On The Beach - Rassegna Stampa (pt.2)
Neil Young ha sequestrato per anni un po' di album del suo
catalogo, sostenendo di non avere nastri di prima qualità per effettuare
remastering degni di quel nome. Oggi ne libera alcuni, e nel mazzo c'è questo
piccolo capolavoro dimenticato; un disco preparato in fretta e quasi per caso,
come vedremo, che all'epoca naufragò nell'indifferenza e venne bollato anche da
giudizi impietosi ma con il tempo si è preso la sua rivincita e oggi brilla
come una luminosa stella nel cielo del Canadese. On The Beach è un sogno
dell'estate 1974 - un sogno inquieto, smanioso, quasi un incubo. Young non
aveva ancora trent'anni e viveva la più agitata stagione della sua vita. Tre
anni prima, con Harvest, aveva conquistato oceaniche folle in tutto il mondo
centrando un fantastico double in testa alle classifiche americane e britanniche;
un Sgt. Pepper per i nuovi tempi hippy, il culmine del mito di San Francisco.
Poi, però, si era messo d'impegno a dilapidare quella fortuna; e in un paio
d'anni c'era riuscito, con l'astrusa colonna sonora di Journey Through The
Past, con il traballante live di Time Fades Away - tanto che i discografici,
stupiti e sconvolti, si erano impuntati e per vendetta gli avevano rifiutato un
album intero, Tonight's The Night, che pure lui proponeva dal vivo come se
nulla fosse. Quella era la situazione discografica, e intorno sfaceli di vita.
Young era stato abbandonato dalla moglie, Carrie Snodgress, e aveva scoperto la
grave malattia cerebrale del figlio Zeke. Aveva cambiato casa, dalla California
del Nord a Malibu, inseguito da brutte storie di droga che già avevano portato
via il suo chitarrista Danny Whitten e il roadie Bruce Berry. Era triste,
depresso, scorbutico. Saliva spesso sul palco ubriaco, volentieri provocava il
pubblico. On The Beach nacque in quel clima, in poche informali sessions fra
Los Angeles e San Francisco, con l'aiuto di pochi amici musicisti fra cui Tim
Drummond e Ben Keith, e preziosi cameo di Crosby e Nash, Levon Helm, Rick
Danko. Venne bene e in fretta, levitando non si sa come sopra quei mal di vita
per sistemarsi in un angolo di cielo fantastico dove ancor oggi lo si può
ammirare, intatto e strano. Un album delicato, minimale, capace di distillare
quelle brutte storie senza restarne prigioniero; dove i patemi del mondo e i
suoi fantasmi (il pubblico e la critica assillanti, gli idealisti falliti, i
rivoluzionari cialtroni come Charles Manson e Patty Hearst) finiscono in acido
bagnomaria tra le pieghe dei testi e lì restano, corrosi più dall'ironia che
dalla rabbia. Ci sono alcuni pezzi memorabili fra gli otto del disco. Uno
certamente è “See The Sky About The Rain”, una canzone degli anni d'oro chissà
perché rimasta nel cassetto; una ballata languida e struggente che incantò
anche David Crosby e Roger McGuinn, pronti a metterla in scaletta nello stesso
periodo nell'album della reunion Byrds. On The Beach non ha quei quarti di
nobiltà ma la sottile forza di convinzione del Neil Young giovane: un fiotto di
energia esile ma invincibile, una tempesta di intime emozioni che vale più di
mille pennate Crazy Horse. “Walk On” venne provata come (unico) singolo ma
naufragò; troppo delicata e giocosa, con il suo abitino musicale casual di
smilze chitarre e batteria, come d'altronde “For The Turnstiles” e quel dialogo
pacato di dobro e banjo, cartolina da un'America rurale anni Trenta, degna
della colonna sonora di Fratello, dove sei?
