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Prairie Wind - Rassegna Stampa pt.1


Neil Young «dipinge» suoni (e parla anche di Dio)
Il valore aggiunto di Neil Young cantautore sta nella incredibile varietà di suoni proposti, nella raffinatezza delle atmosfere, influenzate in questo album dalla rimpatriata a Nashville, patria storica del country. Per “The Painter”, che apre il disco, l'ispirazione arriva dalla figlia che fa per l'appunto la pittrice. In un' atmosfera struggente corale canta: «Se segui ogni sogno ti puoi perdere». E il sogno sembra accomunare testi, melodie e atmosfere con un gusto pittorico che si manifesta anche in “No wonder” ove ricorre l'immagine di una chiesa e la descrizione delle strane onde che il vento crea sulla prateria. Insieme il senso del tempo che passa inesorabile, spettatore obiettivo non solo della bellezza ma anche delle nefandezze dei politici in nome di denaro e potere. Toccante “When God Made Me”, coro e piano per una delle rare canzoni di Young che parla di Dio.
Mario Luzzatto, Corriere della Sera


Neil Young a cavallo dei ricordi
Il vento della prateria ha soffiato su Neil Young, mentre gli occhi azzurri sotto il cappellaccio da cowboy scrutavano chissà quali distese al di là dello steccato della sua enorme tenuta lontana da tutto e da tutti. Ha soffiato grande ispirazione, tanto che questo Prairie Wind (vento di prateria, appunto), che esce domani in America, venerdì in Italia e che abbiamo ascoltato per esteso sul suo sito internet, è uno dei migliori dischi del cantautore canadese dai tempi di Harvest Moon. Stava per registrare la prima traccia a Nashville “The painter” (dove era nato anche il suo capolavoro Harvest nel 1972), che il medico gli ha diagnosticato un aneurisma cerebrale. Ha registrato otto canzoni, poi si è fatto ricoverare a New York. Le altre due lo aspettavano all’uscita dall’ospedale, solo un po’ di preoccupazione per uno che è abituato a dialogare con il dolore, suo e della sua famiglia. Il disco della prateria parla di radici, in tutti i sensi: geografiche (le grandi distese canadesi, le vecchie chiese sulla collina), di sangue (la figura del padre da poco scomparso), di ispirazione (un pezzo è dedicato a Hank Williams, un altro all’icona Elvis Presley). Armoniche, un coro di voci a fargli da controcanto, una chitarra appartenuta ad Hank Williams e una slide che ricorda il Neil Young a cui tutti sono affezionati. Ma anche una sezione di fiati discreta. E poi una manciata di canzoni uscite di getto, in 15/20 minuti, giura Young. E non è difficile credergli quando in “No wonder” disegna una sorta di istantanea di un qualsiasi giorno americano vista dai suoi occhi, mentre un orologio da muro segna il tempo, un soldato perde la vita e alla radio suona una canzone del suo amico Willie Nelson. Famiglia, fede, natura, musica, radici e praterie: sembrerebbe il quadro perfetto di un conservatore statunitense, e in parte lo è. Le canzoni di Prairie Wind non sono un concept alla stregua del precedente Greendale anche se il filo conduttore potrebbe essere il trascorrere del tempo, tempo che lo fa anche mettere in relazione con Dio (in “When God Made Me” si pone una serie di domande amare: «quando Dio mi ha fatto era proprio sicuro che l’unica strada fosse quella di essere a sua immagine e somiglianza?»). Ma allo stesso tempo Prairie Wind non è il disco di un uomo che si avvicina alla vecchiaia e avendo toccato pericolosamente da vicino la morte, vuole cullarsi nel ricordo: il pezzo che apre il disco “The painter” (il più vicino per delicatezza acustica e umore alle migliori cose del quartetto-meraviglia con Crosby Stills e Nash), apre al futuro: «Ho una lunga strada davanti a me» canta Young. Tanti però i ricordi di infanzia, come nella title track “Prairie wind”: «Cercavo di ricordare cosa mi disse mio padre prima che il tempo offuscasse la sua mente ­ canta - Mi disse torneremo e ti mostrerò Cypress River, la vecchia fattoria». Quella del padre morto a giugno, poco dopo la fine delle registrazioni e dopo una brutta malattia che lo aveva portato alla demenza. E poi un padre acquisito, quell’Hank Williams che ha fatto la storia del folk americano e di cui Young prende il testimone acquistando la sua chitarra e dedicandogli una canzone. In “This old guitar”, Young canta la storia di una chitarra che assurge a simbolo dell’America del rock, del folk, del country, e che, come tale, deve passare di mano in mano per traghettare il suo spirito, il senso più puro della musica: «Questa vecchia chitarra non rimarrà mia / ora me ne sto solo prendendo cura / È in giro da anni / ... E più la suono meglio suona/ piange quando la lascio sola / mi aspetta in silenzio / Questa vecchia chitarra è stata messaggera in tempi duri / tempi di speranze e paure…». Yong ha già cantato una manciata di queste nuove canzoni: lui e tutta la numerosa banda di Prairie Wind (il cuore pulsante è lo stesso di Harvest Moon con l’eterno collaboratore-chitarrista Ben Keith e il tastierista Spooner Oldham, ma anche una sezione d’archi, un coro gospel, una sezione di fiati e come vocalist sua moglie e Hemmylou Harris), si sono ritrovati questa estate sul palco del Ryman auditorium di Nashville, per lungo tempo la residenza del Grand Ole Opry. Motivo le riprese di un film documentario su di lui girato dall’amico Jonathan Demme (Il silenzio degli innocenti, Philadelphia, e, in musica, Stop making sense dei Talking Heads nel 1984). Un film che si va ad affiancare a quello sulla vita di Dylan girato da Scorsese: «Recentemente il mio caro amico Dylan mi ha regalato un bellissimo cofanetto di dischi di gospel tradizionale - ha raccontato Young - Sono rimasto esterrefatto: la nostra musica americana ha una storia meravigliosa, spero solo di continuare questa storia». 
