Neil Young - Rassegna Stampa
Già
in questo primo album solista si riesce a focalizzare la figura di
Young in maniera esauriente. Il lavoro in equipe svolto sinora con i
Buffalo Springfield non poteva mettere in luce in maniera così
evidente quelle che erano le sue influenze. In tutto il lavoro
aleggia, si sente nell'aria, Dylan al quale oggi Young si riferisce
in maniera abbastanza chiara. Questo comunque non significa che Neil
Young rappresenti un album poco personale o troppo influenzato da
altri elementi. I dieci brani contenuti mettono in risalto quella che
sarà soprattutto la linea poetica che il cantautore di origine
canadese seguirà in futuro. Gli arrangiatori sono due: Jack Nitzsche
(personaggio di primo piano della musica rock, ha collaborato con gli
Stones ed inoltre ha scritto colonne sonore per il cinema) e Ry
Cooder. Quest'ultimo in particolare è riuscito a influenzare
notevolmente il sound del disco che rimane indubbiamente un episodio
molto importante non solo nella discografia di Young, ma in generale
per la storia della musica californiana. […]
Elia
Perboni, Music 1982
Inciso
nel '68, questo album ci mostra già un musicista maturo, anche se
pieno di dubbi e controsensi. Il disco è uscito una prima volta
senza il nome del suo autore sulla copertina, ma nel corso dell'anno
stesso è stato ripubblicato aggiungendo il nome e con un missaggio
completamente nuovo che alzava il volume della voce, tanto per
testificare i dubbi e le incertezze dell'autore. Ry
Cooder appare nel disco. I brani migliori: "Last Trip To Tulsa",
"The Loner", "The Old Laughing Lady".
Paolo
Carù, Buscadero 1989
Pubblicò
a 24 anni il suo primo solo album, Neil Young (Reprise, 1968), sul
quale era soltanto inibito da arrangiamenti un po' goffi. Trovò
peraltro l'illuminazione di “Last Trip To Tulsa”, lungo e solenne
racconto per sola voce e chitarra acustica, dimesso e sofferto blues
per bianchi alienati, destinato a rimanere uno dei suoi capolavori, e
componendo con diligenza il proprio anthemico autoritratto
nell'incalzante “Loner”. Fin qui Young sembrava più che altro un
abile folksinger, specializzato in serenate malinconiche ed
evocazioni vertiginose. Solo su 45 giri venne edita “Sugar
Mountain”, che è il suo trait d'union con il folk classico. Young
conserva l'incedere lento e maestoso per ampi spazi aperti dei
folksinger canadesi, cresciuti senza l'affanno della folla e l'incubo
dei grattacieli.
Piero
Scaruffi
Neil
Young (gennaio ’69) denuncia questa scarsa disposizione alla
riflessione e alla pazienza: è un disco fiacco e gonfio di cose
inutili, arrangiamenti ampollosi, canzoni senza mordente, con il
canadese irretito dalle scivolose atmosfere country. “The Loner”
è una sorta di omaggio a se stesso, autogratificazione pura, mentre
l’unico episodio decisivo è dato da “The Last Trip To Tulsa”,
lunga cavalcata, classica dello status artistico di Young […]: la
lirica di Neil ha l’incedere suggestivo e ammirato del troubadour
moderno, disincantato. Canta: “ero un folk-singer, tenevo in vita i
managers”, e lo dice sorridendo, non succederà mai il contrario.
Il disco sarà comunque un terribile smacco per le ambizioni di
Young, che probabilmente intuisce subito gli errori, decide di
seguire la pista tracciata con “Tulsa” e si affida a i
suggerimenti di Briggs: “Devi trovare un bel gruppo e farlo suonare
sempre con te”.
da
Enzo Gentile, introduzione a “Neil Young” (Arcana 1982)
[…]
Nel 1968 con l'album che porta semplicemente il suo nome, una
manciata di canzoni dolci e timide che sottolinea con una voce tirata
e malinconica, con arrangiamenti molto semplici che mostrano una
vulnerabilità sotterranea.
