On The Beach - Rassegna Stampa (pt.1)
Neil Young è ancora in un periodo di grossa confusione. In
certi momenti si rende conto di essere in crisi e cerca, allora, disperatamente
di uscirne. Ma per questa sua fretta di comunicare le emozioni spesso sbaglia e
registra album sempre meno interessanti. Questo On The Beach vuole
rappresentare una parentesi meno pessimista nella sua discografia, un album
alla ricerca di immagini positive e serene come già mostra la copertina.
Nonostante tutto On The Beach, pur mancando di linearità, di compattezza, è in
certi momenti piacevole nelle sonorità, in alcune idee musicali che si fanno
notare, a tratti, nel lavoro. In On The Beach collaborano sia gli Stray Gators
che i Crazy Horse.
Elia Perboni, Music 1982
Questo
lavoro esce nel luglio '74 ed è il più triste, intimista e depresso di quel
periodo. Young ha recepito la sua popolarità in senso inverso: non è felice del
fatto di essere diventato una rock star. On The Beach è un lavoro che ho
apprezzato in seguito, al momento mi aveva deluso. Contiene "Walk
On", la splendida "See The Sky About To Rain" ed "Ambulance
Blues" che è, in assoluto, una delle cose più tristi che Neil abbia mai
scritto.
Paolo Carù, Buscadero 1989
On The
Beach, risentito oggi, è un disco di grande bellezza, intenso, triste,
profondo. Young lo ha inciso con pochi musicisti ed il suono è semplice e
diretto. L'album contiene almeno quattro canzoni straordinarie. Il rock diretto
e pulsante di “Walk On”, la splendida ballata notturna “Ambulance Blues”, la
cui bellezza è ingigantita dall'uso del violino di Rusty Kershaw e della
fisarmonica di Neil, la struggente ballata desertica “On The Beach”, segnata
dalla batteria di Ralph Molina e dal piano di Graham Nash. Ed ancora
“Revolution Blues”, con Rick Danko e Levon Helm, la dolce “Motion Pictures” e
la selvaggia interiorità di “Vampire Blues”. Il termine blues appare molto in
questo album, a conferma dello struggimento dell'artista, della sua visuale
critica nei confronti della società, della sua solitudine nei confronti dei
colleghi. Un disco che, a quasi trent'anni di distanza, mostra l'enorme talento
del canadese. On The Beach è un capolavoro dimenticato che va riscoperto assolutamente.
Paolo Carù, Buscadero 2003
Concepito dopo Tonight's The Night, ma pubblicato prima (per
ordini superiori). L'inversione delle date crea una discontinuità storica nel
“periodo nero” di Neil Young. On The Beach, in effetti, non sta al fondo
dell'abisso. Ne segna, invece, la lenta risalita. È ancora piuttosto sconsolato
e trasandato, ma non tanto cupo, “helpless”, come quello che verrà dopo (che
era venuto prima...). Le otto canzoni sono, è vero, sottoprodotte, eppure mai
sciatte. Piuttosto, semplici, di una semplicità incontaminata, primitiva, per
questo ancor più autentica. Il suono naturale, le armonie chiare e l'esecuzione
disinvolta toccano vette eccelse nei tre Blues (“Revolution”, “Vampire” e
“Ambulance”), nella briosa “Walk On”, nella stralunata, meravigliosa
title-track. Né Crazy Horse né Stray Gators, ma un po' di tutti e due, e poi
Levon Helm e Rick Danko della Band, e diversi altri musicisti occasionali, e
ancora tre produttori (Mark Harman e Al Schmitt con il solito Briggs). On The
Beach è la “via d'uscita” e uno dei migliori Neil Young di sempre.