Silvia Boschero, L'Unità


Oh, sì, l'ha fatto di nuovo! Neil Young ci ha consegnato il disco che tutti desideravano da lui da molti anni in qua, ma che in molti pensavano il Grande Canadese non sarebbe stato più in grado di sfornare. Proprio così: Prairie Wind è un capolavoro e s'infila direttamente nella Top 5 dei migliori album di Young di sempre. Parole pesanti se spese per uno che da 40 anni ci ha abituati a una produzione copiosa e ricca di pietre miliari. Classificabile a grandi linee nella stessa "vena acustica" di album come Harvest, Comes A Time, Old Ways, Harvest Moon e Silver & Gold (ricordate la regola del "disco perfetto ogni 7 anni"?), Prairie Wind contiene elementi che rimandano un po' a tutti, eppure non somiglia a nessuno di questi lavori. Azzarderei addirittura che, per la qualità delle canzoni contenute, per la cura degli arrangiamenti, per la pregnanza dei testi e per la "varietà" di atmosfere, Prairie Wind potrebbe essere addirittura il suo lavoro più "completo" e maturo in questa vena. Dei problemi di salute avuti recentemente (un pericoloso aneurisma cerebrale rimosso con un delicato intervento la scorsa promavera) non traspare traccia (benchè l'album sia stato concepito e inciso proprio a cavallo dell'intervento) se non in una serena malinconia dei testi, ricchi di immagini, di memorie dal passato e di considerazioni sul "sogno che sta sbiadendo" a rincorrersi proprio come se agitate dal vento della prateria. Young ha realizzato un lavoro fortemente radicato nella sua tradizione (qua e là emergono evidenti autocitazioni che ogni appassionato younghiano avrà la gioia di scoprire da sé) ma anche in quella della musica americana "tout court": registrato a Nashville, l'album risente di una leggera speziatura country mai patinata o eccessiva, ma si dipana lungo i più scintillanti binari di un roots rock intenso e sincero. In questo senso appare subito come l'album più "roots" mai inciso da Young, che non lesina a tal scopo l'impiego di pedal steel (il fedelissimo Ben Keith), sezione fiati, e perfino di un coro gospel. Tutto è funzionale al confezionamento di dieci canzoni che rappresentano indubbiamente la sua più felice "collection of new songs" dai tempi di Harvest Moon e forse ancora prima.  Per forma e contenuti Prairie Wind rispecchia l'età e la statura artistica del suo autore, eppure suona insindacabilmente come una vera e propria "prova di forza" e di lucidità. In mezzo a canzoni abbastanza "canoniche" per gli standard younghiani recenti (“The Painter”, che pare una dedica a Joni Mitchell; “This Old Guitar”, ispirata dalla chitarra appartenuta ad Hank Williams e cantata "cuore a cuore" con Emmylou Harris; “Here For You”, archetipo di quello che potrebbe essere un vero hit single di successo, se solo fossero altri tempi) il canadese infila con piglio sicuro una manciata di gioielli su cui svettano “No Wonder”, un brano che per passo epico, intensità, complessità armonica e melodica, struttura, testo e arrangiamento, potrebbe provenire dal "periodo d'oro" (e non ancora completamente sviscerato, aspettando gli Archivi) del biennio '74/'75, e la tenue ballata pianistico/orchestrale "spaccacuore" “It's A Dream”.