Più bella di tutte, alla fine, “Ambulance Blues”; dolce anch'essa, e
spartana, con il ritmo a mani nude di Ralph Molina, la brezza lieve del violino
di Rusty Kershaw e il trasognato, estenuante racconto di Young per quasi dieci
minuti - brividi per i fans, riportati al gioco di canzoni come “Old Laughing
Lady” o di un album come Everybody Knows This Is Nowhere. On The Beach uscì e
combinò poco. Entrò nei Top 20 negli Stati Uniti, in Gran Bretagna si fermò al
42°posto. La stampa inglese lo definì «una depressione» e Young stesso, nel
corso di varie interviste, confermò quella vena stanca e pessimista. Sembrava
una pietra tombale ma il tempo, dicevamo, ha sistemato le cose. Oggi On The
Beach viene considerato, a ragione, uno dei dischi più belli di Neil Young e
forse l'unico degli anni Settanta a reggere il confronto con il dittico
leggendario di After The Gold Rush e Harvest. Questa nuova edizione in cd lo
consegna finalmente a una nuova generazione di appassionati; ed è una bella
cosa, anche se non ci sono bonus tracks - ma quello, si sa, è terreno minato,
lì si entra una volta ancora nel grande campo delle fisime di Neil Young.
Riccardo Bertoncelli, Del Rock
Nella
storia del rock non sono molti i dischi su cui si possono scrivere libri
interi. On The Beach è uno di questo. Non solo: è anche uno dei pochissimi – in
un mercato letteralmente intasato da ristampe trascurabili – a non aver goduto
di una riedizione in cd. La ragione è da condurre alla follia perfezionista del
suo creatore che, resosi probabilmente conto che per il progetto Archives e le
ristampe tra cofanetti e DVD cominciavano a farsi attendere come il buon Godot,
si è deciso ad autorizzare la re-release. E così anche le moltitudini che –
ahiloro – non godono nei piaceri del vinile, potranno accedere a uno dei
massimi capolavori del canadese: meglio affrontarlo nel modo dovuto, però,
evitando un ascolto spensierato, visto che, a detta dello stesso Neil – uno che
di dischi tristi se ne intende – On The Beach è “uno dei miei dischi più
deprimenti”. Anche più di un Nick Drake: se lì troviamo insofferenza
esistenziale congenita (anche) da mancanza di successo, qui assistiamo a un mix
devastante di depressione post-alcool, disillusione, cinismo e livore contro
tutto, causato in buona parte dalle conseguenze di un successo clamoroso. E per
una volta il disco si può giudicare dalla copertina, stupenda, benché poco
aprezzabile nel piccolo formato del cd: dubito che dieci decimi possano bastare
a scorgere la testata dedicata al Watergate nel giornale buttato sulla sabbia,
tra un ombrellone malmesso e un pezzo di luna park sepolto per metà… La
spiaggia come limite tra civiltà e oblio, triste come quella de Il lungo addio,
luogo ideale dove autocommiserarsi in solitudine. Spleen che cresce dopo un
inizio ingannatore, “Walk on”, in cui solo nel testo fa capolino il
risentimento contro l’ignoranza di stampa e pubblico che, dopo il successo di
Harvest, credevano di aver trovato in Young un nuovo John Denver (opinione
cancellata dal disastroso e autodistruttivo tour ’73 di Time Fades Away,
conseguente alla morte per droga di due membri dell’entourage di Neil).
Malinconiche ma dolcissime “See the sky about to rain”, con il suo Wurlitzer
appena sfiorato, e “Motion pictures”, contrappuntata dall’insistente slide di
Rusty Kershaw. Semplicemente devastanti, invece, “Revolution blues” e “Vampire
blues”: la prima, dedicata all’amico (!) Charles Manson, è un ambiguo omaggio
al suo confuso miscuglio di propositi rivoluzionari e cruente attuazioni; la
seconda un surreale blues che basterebbero le spazzole di Ben Keith e l’assolo
ronzante di Neil a rendere memorabile. Ma il meglio sta nei brani più lunghi
dell’album: due perle senza tempo, non nel senso che non invecchiano, ma che
già al momento della loro creazione appartenevano ad una dimensione altra,
toccata raramente dallo stesso Young. Una, la title-track, rappresenta un
unicum nella carriera del canadese, estraneo alla tradizionale dicotomia fra
repertorio acustico country-folk e elettrico tirato allo spasimo: qui la
dilatazione è ovattata, stordita da chitarre sussurrate e percussioni sghembe,
in un viaggio nel cuore profondo della disperazione. L’altra, “Ambulance
blues”, è una sorta di summa, quasi diacronica, della poetica younghiana, che
parte con l’anthemico verso d’apertura (“Back in the old folky days”) per poi
affrontare gli spettri che ogni vero artista porta con sé: successo e declino,
come Neil ribadirà più chiaramente in Rust Never Sleeps. Tutto visto in chiave
surreale e metaforica, inframmezzato da struggenti duetti armonica-violino ed
evitando ogni didascalismo, in una sorta di sequel ideale di “Last trip to
Tulsa” in cui la paranoia giovanile ha lasciato spazio alla disillusione della
maturità. Per una volta da accogliere con entusiasmo l’assenza di inediti: come
trovare un brano che si accordi alle particolari atmosfere dell’album (vedi la
“Winterlong” presente su Decade, di umore decisamente diverso, benché
proveniente dalle stesse sessions)? Senza dubbio una spiaggia da raggiungere al
più presto, quindi, ma con le dovute precauzioni: considerato l’elevato grado
di sensibilità presente nell’aria, una permanenza eccessiva può causare gravi
forme di pessimismo cosmico…
Emanuele Sacchi
On The
Beach è il capolavoro di Neil Young: l’opera in cui confluiscono magicamente i
filoni della sua estetica, mediante un’alchimia sonora stupefacente.
