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Living With War - Rassegna Stampa pt.1


Si può ascoltare in Internet Living With War, l'album dell'artista che un tempo tifava per il presidente. Sarà presto in vendita. E ora Neil Young accusa Bush "Ci ha portati in guerra mentendo. Non è necessario pensare allo stesso modo di George W. per essere patriottici".

ROMA - Il titolo è già abbastanza chiaro, “Let's impeach the president”, ma il testo della canzone scritta da Neil Young e disponibile in Internet assieme a tutte le altre canzoni del nuovo album Living With War che arriverà nei negozi nei prossimi giorni, è ancora più duro e forte: "Mettiamo sotto accusa il presidente, per aver mentito e aver portato il nostro paese in guerra, abusando del potere che gli abbiamo dato e gettando via il nostro denaro... mettiamo sotto accusa il presidente per aver spiato i suoi cittadini nelle loro case, infrangendo ogni legge del nostro paese, intercettando i nostri computer e i nostri telefoni... mettiamo sotto accusa il presidente per aver rubato la nostra religione e averla usata per essere eletto, dividendo il nostro paese per colori e aver lasciato comunque la gente nera negletta". Parole dure, che arrivano da un artista che, senza esitazione, si era schierato al fianco del presidente Bush dopo l'11 settembre, sorprendendo il suo pubblico, e che ora copre la voce di George Bush che giustifica l'intervento in Iraq con un coro che urla "lie": bugia.
Il rocker canadese aveva sostenuto le leggi che limitavano le libertà personali che oggi critica nella canzone, quelle passate con il "Patriot Act". Era stato tra i primi a esibirsi, pochi giorni dopo l'attacco alle torri, per le vittime degli attentati, cantando "Imagine" di John Lennon, e aveva dedicato un brano, "Let's roll", agli eroici passeggeri del volo United 93, che avevano affrontato i terroristi facendo precipitare l'aereo prima che arrivasse sull'obiettivo prestabilito. "Rispondere è necessario", aveva detto all'epoca, "possiamo accettare alcune limitazioni alle nostre libertà se questo può servire al bene comune, sarà per poco tempo e tutto tornerà come prima".
Oggi il suo atteggiamento è completamente diverso: "Se hai una coscienza non puoi vivere senza pensare a quello che sta accadendo", ha detto Neil Young, "non puoi non porti delle domande, non puoi non chiederti se stiamo facendo la cosa giusta". E attorno a queste domande ruota quasi per intero il nuovo album di Young.
Un disco (che è possibile ascoltare per intero da qualche giorno su Internet, collegandosi al sito www.neilyoung.com o su livingwithwar.blogspot.com) che arriverà nei negozi tra qualche giorno e che segna una fase nuova nella quarantennale avventura musicale del chitarrista, cantante e compositore canadese. "Ho scritto altre canzoni "politiche" nella mia carriera, ma mai un disco come questo. È nato in maniera improvvisa: ero a casa, avevo già scritto quattro brani, e stavo provandoli a casa, ma sentivo che c'era qualcosa che non andava. Sono sceso in strada a prendere un caffè e ho trovato una copia di Usa Today che in prima pagina aveva una foto di un C130 adattato a ospedale volante. I soldati erano stesi su tavoli operatori attorno ai quali medici cercavano furiosamente di salvare delle vite, a 1000 miglia all'ora a ventimila metri d'altezza. Sono tornato a casa e ho scritto “Families”, pensando a uno di quei soldati che non è riuscito a tornare a casa. Quindi mi sono messo a piangere tra le braccia di mia moglie. È stato un punto si svolta per me".
Dieci brani, tutti centrati sul tema della libertà, della guerra, della possibilità di un cambiamento, canzoni spesso rabbiose, sempre appassionate, semplici, dirette, immediate, fatte apposta, come dice Young, "per dare voce a chi oggi non ne ha". A chi lo accusa di essere "anti-americano" Neil Young risponde: "Non si deve pensare allo stesso modo di George Bush per essere patriottici. E lui non è il detentore dei sentimenti dopo l'11 settembre del 2001. Il sentimento che si è creato dopo quell'attentato appartiene a tutti gli americani, a chiunque abbia assistito a casa sua, davanti al televisore all'abbattimento delle torri. Io ho un sentimento legato all'11 settembre 2001 che non è uguale a quello del presidente Bush. Sono fiero di vivere negli Stati Uniti, di pagare le tasse in questo paese da quarant'anni, di avere tre figli americani, una moglie americana. Sono canadese, ma sono qui perché sono un artista e questo paese mi ha permesso di essere quello che sono. Ma penso anche che ci sia una coscienza in questo paese che oggi non ha voce, e penso che abbiamo bisogno di un nuovo leader. Io stesso ho cambiato idea, avevo dato fiducia a questo presidente dopo l'11 settembre, ma era risposta nell'uomo sbagliato".
Living With War è un classico "istant-cd", registrato in pochi giorni, tra il 29 marzo e il 6 aprile, e reso pubblico nei giorni scorsi attraverso la Rete. Il cd non è ancora disponibile proprio perché è ancora in stampa, ma i brani da ieri possono essere acquistati on line.
"Abbiamo Internet, vale la pena usarlo. Forse non si sente benissimo, ma è veloce, immediato, globale e il messaggio circola subito. Non m'interessa se il disco non è ancora stampato, non m'interessa nemmeno che si venda o no, è un disco che ha un altro senso, un motivo più profondo. È un album in cui esercito la mia libertà di parola, un diritto per il quale i nostri ragazzi stanno combattendo in Iraq, perché gli iracheni possano averlo, un diritto che invece viene limitato negli Usa, perché Bush ha preso la direzione sbagliata. L'unica cosa che chiedo alla gente è di ascoltare il disco per intero, per capire esattamente quello che ho da dire".
Ernesto Assante, La Repubblica