Ma in Prairie Wind c'è anche lo Young intimo/confidenziale che osa dispiegare tutto il suo inconfondibile e incerto registro vocale (bassissimo/altissimo) per la toccante “Falling Off The Face Of The Earth” dedicata al padre da poco scomparso, e perfino un Neil "inedito" che ci fa viaggiare in un'incalzante cavalcata nelle Praterie (la title track, appunto) degna del miglior Bruce Cockburn (l'altro Grande Canadese), o ci trascina nel divertissement "Memphis-sound" (quasi Mellencamp) di “He Was The King”, una delle più gustose e divertenti canzoni mai dedicate ad Elvis (questa volta non il suo cane, ma il vero Re del R&R!). In coda, aggiunta quasi come postilla, c'è quella che potrebbe in futuro essere ricordata come la sua Imagine o, se preferite, la sua Let It Be, data la vaga reminiscenza nel fraseggio pianistico: “When God Made Me” è una ballata dal sapore gospel eseguita con l'accompagnamento di pianoforte, organo Hammond (un altro grande: Spooner Oldham) e un coro di voci nere destinata a diventare un vero e proprio classico, con quella melodia dalla semplicità quasi puerile trasfigurata in una grande canzone sul dubbio e sulla fede da un testo memorabile (specie in questi tempi di guerre nel nome di Dio). Alla soglia dei 60 anni, Neil Young ci ha consegnato uno dei suoi migliori album di sempre. Long may you run, Neil. 
Marco Grompi, Buscadero


Ogni qual volta Young si reca a incidere a Nashville, il risultato è assicurato. “Come mi ha detto una volta Ben Keith (co-produttore dell’album, virtuoso della pedal-steel, e da 30 anni al fianco di Young nelle sue scorribande nashvilliane, NdA)”, ha raccontato Young in una recente, lunga intervista radiofonica, “quando vieni qui a registrare, ci trovi tutti e ha sempre funzionato bene anche in passato. Non avevo canzoni pronte, anzi solo una, “The Painter”, e un pezzo della melodia di “No wonder”. Alla fine mi sono detto, vado a New York per presentare Chrissie Hynde alla Rock & Roll Hall Of Fame a marzo e l’idea era quella di fermarsi a Nashville lungo la strada di ritorno. Magari facciamo qualche registrazione, vedremo cosa succede. Sai, qui ci sono tutti, i miei amici sono tutti qui, per cui era facile raggruppare di nuovo tutti i vecchi amici, o per lo meno quelli che sono rimasti”.
Almeno queste erano le buone intenzioni del vecchio Neil, “reduce” da oltre 40 anni di Rock & Roll vissuti alquanto pericolosamente, ma soprattutto reduce da un paio di album che avevano fatto discutere. Nel 2002 aveva dato alle stampe Are You Passionate?, lavoro ambiguo, scostante, affettato, registrato con Booker T. & the MG’s (forse un debito col passato da saldare: ricordate la bella tournée del 1993, mai documentata ufficialmente?), che seppure impreziosito da alcuni moment davvero pregevoli (la title track, l’atipica “She’s a healer”, la ballata “Two old friends”, la furiosa cavalcata coi Crazy Horse di “Goin’ home”), risultava alla fine annacquato da una manciata di canzoni (troppe) che si sono fatte dimenticare in fretta. Poi è arrivata la mastodontica operazione Greendale (disco, film, libro, sito web, tour acustico e rappresentazione teatrale elettrica), un lavoro multimediatico talmente ambizioso e complesso che sarà rivalutato come merita tra almeno dieci anni, ma del quale proprio l’album, paradossalmente, era forse l’anello più debole dell’intero canovaccio: basta ascoltare uno dei concerti di quella tournée (e mi riferisco sia a quella acustica, sia a quella elettrica e “teatrale” coi Crazy Horse) per capire che quelle canzoni (anzi: quelle storie in musica) dovevano solo essere un po’ più “approfondite” e “praticate” prima di esser messe su disco per rendere al meglio.
Eppure il Neil Young degli ultimi anni ha scelto deliberatamente questo metodo di lavoro: scrive un pezzo la sera prima e lo incide il mattino successivo. Niente ripensamenti o ritocchi. Instant art.
E la cosiddetta “malattia avanzata”, un tema ricorrente nella poetica e nella vita di Young, questa volta ha pure avuto un nome terribile: aneurisma cerebrale. “Ho cominciato a scrivere queste canzoni sapendo che avevo un qualche problema. L’avevo scoperto appena prima di cominciare e avevo avuto dei sintomi di qualcosa che mi aveva incuriosito su quanto stava accadendo. Per cui ho dovuto sottopormi a diverse analisi e questo dottore che mi ha avuto in cura è stato molto diligente a portarmi da cinque diversi specialisti in sole quattro ore. Voglio dire, mi ha portato in giro per New York da questi dottori, e questi erano proprio dei dottoroni, davvero dei bravi specialisti. Andammo dal capo di questo dipartimento, dal capo di quest’altro dipartimento e tutto accadde molto rapidamente. Poi mi fecero una TAC e videro questa cosa, lo scovarono. Per cui presi subito un appuntamento dal tipo che fa questo tipo di interventi. Poi andai a Nashville e sapevo che sarei dovuto tornare a New York dopo quattro o cinque giorni per vedere questo dottore e discutere su quando fare l’intervento. Per cui, semplicemente, tornai a Nashville e cominiciai a fare ciò che stavo facendo prima”.