[…] C'è tutto, in quella sequenza di Blues impietosi, nelle
nuvole come di malinconia di “See The Sky About To Rain” e nelle desolate
ammissioni di impotenza della title-track, l'incapacità di convivere con la
fama e il proprio ruolo pubblico (“ho bisogno di una folla di persone, ma non
posso fronteggiarla giorno dopo giorno”), la dissoluzione del matrimonio con
Carrie, i postumi del dolore per gli amici scomparsi, la fine dei sogni della
controcultura, l'America di Nixon con il Watergate e la crisi petrolifera, la
decadente opulenza delle rockstar ai quali qualcuno dovrà prima o poi farla
pagare (“sento dire che Laurel Canyon è pieno di famose star / ma io le odio
più dei lebbrosi / e un giorno le ucciderò nelle loro auto”, e questo a soli
cinque anni dai massacri di Charlie Manson), la premonizione di un mondo in cui
chi è escluso dal banchetto e non ha nulla da perdere prima o poi si ribellerà,
cristallizzata nella visione spaventosa di “fontane di sangue, e dieci milioni
di Dune Buggies che discendono la montagna”. Qualcuno ha detto che On The Beach
è il disco più dylaniano di Young, mancando del tutto il bersaglio. In nessun
album più che in questo Neil Young assomiglia solo ed esclusivamente a se
stesso. Un uomo che al limite dei trent'anni si ritrova “solo davanti a un
microfono”, con “tutte le sue fotografie che cadono dal muro” e la convinzione
che “è facile seppellirsi nel passato, quando cerchi di far sopravvivere una
cosa bella”.
Mucchio Selvaggio Extra 2004
On The
Beach - “...penso che andrò via dalla città...”
Per dire questo disco servirebbe un oceano. E una spiaggia
distesa ad annegare maree. “Sento che qualcuno parla male di me”, ed è ancora
difficile cambiare, dire in qualche modo come stai. “Prima o poi diventa tutto
vero”. Promessa tesa, dal suono vibrante, protesa verso un treno che corre, e
fischia, quel fischio è in realtà e la realtà questa canzone mirabile,
assoluta. “See The Sky About To Rain”, per piano elettrico, basso e batteria,
steel guitar e una voce che canta e sembra sogni, sulla linea invisibile che
separa incubi e speranze. “Ero là a Dixieland e suonavo un violino d'argento /
finché arrivò un uomo / e me lo spezzò a metà”. Tutto è pronto allora perché si
aprano i cieli, sotto a un “Blues della Rivoluzione” psichedelico e incalzante,
intonato in pura trance trasfigurata (“...vedo fontane di sangue, e dieci
milioni di Dune Buggy venire giù dalla montagna”), che sfiora la violenza con
sguardo immobile, e sottile. Dal sangue a un banjo, l'impenetrabile segreto di
“For The Turnstiles”, celato tra esploratori nel granito, parate di lenziola
bianche, sarti e ruffiani, mentre “tutti i marinai e le loro donne col mal di
mare / sentono le sirene sulla costa / che cantano canzoni”. C'è qualcosa, in
mezzo al deserto. Qualcosa che è come una lontana speranza, “arriveranno i bei
tempi” – là, dentro a “Vampire Blues” – “ma di certo arriveranno lentamente”. E
così, eccola, quella spiaggia. “Il mondo gira, cambia, e spero non scompaia.
Tutte le mie foto stanno cadendo dalla parete dove le ho messe solo ieri”. È
qui. Qui, il centro dell'arco di cielo che stiamo attraversando, in
quell'intervista radiofonica dove “mi sono trovato da solo al microfono”, sul
confine tra il bisogno disperato di una folla e paura di affrontarla “giorno
dopo giorno”. “Film” è una vita “in sospeso”, pagina di diario raccontata a
sussurri, con basso e congas che accompagnano una nuova speranza ai ricordi
(“sono in fondo a me stesso, ma in qualche modo ne uscirò / e sarò davanti a
te, a sorridere / ai tuoi occhi”). “Ambulance Blues” è quella speranza, lieve
come un battello sul fiume, a “ondeggiare nella pioggia”. La vecchia via dei
Navajo, mamma Oca “ormai in discesa” e quella scarpa triste che ha voglia di
urlare: “ai vecchi tempi di una volta, quando si suonava c'era un'aria magica”,
e l'ultima battuta è per l'uomo che dice bugie, e “ne ha una diversa per ogni
paio di occhi”. Così termina, On The Beach, con un'ambulanza blues che, da
quella spiaggia, a passo d'uomo, si allontana.
Mucchio Selvaggio Extra
Ci sono
dischi che rappresentano il rock in maniera esemplare. Non (sol)tanto per la
musica, ma per la passione da cui nascono e che generano nel corso degli anni.
