamo profondamente. Ovviamente non cito “No Wonder” a casaccio ma perché è forse la cosa migliore dell’intero disco. Il livello medio si assesta comunque sulla sufficienza regalando alcuni momenti di ottimo songwriting americano e alcune intuizioni negli arrangiamenti che non ci aspettavamo: “It’s a Dream”, che galleggia leggera su archi e slide, e la title-track, nera e sporca di funky, sono gli altri momenti migliori di Prairie Wind. Colpisce inoltre il fatto che anche quando le composizioni non sono di primissimo ordine c’è qualcosa, come per esempio l’uso sghembo della sezione di fiati (“Far From Home”) o l'assenza di pudore nel gettarsi nelle braccia del Gospel (“When God Made Me”), che rende queste canzoni meritevoli di essere ascoltate. Non mancano lungaggini ed ennesime riletture autocelebrative (“This Old Guitar”, “The Painter”, la già citata “He Was The King”), ma Young con Prairie Wind registra il suo miglior disco del nuovo millennio che, tra alti e bassi, lo vede ancora protagonista di una saga che per nostra fortuna non vuole finire. La ruggine non dorme, ma quando si è ‘zincati’ come Neil allora non c’è nessun rischio. Si può cantare la stessa canzone affidandosi a delle ‘timide e modeste variazioni’ senza perdere la capacità di comunicare con spontaneità e poesia. Altro che indifeso. Inossidabile, semmai. 
Ilario Galati


Non date retta a chi vi presenta Prairie Wind come l'ennesimo rifacimento di Harvest: ogni volta che Neil Young vira verso il country o giù di lì, scattano i paragoni con l'illustre predecessore; ma l'unica cosa che li lega è il fatto che entrambi sono usciti sul mercato dopo periodi parecchio tribolati: se nel lontano 1971 era stata la schiena a dar problemi al canadese, ora è stata la volta di un ben più pericoloso aneurisma cerebrale, che è andata a sommarsi alla dolorosa perdita dell'anziano padre.
Tuttavia, nelle composizioni recenti, traspare una calma, una serenità e una saggezza che solo ora, a sessant'anni, questo vecchio leone sembra aver trovato.
Musicalmente il disco (registrato a Nashville) si presenta molto vario, pur restando in ambito acustico, e composizioni tranquille si alternano ad altre più mosse, qua e là innervate da fiati, archi e cori gospel. La base ritmica è fornita da Rick Rosas, Chad Cromwell e Karl T. Rimmel, e sono della partita, fra gli altri, anche i vecchi amici "Spooner" Oldham all'organo e Ben Keith alla steel (che del disco è anche co-produttore)
I testi sono improntati alla riscoperta delle cose del passato, dei ricordi, e del natìo Canada; lo si può definire un concept album, anche se non in senso stretto come fu per Greendale. Ogni canzone è Neil Young al 100%.
Si inizia con “The Painter”, dedicata alla figlia, ottima ballata acustica che dell'album è anche il singolo. E già qui il vecchio bisonte dell'Ontario lascia il segno, con la frase "se tu segui ogni sogno, potresti perderti". Le armonie vocali riportano alla stagione d'oro di CSNY.
”No Wonder” è il picco del disco: ci sono alcuni accenni a canzoni del passato (questa è una costante di Prairie Wind), ma il crescendo emozionale raggiunge alte vette, in special modo all'ingresso del violino: un grande brano. Canzone importante, con riferimenti all'11 settembre. Ottimi i cori in puro stile West Coast.
In “Falling Off The Face Of The Earth”, Young passa con la voce da toni bassissimi a toni altissimi, sempre rimanendo in tono confidenziale, ed è una sorta di ringraziamento ai fans per essergli stati vicini nei momenti difficili.
Si prosegue con “Far From Home”, bel country rock con gli inserti fiatistici di Wayne Jackson dei Memphis Horns.
”It's A Dream” è, come dice la canzone, un sogno. Neil al piano, e poco alla volta entrano gli archi e vorresti che la magìa non finisse mai.
”Prairie Wind” (la canzone) avrebbe probabilmente giovato di un minutaggio più breve, ma ascoltata in macchina durante una tempesta di neve o in una notte nebbiosa, trova la sua giusta collocazione, e il ritmo ossessivo imposto dai fiati e dai cori ("il vento della prateria soffia attraverso la mia testa…") ipnotizza e trasporta in un'altra dimensione. Ai cori anche la moglie Pegi.
”Here For You” è, in questa raccolta di nuove canzoni, quella dalla struttura melodica più esile, mentre nella successiva “This Old Guitar”, Young, insieme a Emmylou Harris, ci presenta la sua chitarra (una delle sue chitarre…) appartenuta a Hank Williams.
Sull'onda dei ricordi è anche il rock sporcato dai fiati di “He Was The King”, dedicata con devozione a Presley (chi si ricorda "il Re se ne è andato, ma non è stato dimenticato"…?).
Con “When God Made Me” ci viene regalata una toccante “Imagine Part 2”, a dimostrare che a venticinque anni dalla morte di Lennon le cose non sono cambiate. Sostenuto dal coro gospel Jubilee Singers della Fisk University, mette da parte la serenità che ha contraddistinto le canzoni precedenti e tira fuori la rabbia dell'uomo che si accorge che il mondo va a rotoli, fagocitato dall'ipocrisia e dalle menzogne dei potenti, laici o religiosi che siano.
Nell'edizione contenente anche il DVD, possiamo vedere all'opera tutti i musicisti coinvolti nelle sessions, mentre nei primi mesi del 2006 verrà edito Heart Of Gold, film concerto girato al celebre Ryman Auditorium da Jonathan Demme.
Per concludere: un ottimo disco, un'occasione per far rifiatare il Cavallo Pazzo, e l'ultima (pare… speriamo…) tappa d'avvicinamento ai tanto sospirati Archivi. 
Luca Vitali