Una situazione che avrebbe potuto instillare un senso di precarietà a queste incisioni, si tramuta invece in parole e musica che trasudano una grande serenità interiore. Questa è la sensazione che pervade tutto Prairie Wind. “L’abbiamo registrato tutti insieme”, racconta Young. “Ho scelto i musicisti che erano in grado di farlo. Tutti quelli che suonano con me sanno che si fa così. Non siamo lì per nessun altro motivo se non per lasciare un segno, per fare tutto ciò che possiamo fare al fine di dar vita alla canzone. Siamo tutti come fratelli e sorelle e abbiamo tutti la stessa famiglia. Andiamo tutti nella stessa direzione. Per cui non devo pensarci sopra poi tanto. Li guido. Ma loro ce la fanno con facilità. Abbiamo fatto un DVD che esce assieme al disco. La versione deluxe che puoi comprare assieme al disco è davvero molto più soddisfacente perché puoi “guardare” tutto il disco. Vedi ogni singola nota come è stata suonata, vedi tutto esattamente come è accaduto, come una specie di multischermo, in modo che vedi ciò che sta suonando ogni singolo musicista. È un documentario che mostra come sono stati fatti gli arrangiamenti. Non ci sono state sovraincisioni o playback, niente di tutto ciò. Penso che il mondo ne abbia già viste fin troppe di cose del genere. Per cui è “the real thing”, è ci sono cinque telecamere ad alta definizione accese nello studio dal momento in cui io entro fino al momento in cui finiamo una registrazione”.
Neil ormai ossessionato dal voler documentare tutto ciò che fa. Neil al servizio della propria arte. Neil il sognatore. “The Painter”, il brano che apre l’album, e che sembra dedicato all’amica di gioventù (e “compagna di praterie”) Joni Mitchell, Neil canta: “Se segui tutti i tuoi sogni, ti potresti perdere”. Viene da chiedersi: sarà sempre stato davvero così anche per lui? “Oh, sì, sempre. Penso di perdermi ogni volta. E penso sia uno dei miei tratti distintivi. Neil ci confonde ancora. E così veniamo a sapere che “la pittrice” non è “sweet Joni”, ma Amber Jean, la figlia ultimogenita di casa Young ormai 21enne.
Il metodo di lavoro younghiano è ben riassunto dal racconto su come è stata realizzata una delle composizioni più toccanti di Prairie Wind: “Ho scritto “It’s a dream”, e sono andato in studio la mattina seguente e l’abbiamo registrata. Poi ho detto a Ben Keith: questa potrebbe essere adatta per degli archi, cosa ne dici? E lui ha detto: sì, lo penso anch’io, chiamiamo Chuck. È questa la cosa che più adoro di Nashville. Così abbiamo chiamato il nostro amico Chuck Cochran, che già aveva curato gli archi per Comes A Time. Dopo un paio d’ore lui arriva e non lo vedevamo da almeno 15 anni… Come ti va? Ascolta qua, cosa ne pensi? Fammene una copia su cd da portare a casa. Quando vuoi farla? Cosa ne dici di domani mattina? OK, metto assieme i musicisti e ti faccio sapere se possiamo farcela. Così un’ora dopo mi disse che avevamo cinque Stradivari e sette altri musicisti disponibili e che sarebbero arrivati tutti la mattina successiva alle 11 e l’avremmo fatta. La mattina dopo Chuck arriva con gli spartiti, li mette giù e io stavo prendendo questo farmaco in preparazione all’intervento e tutto il resto. Mi sentivo come un po’ appannato, stavo bene, ma un po’ malfermo, come se stessi cercando di mantenermi in equilibrio. Ero lì disteso sul divano dello studio, e ascoltavo il playback, e quando hanno cominciato a metterci gli archi mi sono detto: oddio, che bella cosa ha saputo creare questa gente”.