On The Beach di Neil Young appartiene a questa categoria; forse ne è il
capofila, addirittura. A quasi vent’anni dalla pubblicazione del 1974, On The
Beach viene finalmente stampato oggi per la prima volta su CD, insieme ad altri
tre dischi mai pubblicati: American Stars ‘n Bars (1977), Hawks & Doves
(1980) e Re-ac-tor (1981). Anche American Stars ’n Bars e Hawks & Doves
sono state considerate delle “gemme perdute”, ma del quartetto On The Beach è
sicuramente la punta di diamante.
La storia di questo disco è infatti una perfetta metafora
delle (belle) nevrosi degli artisti e del pubblico rock. Young lo concepisce in
uno dei periodi più duri della sua carriera: dopo Tonight’st the night, che era
la sua reazione alla morte del chitarrista dei Crazy Horse Danny Whitten,
seguita dopo pochi mesi da quella del roadie Bruce Berry. Tonight's The Night,
però, viene rifiutato dalla casa discografica (verrà pubblicato solo nel 1975)
e Young torna in studio e incide questo On The Beach. Un disco duro e grezzo,
che alterna momenti di cupa disperazione (non così cupa come quella di Tonight,
però) ai primi lampi di speranza. Prendete la conclusiva – e bellissima –
ballata “Ambulance blues”. “Ai tempi del folk l’aria era magica quando
suonavamo”, canta Young ricordando il successo di Harvest; poi: “Credo di
doverla chiamare nostalgia per ciò che andato/Ed è difficile dire il significato
di questa canzone/ Un’ambulanza può andare solo così veloce/ ed è facile farsi
seppellire dal passato/ quando cerchi di far durare qualcosa di bello”. Young
inizia a vedere la via d’uscita dal tunnel da uno dei periodi più bui della sua
carriera. Almeno psicologicamente, perché la musica di questo periodo è tra le
sue migliori di sempre: in bilico tra il rock chitarristico e il folk, le
canzoni di On The Beach (così come quelle di Tonight's The Night e del
successivo Zuma) esplorano in profondità le diversi anime dell’artista come
pochi altri album nella sua quarantennale carriera.
Young, però, rinnegherà questo album, forse per quello che
rappresenta nella sua storia. Negli anni ’80 l’industria discografica darà il
via alla “ristampa selvaggia” innescata dalla conversione dei cataloghi in CD.
Ma Young deciderà di non ripubblicarlo, insieme agli altri tre dischi già
citati. Verranno stampati nel nuovo formato dischi ben più scadenti del
catalogo dell’artista canadese, ma questo no. Dove finisce la nevrosi
dell’artista inizia quella del pubblico: chi ha una copia del disco se la tiene
stretta, chi non ce l’ha, inizia la caccia. Iniziano a circolare copie pirata
su CD, frutto di conversioni “artigianali”. Negli ultimi anni, grazie ai
sistemi di file sharing alla Napster era facile trovarsi le canzoni in Mp3, e
crearsi il proprio CD. Ma, tra i fan, l’attesa per la pubblicazione in CD di
questo disco non è mai scemata.
Non è lecito sapere cosa abbia spinto Young a tenere fermo
così a lungo questo CD – forse l’ avversione al suono digitale, a cui ha sempre
apertamente dichiarato di preferire il calore del vinile. Così come non è
lecito sapere cosa gli faccia tenere fermi i tanti attesi “archives” di
materiali inediti, di cui da anni si favoleggia la pubblicazione in un box.
Qualunque sia il motivo, Neil Young è un grande anche per queste sue manie da
artista, e finché la sua nevrosi darà vita a dischi come On The Beach, il suo
pubblico lo seguirà pazientemente, anche aspettando pazientemente 20 anni,
quando sarà il caso.
Gianni Sibilla
Che Neil
Young sia un personaggio strano e al di sopra delle righe è cosa nota ma
onestamente la sua scelta di non ripubblicare su cd On The Beach non l’ho mai
capita. Questo è uno dei suoi massimi capolavori e averlo lasciato per così
tanto tempo fuori dal mercato è quantomeno bizzarro. Si perché il disco, edito
originariamente nel 1974, arriva solo ora a quasi 30 anni di distanza in
versione cd. Neil è proprietario dei diritti, come egli stesso ha sempre
dichiarato, per cui questa bizzarra decisione è tutta farina del suo sacco.