La
grande enciclopedia del Rock
[…]
A ventitré anni, Young si è appena lasciato alle spalle la storia
di un gruppo tra i più amati dai seguaci della controcultura hippy e
dalla nuova critica rock dei Sessanta, un tour acustico in completa
solitudine e un omonimo esordio già disconosciuto a solo un mese
dalla sua uscita. Neil Young, inciso nel '68 a ridosso della fine dei
Buffalo Springfield, è un disco poco rappresentativo e poco
riuscito, nonostante la presenza di due classici come “The Loner”
(in cui l'autore inventa il miglior slogan di se stesso per gli anni
a venire: “quando lo vedi, sappi che niente può liberarlo/fatti da
parte, del tutto/lui è il solitario”) e l'esercizio di
visionarietà dylaniana di “Last Trip To Tulsa”, la sua personale
“Desolation Row”. A incidere pesantemente sono le orchestrazioni
e il lavoro di taglia-e-cuci sui nastri intrapreso con David Briggs e
Jack Nitzsche, un missaggio disastroso e soprattutto la mancanza di
una vera band – nonostante la partecipazione alle session di Ry
Cooder, cordialmente detestato da Young – a sostenere le idee del
canadese. […]
Inizia
con un brano strumentale, “The Emperor Of Wyoming”, sorta di
introduzione musicale a un universo futuro talmente ricolmo di parole
da stordire. E per quanto Neil Young avrebbe fatalmente perso il
confronto con le opere successive, riascoltato con il senno di poi si
rivela intrigante sotto molti punti di vista: è un album eclettico,
non ancora centrato ma già prodigo di felici intuizioni liriche e di
buona scrittura (su tutte, la celebre “The Loner” e i dieci
minuti impressionistici di “Last Trip To Tulsa”). La produzione
di David Briggs […] concede largo spazio ad archi e tastiere,
inseguendo un amalgama sonoro che alla fine, tuttavia, rimane solo
abbozzato. E lo stesso vale per i tre titoli prodotti da Jack
Nitzsche e Ry Cooder. Tra pop rotondo, folk visionario e una punta di
gospel, nulla lasciava immaginare quale e quanta elettricità sarebbe
venuta dopo. Un debutto atipico, dolce e un po' svagato.
Mucchio
Selvaggio Extra 2004
Neil Young, che con gli Springfield aveva assunto un ruolo schivo e sempre in ombra, sembra quasi sollevato dalla rottura e si rinchiude in uno studio di Los Angles per immortalare, senza vincoli e senza compromessi, quello che sarebbe stato il suo primo lavoro solista. Il risultato finale, pur rimanendo uno dei dischi preferiti dallo stesso Young, è ambiguo.
L'amico Jack Nitzsche riesce ad assemblare una band di tutto rispetto con Messina al basso e George Grantham (anche lui dei Poco) alla batteria, tirando fuori dalla manica un asso della chitarra come Ry Cooder. L'apporto di quest'ultimo alle sonorità del disco è fondamentale ma appare subito chiaro che tra i due non scorre buon sangue e girano probabilmente parole pesanti quando Cooder pretende di essere accreditato come arrangiatore per “The Old Laughing Lady”, “String Quartet From Whiskey Boot Hill” e “I've Loved Her So Long”.
A
disturbare è però soprattutto l'eccessivo ricorso alle
sovraincisioni e, in particolare, ad un uso smodato delle tastiere.
Delle traccie iniziali spesso rimane soltanto la batteria mentre il
resto è aggiunto in seguito. L'artificio, come nel caso di “The
Loner”, può anche starci ma alla lunga diventa pesante e, come
testimoniano “I've Been Waiting For You” e “The Emperor Of
Wyoming”, riempie l'aria di una furiggine artificiale.
Non
c'è da stupirsi se alla fine le migliori sensazioni provengano
proprio dai brani più spogli e semplici come “The Old Laughing
Lady”, “Here We Are In The Years” o da quel pazzo folk
intitolato “The Last Trip To Tulsa”.
John
Robbiani, universomusica.com