Una delle vette assolute di quest’album è indubbiamente “No wonder”, una canzone che contiene un verso memorabile in cui si fa riferimento a Willie Nelson e a “sterminate distese di campi di carburante”. Il riferimento (altrimenti incomprensibile) è al bio-diesel, un nuovo carburante ecologico di cui Young si è fatto testimonial da diversi mesi: “Sta veramente funzionando bene. Circa un anno fa ho chiamato Willie e gli ho detto: potremmo aiutare l’associazione benefica Farm Aid che provvede ad aiutare le famiglie povere delle campagne americane con il bio-diesel, un carburante che gli stessi agricoltori possono produrre. Gli dissi: non credi che dovremmo farlo? E lui mi ha risposto: certo, facciamolo! Così abbiamo cominciato dalla costa ovest fino a Seattle. Tutti i nostri camion la usano. E sono gli stessi agricoltori che ci portano le cisterne. Facciamo il pieno ai camion e con quel carburante attiviamo anche i generatori e tutte le luci e l’impianto sonoro per i concerti. E tutto con un olio vegetale. Rudolph Diesel, l’inventore del motore diesel, in origine usava l’olio di noccioline… capisci? Il diesel all’inizio non era fatto col petrolio. Non arrivava dall’Arabia Saudita. Questa è la sua vera origine (…) Dovremmo appoggiarci a questo: basterebbe fare così poco per adeguare le infrastrutture di questo paese in modo che gli agricoltori possano provvedere a fornire una grossa percentuale delle nostre esigenze di carburante”.
Young sarà anche considerato dai più un vecchio hippie sognatore, ma questo è puro pragmatismo. Come pure pragmatico è lo spirito che da vent’anni lo vede tra le forze propulsive principali (assieme a Willie Nelson, John Mellencamp e, recentemente, Dave Matthews) di Farm Aid: “Ciò che possiamo fare è continuare a fare ciò che facciamo, ovvero supportare le famiglie degli agricoltori e continuare a parlare di ciò che può essere fatto. Ci sono altre alternative possibili, ci sono altre piante che si possono far crescere e che possono essere trasformate in combustibili. È un modo molto pulito di agire. Le alternative a ciò sono spaventose. Il futuro è enorme: le risorse si stanno assottigliando. Quando Bush lascerà l’incarico il petrolio potrebbe costare cinque o addirittura dieci dollari al gallone. Chi sa come sarà quando arriverà il prossimo presidente? Ignorare il problema non è una risposta (…) Questo non è un problema da cui si può scappare. Bisogna inventarsi un proprio modo per uscirne, e questo è l’unico punto di una campagna elettorale che varrebbe la pena ricordare. Tutte le altre cose che si dicono in campagna elettorale sono solo entertainment”.
A poche settimane dalla fine delle registrazioni dell’album, Neil ha perso l’anziano padre 87enne. Scott Young, noto scrittore e giornalista (tra l’altro autore, nell’ormai lontano 1984, della prima attendibile biografia younghiana “Neil and Me”). Immagini dell’infanzia di Young e affettuosi ricordi del padre (che negli ultimi anni di vita era affetto da demenza senile) affiorano qua e là in diverse canzoni dell’album: “Mio padre scriveva sempre. Mi diceva: anche se non sai scrivere, devi sederti e farlo comunque. E scrivi qualunque cosa ti venga da scrivere. Qualsiasi cosa, non te ne devi preoccupare, scrivi e basta. Ci sono dei giorni in cui pensi di non avere nulla in testa, e invece ti sorprenderà scoprire proprio il contrario. Non pensarci, non giudicare, non te ne preoccupare. Fallo e basta”. Forse se non fosse per questo consiglio paterno, Young non sarebbe mai stato uno degli autori più prolifici e longevi della storia del Rock. Non bastassero i quasi quaranta album a suo nome (più quelli con i Buffalo Springfield e con Crosby, Stills & Nash), nei suoi famigerati archivi giace una tale quantità di materiale inedito da far impallidire ogni “executive” discografico si sia avvicinato a Young negli ultimi vent’anni. Proprio “gli Archivi” devono aver avuto un peso fondamentale nel rinnovo contrattuale che Young (e il suo manager da sempre Elliot Roberts) ha sottoscritto con la Reprise. Ora pare proprio che il primo “volume” di otto cd vedrà davvero la luce nel 2006: “Nel complesso saranno quattro o cinque volumi. Il primo è un cofanetto di otto dischi che vanno dal 1963 al 1973. Ci sono anche filmati di concerti. Ci sono le mie prime registrazioni, edite e inedite dal 1963 in poi. Ci sono una serie di performance dal vivo e forse queste potrebbero essere vendute separatamente, ma ci sarà un posto riservato a loro nel box e si potranno alloggiare lì. Uscirà sia in CD che in DVD, ma io raccomando il DVD perché ha un suono assai migliore e, ovviamente, conterrà anche le immagini. Ci sarà come una sorta di schedario nel quale si potrà trovare tutta la documentazione esistente: i testi originali e tutto il resto. È una specie di museo. Un museo virtuale, con un sistema a schedario. Sarà un po’ come trovare una porta e buttarsi dentro. Trovi una canzone, la senti, leggi tutto su di lei. Puoi anche leggere i ritagli di giornale dell’epoca, le recensioni, i manoscritti originali, vedere le foto… tutto. E poi ci sono i filmati dell’epoca, il tutto ordinato cronologicamente. È tutto in ordine, e ci puoi trovare davvero tutto quello che vuoi. Si scopriranno canzoni registrate in epoche diverse che poi sono state ripubblicate su album diversi anni dopo. Insomma ci sarà un nuovo punto di vista su come sono andate le cose. Darà un quadro completo e cronologico di quanto è accaduto, invece di seguire l’ordine dei dischi che ho realizzato. Ovviamente anche film come Human Highway o Muddy Track ne faranno parte”.