Comunque ora finalmente giustizia è fatta e abbiamo la possibilità di ascoltare
questo capolavoro in versione rimasterizzata. Dico subito che la tracklist è
quella originale senza nessuna bonus track ma onestamente poco importa. Questi
8 piccoli grandi gioielli bastano e avanzano. On The Beach è il secondo
episodio di quella che viene definita la “trilogia del dolore” di Neil Young
(gli altri due sono Time Fades Away, live, e Tonight’s The Night) e forse il
più disperato dei 3. Il tono cupo del lavoro si intuisce fin dalla copertina
molto evocativa dello stato d’animo dell’autore e diventa realtà ascoltando i
suoni scarni e plumbei, i testi crudi danno una immagine disillusa e triste
della società. L’album si apre con “Walk On”, un rock veloce ma decadente,
tirato ma dall’animo triste ben sottolineato dalla malinconica steel guitar
suonata da Ben Keith e dal drumming di Molina. La steel è un elemento
ricorrente del disco, il suono simile ad un pianto è perfetto per queste
canzoni così la ritroviamo anche nella tristissima e sognante “(See The Sky)
About The Rain” con Neil al wurlitzer. Alla fine della canzone compare un velo
di armonica che i credits dell’album dicono esser suona da tal Joe Yankee, in realtà
si tratta sempre dello stesso Young sotto pseudonimo, una delle sue tante
bizzarrie. Alla batteria troviamo il grandissimo Levon Helm. In “Revolution
Blues” al basso compare Rik Danko che da una tocco black e David Crosby alla
ritmica. Ne esce una ballata indimenticabile, così struggente e visionaria con
un assolo epocale di Neil, uno di quelli che solo lui può fare tanto è
spigoloso e rabbioso, una stilettata al cuore e all’anima dell’ascoltatore
attonito.” For the Turnstiles” è un country blues scarno e desolante, solo
dobro (Keith) e banjo (Young), una song minimale quasi un urlo disperato;
splendido apripista per la seguente “Vampire Blues” puntellata da un gelido
hammond e dalla improvvise svisate elettriche di Neil il cui canto è sempre più
simile ad un lamento strascicato. La title track è una ballata asciutta, arida
direi, toni crepuscolari con il wurlitzer (suonato da Graham Nash) appena
accennato. Il canto di Neil è come la sabbia portata via dal vento quasi ad
esorcizzare i tormenti interiori del canadese che fa poi vibrare le corde della
sua chitarra in un solo straziante e straziato, che fa percepire una violenza e
una rabbia nascoste, quasi trattenute. “Motion Pictures (For Carrie)” è
dedicata alla sua compagna Carrie Sondgress. Alla slide, che fa da splendido
controcanto, troviamo Rusty Kershaw. Neil inforca l’armonica dando vita ad una
melodia ombrosa e sperduta pervasa di classe cristallina. Il disco si chiude
con la monumentale “Ambulance Blues” il pezzo più significativo del album; 9 minuti
di una bellezza sconcertante, il violino di Kershaw vola alto sulla melodia
notturna segnata dalla chitarra acustica di Neil: la corda bassa è tenuta
volutamente molle (soluzione questa ripresa anche in un brano di Greendale) a
dare un senso di ancora maggiore buio interiore; l’armonica e il violino si
incrociano e subito si separano in un continuo gioco delle parti. Il testo è
una dura invettiva contro la politica americana con chiari riferimenti al
Watergate. Personalmente ritengo questa canzone una delle migliori di tutto il
repertorio del leone canadese, un capolavoro di decadente interiorità. Qualcuno
ha definito questo album come uno degli affreschi musicali più disperati di
sempre, poche volte mi è capitato di rimanere così sconcertato dopo l’ascolto
di un disco: in queste 8 canzoni c’è tutta l’inquietudine di un’anima allo
sbando come era quella di Neil Young nei primi anni ’70. Il canadese ci ha
riversato dentro tutto se stesso e il risultato è di una bellezza tremenda.
Marco Redaelli, rocklab.it