Esce nell’abbrivio fondamentale della vita del Loner: metà
anni '70. L’onda lunga di Woodstock, il falò country-rock di Harvest, le folle
oceaniche nei tour con Crosby Stills e Nash. Ma il lato oscuro di quella
stagione non tarda a venire fuori. I fallimenti della politica, il
cristallizzarsi del rock in canyon opulenti, la droga che scorre ovunque come
un fiume in piena, l’incapacità di trovare nel privato un “riparo dalla
tempesta”, per citare il Dylan dello stesso periodo. Tutto questo concorre a
formare il Grande freddo:quando ti accorgi che le cose non erano esattamente
come immaginato e le illusioni sfumano nella linea d’ombra dell’età adulta. Il
topos rock and roll per eccellenza, lo sturm und drang del Novecento.
Non tutti superano questo trauma. C’è chi ovviamente
continua la pantomima, e sale su un palco pur non avendo più niente da dire. I
più sensibili si spengono con l’ultima dose, o mediante un colpo di fucile:
magari citando nel messaggio d’addio proprio un verso del Canadese ( it’s
better to burn out than to fade away), come Kurt Cobain. Altri riflettono sul
proprio ruolo quando si trovano sull’orlo del precipizio, e vengono fuori
grazie all’Arte.
Neil Young si trova solo nella spiaggia dei miraggi svaniti
e del disincanto. Gli fanno compagnia una tristezza cosmica, il titolo di un
giornale sul Watergate, una Cadillac sepolta nella sabbia. Il rimorso per la
morte per eroina degli amici Danny Whitten e Bruce Berry e lo spettro della
relazione fallita con Carrie Snoodgress ( “troppo spesso, quando tornavo a
casa, abbracciavo la chitarra invece di lei,” dirà in seguito) non danno
tregua. Si è già suicidato commercialmente con Time Fades Away del 1973. Si è
già tuffato nell’abisso di alcool e disperazione registrando il catartico
Tonight's The Night. E in queste otto canzoni affronta definitivamente i suoi
demoni.
Stilisticamente, l’album presenta Young al meglio.
Attorniato di volta in volta da musicisti spettacolari (da Levon Helm a Rusty
Kershaw) On The Beach elude la dicotomia classica dei dischi del nostro eroe,
tra sognante country-folk e feedback dilatato allo spasimo. Il tono dell’album
varia magistralmente dall’ombroso al visionario, ancorato a una malinconia di
fondo devastante. L’impeto di “Walk on” apre le danze con maestria, mentre Neil
esprime il suo livore verso la critica che vuole imbalsamarlo in bella statuina
a Nashville. “See The Sky About To Rain” attenua l’atmosfera, sciogliendosi nel
piano Wurlitzer. Si materializza per incanto la spiaggia younghiana, tra
vaporosi ghirigori e pura poesia.