Roba da mandare in tilt ogni fan younghiano che si rispetti. Tra le altre cose, si dà per certo che gli “Archivi” contengano alcune performance “perdute” di grande valore, tra cui un concerto acustico del giovanissimo Young al Riverboat di Toronto datato 1968, un concerto acustico alla Massey Hall di Toronto del 1970 (con l’esecuione sul palco di materiale di Harvest quasi due anni prima della sua pubblicazione) e una scintillante (e multi-bootlegata) performance con i Crazy Horse di Danny Whitten al Fillmore East del 1970 che, come dice Young, “contiene una “Cowgirl in the sand” di sedici minuti e un’interminabile “Down by the river”.”
Tutta roba che fa salivare i fan più o meno accaniti. Perfino quella che Young giudica in assoluto la sua performance più intensa e riuscita della sua carriera vedrà finalmente la luce. Si tratta di un concerto al Rainbow Theater di Londra del 1973 che è la rappresentazione integrale sul palco di Tonight's The Night: “è perfino meglio del disco”, dice Young, e basta ascoltare uno dei bootleg (di pessima qualità sonora) di quel tour per capire che potrebbe davvero aver ragione.
Ma Young non è solo un maniacale collezionsta delle proprie performance artistiche. Fanno parte della sua collezione anche un’imprecisata quantità di auto d’epoca (più di una ventina, a sentire chi ha visitato il ranch) delle quali ora sembrerebbe sbarazzarsi attraverso una bizzarra vendita ondine anticipata dall’istituzione di una sezione di prossima apertura all’interno del suo sito internet denominata “Shakey’s Used Cars”. Poi ci sono i trenini elettrici (un intero edificio sulla proprietà del Broken Arrow Ranch è dedicato ai trenini) e le chitarre. Oltre all’intoccabile e spesso maltrattata “Old Black” (la Gibson Les Paul nera a cui ha accesso solo il fido tecnico Larry Cragg), la sua preferita sembra oggi essere “Hank”, una vecchia Martin degli anni ’30 appartenuta al leggendario Hank Williams e, nel corso degli anni, ispiratrice di canzoni come “From Hank to Hendrix”, “Harvest Moon” e, oggi, “This old guitar”. “Un amico, Grant Boatwright,” racconta Young, “mi ha messo in contatto con questo tipo, Tut Taylor, che aveva una collezione di vecchie chitarre. Sono andato da lui e Hank era lì. L’ha tirata fuori dal retrobottega e l’ho comprata. Non potevo credere che potevo davvero acquistarla. Ma era così. E ora ce l’ho io. Ce l’ho da un po’ di tempo e me ne prendo cura (…) Sai, per un periodo Bob Dylan ha usato il mio bus. All’epoca non aveva ancora il suo tour bus personale. Stava cominciando a interessarsi ai bus, così gli ho lasciato usare il mio per un po’. Gli dissi che nel retro c’era anche Hank e che se avesse voluto usarla, Hank era lì per lui. Per cui non so esattamente cosa ci abbia fatto, ma l’ha tenuta con sé per lungo tempo. Non so cosa ci ha scritto o cosa ci ha fatto, ma so che qualcosa dev’essere successo”.
Negli ultimi anni Young si è spesso guardato indietro. A tratti sembra addirittura essersi trasformato nel protagonista di una delle sue più belle vecchie canzoni: “Old Man look at my life, I’m a lot like you were”. Ha perfino acconsentito alla pubblicazione di “Shaker”, una biografia “autorizzata” (per non dire… “supervisionata”) di Jimmy McDonough che ha il pregio di approfondire aspetti inediti della vita e del mondo younghiano (e purtroppo non è disponibile in italiano). L’avrà mai letta? “Sì, l’ho letta una volta. Ho scelto quello scrittore perché mi piaceva il suo stile. E mi piaceva la sua brutale onestà. Non volevo che ne uscisse una cosa ammorbidita o censurata. Però penso che abbia deragliato un po’. Ogni volta che mi capita di firmare una copia di quel libro dico sempre: non credete a tutto ciò che leggete”.