Con l'uscita di Prairie Wind Neil Young completa una trilogia che ha avuto inizio nel 1972, con l'album Harvest.
 Neil Young fa parte di quella ristretta cerchia di artisti a cui non esauriscono mai le fonti d'ispirazione. Nonostante il trascorrere del tempo e qualche problema di salute, ancora una volta l’artista regala ai fan un album di inediti che si presenta da subito come un piccolo gioiello acustico. È sufficiente ascoltare per qualche secondo la dolcezza della chitarra per capire che l’album è stato registrato interamente a Nashville. Salutato dalla critica come uno dei capolavori del musicista, Prairie Wind completa una trilogia iniziata nel 1972 con Harvest, proseguita venti anni dopo con Harvest Moon. In questo nuovo viaggio Neil Young è accompagnato dal tastierista Spooner Oldham, il chitarrista Ben Keith, il batterista Chad Cromwell, il percussionista Karl Himmel, il bassista Rick Rosas e la cantante Emmylou Harris, insieme ai Fisk Univerity Jubilee Singers. Prairie Wind, album composto da dieci tracce, si apre con il brano “The Painter”, in cui l’artista è affiancato dalla pedal steel guitar. Poi è la volta di “No Wonder”, un pezzo trascinante e dal refrain accattivante, in cui l’artista dimostra di non aver perduto il suo incomparabile senso della melodia. Si ricade nella tensione con “Falling Off The Face Of The Earth”, una canzone arricchita da un'ottima performance vocale. Se la traccia successiva, “Far From Home”, è più country, “It's A Dream” si distacca dal resto dell’album per il ritorno di Neil al piano. In “Here For You”, per chiudere, protagoniste assolute sono l’armonica e la pedal steel.
Maurizio Amore, Videomusica


Non devo certo stare a spiegarvi Neil Young! Sarebbe come stare a spiegare il vento della prateria (per l'appunto). La vicenda che sta alle spalle è quella di un disco registrato poco dopo la morte dell'amato padre (famoso giornalista sportivo che, dice Neil, gli ha insegnato a scrivere) e a cavallo di un'operazione per aneurisma cerebrale. Mica noccioline! Anziché rifugiarsi nel terrore e nella depressione o nell'isolamento, il bravo Neil ha impugnato penna e chitarra ed ha scritto un bellissimo disco, denso e intenso, in cui saluta tutte le cose che gli sono rimaste nel cuore: dal cielo del Canada, ai suoi affetti, a Elvis Presley. Ne esce una sorta di Harverst, morbido, carezzevole, tutto velluto, chitarre acustiche, slide e armonica. Un piacere assoluto! E se qualcuno vi dicesse "il solito Young", invitatelo per favore a sentire quante volte, anche solo negli ultimi anni ha cambiato pelle. Un disco che è un vero piacere.
Bielle