Ma è con la terza traccia, “Revolution Blues”, che l’album
entra nel suo cuore di tenebra. Uno dei brani più controversi dell’intera
storia del rock: dedicato a Charles Manson, ben prima che questi diventasse
un’icona, via Trent Reznor. Un Young nauseato da quello che è diventata
l’America nei primi anni 70, comprese le sue tronfie rockstar e la
Controcultura, si reinventa più psicotico e depravato di Iggy Pop, seguendo per
un giorno gli ambigui proclami rivoluzionari del massacratore di Bel Air, capro
espiatorio scelto dal sistema per affossare i sogni hippie nella celebre teoria
Helter Skelter. Il pezzo è semplicemente perfetto: la sezione ritmica della
Band conferisce un tiro funky mostruoso, David Crosby alla chitarra ritmica
spalleggia egregiamente un Neil intento a forgiare assoli precisi e devastanti
come rasoiate pur senza ricorrere al feedback. La sua voce incita all’odio e
alla violenza, forgiando un quadro semplicemente apocalittico. Versi
come Well I hear that Laurel Canyon is full of famous stars But I hate them
worse than lepers and I’ll kill them in their cars sono la miglior istantanea
possibile dell’ utopia californiana frantumata. La successiva “For The Turnstiles” apparentemente
riporta l’ascolto su lidi più sereni: ma è un’ afasica cartolina bucolica di
un’America rurale ormai perduta, tra sontuosi intarsi di dobro e banjo che
propinano una brillante parodia di Harvest. La prima facciata si chiude con
l’imponente “Vampire Blues”, paludosa cavalcata blues solcata da un memorabile
e stridente assolo dell’uomo dell’Ontario.
La seconda parte si apre coi sette minuti della title-track:
un vortice circolare e morboso, in cui il Wurlitzer (qui suonato da Graham
Nash) e le percussioni di Ben Keith creano un’ angoscia scintillante. Neil si
scioglie nelle sue debolezze, tra una voce appesa a corde emotive sottilissime
e parti di chitarre gelidamente stratosferiche. Un’agonia differita e lucida,
una struggente confessione sul ruolo di rockstar e di icona generazionale. Sono
sulla spiaggia ma quei gabbiani sono sempre lontani.
Quando sembra di aver toccato l’acme della tensione emotiva,
arriva LA ballata di Neil. “Motion Pictures (For Carrie)”. Un
ponte sospeso in una valle di lacrime, sorretto dalla slide guitar di Kershaw,
proteso verso l’ormai perduta Carrie: I’m deep inside myself but I’ll get out
somehow/ and I’ll stand before you and I’ll bring a smile to your eyes.
La saga di On The Beach si chiude nel labirinto di
“Ambulance Blues”: ci vorrebbe una recensione a parte per descrivere uno dei
vertici del rock di ogni tempo. Tutti i tasselli del mosaico si ricompongono
per incanto. L’innocenza (Back in the old folky days / The air was magic when
we played..), la paranoia post-hippie, ambulanze che sfrecciano veloci tra le
rovine di un’America desolata all’ultima stazione del calvario vietnamita, il
successo e il declino ( it’s easy to get buried in the past/ when you try to
make a good thing last), e l’Arte come unica via per sconfiggere i propri
fantasmi, come Neil sancirà definitivamente su Rust Never Sleeps. Nove minuti
divini, solcati da un lirismo mai così visionario e da un sound spettrale, tra
sopraffini arabeschi di fiddle e sinistri soffi di armonica. Mentre Ralph
Molina scandisce il ritmo a mani nude, Neil è aggrappato alla sua chitarra,
oscura e inquietante. Incurvandosi su di essa uscirà dal tunnel, ed enormi
amplificatori satureranno le sue ferite.
Mai Viaggio al termine della notte è stato più ispirato e
toccante in ambito rock: e Neil Young è ancora tra noi.
Junio C. Murgia, storiadellamusica.it
Prima di
Tonight’s The Night viene però lanciato sul mercato On The Beach (estate ’74),
album davvero eccellente intriso di rabbia, privata e politica, di quella
tenerezza macchiata dalle tenebre che fa da filo logico all’intera opera.
L’immagine di copertina, una spiaggia desolata e battuta dal vento, un senso di
abbandono e fragilità, il resto di un’astronave conficcata nella sabbia, è
bellissima e fortemente educativa come bellissime ed educative sono una ballata
esile e suadente come “Ambulance Blues”, i messaggi venefici e stregati di
“Revolution Blues” (“Noi viviamo in una roulotte, ai margini della città e non
ci hai visti mai perché non ce ne andiamo in giro. Abbiamo 25 fucili per
sottomettere la popolazione ma abbiamo bisogno di te adesso”).
Nel frattempo diverse forze concorrono per ricostituire
l’alleanza (e la miniera d’oro) che erano stati Crosby, Stills, Nash & Young
tutti insieme […]: nel luglio ’74 prende il via una strepitosa tournèe, con i
quattro uniti a ricordare le tappe migliori del repertorio comune e individuale
in concerti memorabili […]. Nonostante tutto il disco non arriverà mai.
da Enzo Gentile, introduzione a “Neil Young” (Arcana 1982)