“Quando Dio mi creò…
Stava pensando al mio Paese o al colore della mia pelle?
Stava pensando alla mia religione e al modo in cui lo veneravo?
Ha creato solo me a sua immagine o tutti gli esseri viventi?
Quando Dio mi creò…
Faceva progetti solo per i bigotti o anche per coloro che avevano fede?
Aveva previsto tutte le guerre combattute nel suo nome?
Pensava ci fosse solo un modo per essergli vicino?
Quando Dio mi creò…
Ci ha dato il dono dell’amore per poi dirci chi scegliere?
Quando Dio mi creò…
Mi ha dato il dono della voce affinché qualcuno potesse zittirmi?
Mi ha dato il dono della visione senza sapere cosa avrei potuto vedere?
Mi ha dato il dono della compassione per aiutare i miei simili?
Quando Dio mi creò…”

Scusa Neil, ma una canzone così (“When God Made Me”), capace di inchiodare in pochi versi, con poche semplici domande (e con poche note dal sapore gospel) tutte le contraddizioni del nostro tempo, infestato da guerre volute dalle lobby economiche e dalle multinazionali del petrolio e mascherate da guerre di religione, una canzone così allo stesso tempo profondamente laica e religiosa, da dove ti è venuta? “Innanzitutto non sapevo cosa stavo facendo”, racconta Young. “C’era una stanzetta con dentro un pianoforte. E il pianoforte era incastonato nella stanza: non ci sarà mai modo di farlo uscire da lì se non distruggendo le pareti della stanza. La stanza gli è stata costruita attorno. E questa stanza è all’interno di una chiesa. Lo studio stesso è in una chiesa. E il soffitto di questo studio ha delle piccole aperture, per cui se sali in cima a una scala con una torcia e guardi attraverso queste aperture puoi vedere le vetrate della chiesa e questa cupola enorme e tutto questo è chiuso perché per ottenere una buona acustica hanno dovuto costruire questa specie di controsoffitto. Ma quando vedi tutto questo fa davvero un certo effetto. Così cominciai a suonare questa specie di inno. E Spooner Oldham ha tirato fuori questo bellissimo gospel all’organo, stupendo. Voglio dire, è come se l’avesse fatto vivere. Sai, ho imparato un sacco di cose da lui, solo ascoltandolo. Per cui tutti questi passaggi di accordi e il miscelarsi di tutte queste cose insieme… ma tutti gli inni sembravano avere questi piccoli fraseggi di pianoforte al loro interno che portano alla strofa successiva, una cosa che è come se portasse tutti all’intonazione giusta e gli desse la spinta e il via. Insomma mi sono ritrovato a suonarla e non avevo la minima idea di cosa stessi facendo. E ancora non ne ho idea. Una delle cose che mi danno fastidio oggi è come la religione sembra essere stata strumentalizzata e politicizzata dal governo. La cosa che più mi infastidisce è come un partito possa affermare che l’avversario non è religioso e utilizzare questo come argomento politico. Come si può affermare una cosa del genere? Credo che ciò non rappresenti l’America. E credo anche che la fede abbia molto a che fare con la famiglia e l’amore per Dio. Non importa che tu legga il Corano, che tu sia buddista o qualsiasi altra cosa. In ogni caso tu sei lì che cerchi di entrare in contatto con ciò che ci ha creato tutti quanti, chiamalo come vuoi, il Grande Spirito. Ho la sensazione che tutto questo ci sia stato tolto e sia usato come un’arma contro alcuni popoli. Non lo sopporto… Non mi piace andare in Chiesa e sentire Star Spangled Banner (l’inno americano, NdT). Quella è una canzone che parla di bombe che esplodono in aria. Suona pure God Bless America se ti va di cantarla, se credi di averne bisogno, ma non credo ci sia bisogno nemmeno di quella. Ma se proprio devi cantare una sola canzone, cerca almeno di sceglierne una che non parli solo del tuo paese. Proviamo a cambiare qualcosa… proviamo a inventare una canzone che pensi all’umanità”.
Sì, proviamoci Neil. Grazie di crederci ancora e alla prossima.
Marco Grompi, Buscadero


Si intitola Prairie Wind ed è il nuovo lavoro di Neil Young. Lo sto ascoltando mentre scrivo e, confesso, sono piuttosto soddisfatto. A partire dal brano che apre il disco, "The Painter", una bellissima e classica ballata acustica nel classico solco della produzione del canadese. Certo, dirà qualcuno, suona sempre le stesse cose, è rigorosamente uguale a se stesso, dimenticando che Neil, in tanti anni, a differenza di molti altri suoi coetanei entrati da tempo nella mezza età, non ha mai suonato le stesse cose, ma ha sempre cercato di cambiare, di capire cosa accade attorno a lui, si è sempre confrontato con musicisti più giovani, ha vissuto la musica, insomma, in maniera totale. "Prairie Wind" è un bel disco di canzoni, tra le quali brillano, ad un primo ascolto, "No Wonder", "This Old Guitar" e "It's A Dream". E' un sopravvissuto? sicuramente. E' bollito? non credo. Potremmo farne a meno? non so voi, ma io sicuramente no. Ora finisco di ascoltare anche il resto.