I dietrologi sostengono che Neil Young abbia ormai preso l’abitudine di incidere un album tecnicamente perfetto più o meno periodicamente ogni 7 anni. In effetti gli elementi di continuità fra Harvest, Comes A Time, Old Ways, Harvest Moon e Silver & Gold sono più d’uno. Soltanto cinque anni separano l’ultimo della lista dal nuovo Prairie Wind, ma la teoria della continuità non sembra cadere: anche ora Ben Keith, oltre a far gemere la propria steel guitar, co-produce insieme a Young, anche ora l’organo è di competenza di Spooner Oldham, anche qui l’atmosfera è malinconica e introspettiva come nei suoi predecessori, ancora una volta uscirà una pellicola celebrativa, si dice a febbraio, girata dal celeberrimo Johnatan Demme (Philadelphia, Il silenzio degli innocenti). Prairie Wind presenta comunque alcune novità, innanzitutto negli arrangiamenti, vista l’inusuale adozione di una sezione di fiati e di un intero coro gospel, ma anche nelle canzoni, soprattutto in “No Wonder”, ennesima riflessione sugli eventi dell’11 settembre ma unico pezzo di questo album in cui possiamo sentire una chitarra elettrica ruggire, anche se in secondo piano. Tra le composizioni pacate e innocue che escono in prevalenza dalla penna di Young spiccano i momenti più oscuri e meno agresti come la title-tack o la già citata “No Wonder”, quelli più spensierati e movimentati come “Far From Home”, particolare per il dialogo tra armonica e fiati, e uno spiritual in piena regola come “When God Made Me”. Come in Harvest e Harvest Moon, anche in Prairie Wind la scaletta presenta una ballata d’amore dove sono gli archi a prevalere, in questo caso “It’s A Dream”. Non è stato finora un anno facile per Neil, che ha dovuto affrontare un’aneurisma cerebrale in primavera e la morte del padre a giugno, e questo disco non aggiunge nulla di nuovo alla sua quasi quarantennale carriera, che manca di un vero capolavoro da Sleeps With Angels, cioè dal ’94. Più che altro ci ricorda che stiamo parlando di un uomo con alle spalle una carriera sfibrante e tortuosa, alla soglia dei sessanta, da cui non possiamo più, e forse non dobbiamo, attenderci assoli epilettici o lunghe fughe elettriche, ma il cui elettroencefalogramma si presenta tutt’altro che piatto al confronto di quello di altri suoi coetanei.
Michele Sarda, Kalporz


La famiglia, la casa, la campagna, la prateria. Il perimetro delle nuove canzoni di Neil Young si presenta tanto vasto quanto profonde e solide sono le sue radici nella musica popolare americana. Prairie Wind dà l'idea di volerne abbracciare l'intera esistenza, di volerla comprendere in un solo ampio sguardo. Per cogliervi le figure e i colori così come la pittrice alla quale è intitolata la prima canzone della raccolta sa catturare quelli delle sue tele dall'aria e dalla notte. Nell'aria sono sospesi i ricordi e gli affetti più cari - il brano eponimo è dedicato alla memoria del padre scomparso e “Here For You” è per la figlia -, alla notte invece appartengono i sogni che, come quello di “It's A Dream”, non svaniscono con la luce del giorno, i sogni che per andarsene hanno bisogno di tutta la premura di qualcuno che ci ama. Maestro in quel gioco di prestigio che può trasformare debolezza e vulnerabilità in sentimenti di straordinaria forza e vigore, Young torna a vestire i panni già indossati per After The Gold Rush, Harvest, Comes A Time e Harvest Moon. E non c'è proprio verso che quegli abiti odorino di naftalina, perché la stoffa in cui sono cuciti può impregnarsi soltanto di sincerità e di poesia - “Falling Off The Face Of The Earth”, “This Old Guitar” -, di suoni schietti e ruspanti - “Far From Home”, “He Was The King” - e di melodie languide e struggenti come il primo bacio posato sulle labbra della persona che si ama. Sarà certamente un inverno un po' meno rigido quello che potremo affrontare con queste canzoni a portata di mano.
Elio Bussolino, Kataweb


Dopo il concept album elettrico Greendale, non perfettamente riuscito, Young è tornato alla sua anima folk e acusticheggiante. Prairie Wind è un grande disco che brilla di luce propria. Certo, fa parte del filone "delicato" di Young, che torna a giocare con la melodia e le chitarre acustiche. Ma si presenta con grandi canzoni e con idee più variegate, permettendosi arrangiamenti che prevedono archi ma anche fiati e chitarre elettriche. Prairie Wind è un disco dall'impianto cantautorale ma dalle aperture inaspettate. Il succo è che Prairie Wind ha un bel suono, ricco come mai nei dischi cantautorali di Young, pur conservando una forte identità in questo senso. Insomma, un gran bel disco da un musicista che è certamente tra i più grandi ma che ci ha abituato a molti alti e bassi nella sua carriera. Ora è nella fase "alta" e speriamo che continui così. Dieci ballate da ascoltare prima degli altri: “Painter”, “No Wonder”, “Falling Off the Face of the Earth”, “Far From Home”, “It's A Dream”, “Prairie Wind”, “Here For You”, “This Old Guitar”, “He Was the King”, “When God Made Me”.
Andrea Cesaretti

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