Ernesto Assante

È il disco più bello di Neil Young da vari anni a questa parte, diciamo da Silver & Gold: non irritantemente sciatto come Are You Passionate?, non verboso e monomaniaco come Greendale, con i richiami al folk rock classico che tanto piacciono a quel che resta del popolo West Coast, un giorno tribù sterminata e oggi setta di carbonari esoterici.
Qualcuno ha provato a gridare al capolavoro, a inventarsi una trilogia (con Harvest e Harvest Moon), dalla giovinezza alla maturità alla vecchiaia. Non è così: Young deve scrivere ancora il suo grande testamento da senatore, e chissà se riuscirà a farlo. Qui vive solo di lampi, di fuggevoli canzoni come “It's A Dream”, come “He Was The King”, rievocando gli anni giovani, celebrando il vento sulle praterie di quando era teenager «in a town in North Ontario». Joni Mitchell ha appena dato alle stampe un'antologia di sue canzoni ispirate al Canada che non a caso si intitola “Songs Of A Prairie Girl”. C'è qualcosa del genere in quest'album, oltre all'assonanza con il titolo; ma giusto qualcosa, è un progetto non perfettamente a fuoco, una promessa che in qualche modo sfuma.
Young ha avuto gravi problemi di cuore in primavera, che paiono risolti. Continua a lavorare alacremente, ha appena rinnovato il suo storico contratto con la Reprise e a inizio 2006 dovrebbe finalmente schiudere gli archivi e cominciare a pubblicare i (molti) dischi di inediti che più e più volte ha promesso. Ma siamo nel campo delle leggende, e mai essere certi di qualcosa con il nostro Prairie Man. 
Riccardo Bertoncelli


Non è chiaro se Prairie Wind è stato registrato prima o dopo l’aneurisma cerebrale che la scorsa primavera ha colpito Neil Young, facendo tremare i fan. Le note allegate al disco dalla Warner (con cui Young ha recentemente rinnovato il contratto discografico, che prevede a partire dal 2006 anche la pubblicazione di materiale storico inedito dagli archivi) non lo dicono, e insistono invece su come questo album sia la continuazione di “Harvest” e “Harvest Moon”.
Si, perché le notizie sono due: Young sta benone (e se anche questo disco fosse stato registrato prima del fattaccio, lo dimostra che in agosto ha registrato un film-concerto diretto da Jonathan Demme, quello de Il silenzio degli innocenti). La seconda è che dopo il concept album elettrico Greendale, Young è tornato alla sua anima più elegiaca ed acusticheggiante, come già il titolo “Vento della prateria” lascia immaginare.
Semplificazioni da comunicato stampa a parte, Prairie Wind è un disco che brilla di luce propria. Certo, fa parte del filone “delicato” di Young, ma è decisamente più solido dell’ultima sortita in questo campo (Silver & Gold del 2000). Insomma, sì, Young torna a giocare con la melodia, con le chitarre acustiche e un immaginario agreste. Ma si presenta con grandi canzoni e con idee più variegate, permettendosi arrangiamenti che prevedono archi ma anche fiati e chitarre elettriche. Prairie Wind è un disco dall’impianto cantautorale – lo dimostrano tutte e 10 le canzoni – ma dalle aperture inaspettate: un po’ come in “No wonder”, che inizia con un tipico arpeggio younghiano, con cori di sottofondo per poi accogliere un organo e una chitarra elettrica, che danno una solidità quasi inaspettata alla canzone. O come nella title track, abbellita da fiati, presenti anche in “He was the king”, ma mai invadenti, come tutti questi strumenti “aggiunti” alla base acustica.
Il succo è che Prairie Wind ha un bel suono, ricco come mai nei dischi cantautorali di Young, pur conservando una forte identità in questo senso. Dall’esperienza di Greendale Young sembra poi essersi portato dietro una maggiore coesione narrativa delle canzoni, con temi ricorrenti (la prateria, appunto), ma senza quell’unità e sequenzialità che avevano fatto del disco precedente un “concept”.
Insomma, un gran bel disco da un musicista che è certamente tra i più grandi ma che ci ha abituato a molti alti e bassi nella sua carriera. Ora è nella fase “alta” e speriamo che continui così. 
Gianni Sibilla

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