NEL NUOVO ALBUM DI NEIL YOUNG LA CANZONE “LET'S IMPEACH THE PRESIDENT”

Il rock canta:«Impeachment per Bush». In rete il cd «Living With War» del cantautore canadese che accusa la Casa Bianca «Ha mentito e ci ha portato in guerra».

Una volta era soprattutto Hollywood, il mondo del cinema, il «nemico» artistico della Casa Bianca in chiave repubblicana. I big della canzone, invece, erano molto meno schierati. Ma negli ultimi anni le cose sono cambiate e i grandi del rock sembrano sempre più schierati contro Bush. Se Bruce Springsteen è ormai diventato l'icona stessa del «nemico», dopo l'adesione a «Vote for change» e ora con la scelta di portare su disco e in tour le canzoni simbolo della stagione dei diritti civili, anche altri hanno levato in questi anni espliciti «inni» musicali contro il presidente Usa: da Jackson Browne a Steve Earl molti hanno preso posizioni nette. Ma nessuno era arrivato finora a intitiolare una canzone “Let's impeach the president”, ovvero «mettiamo sotto accusa il presidente», con riferimento diretto a George W.Bush.
Lo ha fatto Neil Young nel nuovo album che s'intitola Living With War ed è interamente un album «politico». In tutti i testi del cd del cantautore canadese, un pezzo di storia del pop fin dal supergruppo con Crosby, Stills e Nash, la politica e l'America di Bush e soprattutto la guerra in Iraq sono presenti in modo addirittura ossessivo, insieme a consumismo, corruzione politica e il fondamentalismo religioso. «Mettiamo sotto accusa il presidente - dice il testo della canzone - per aver mentito e aver portato il nostro paese in guerra, abusando del potere che gli abbiamo dato e gettando via il nostro denaro». Chi ama le inconfondibili ballate di Young, è meglio che si riascolti il cd precedente Prairie Wind. Qui le atmosfere sono quasi sempre (tranne che in “Roger and Out”) dure, tirate, elettriche (con “Families” che somiglia a “No Surrender” di Springsteen) a volte cupe, magari anche ripetitive ma efficaci, e con un grande spazio a un coro di quasi cento voci.
Già dai titoli molti temi sono espliciti: “Living With War”, “Looking For A Leader”, “Flags Of Freedom”, “The Restless Consumer”. Inevitabili le accuse di antiamericanismo all'uscita di un album così. Ma Neil Young replica sostenendo che «non è obbligatorio pensarla come Bush per essere patriottici. E lui non è il detentore dei sentimenti del dopo 11 settembre».
E per confermarlo piazza anche una corale e tradizionalissima “America The Beautiful” a chiudere l'album. Le 10 canzoni, registrate tra fine marzo e i primi di aprile, si possono ascoltare integralmente su un blog direttamente legato al sito di Neil Young, dove invece sono riportati tutti i testi.
Corriere Della Sera


NEIL YOUNG, METAL FOLK CONTRO BUSH

Living With War, «vivere con la guerra», s'intitola l'album che Neil Young ha appena presentato negli studi di Warner Music Group's Reprise Records a Los Angeles. Dieci canzoni dure, di denuncia arrabbiata sugli orrori del conflitto in Iraq e sulle menzogne della Casa Bianca, un appello alla mobilitazione che culmina in “Let's Impeach the President” («Mandiamo a casa il presidente»). Un piatto considerato non facilissimo da digerire per gli executive delle grandi etichette discografiche che in questo clima politico per prestare meglio orecchio a Wall Street son diventati inclini a non pestare i piedi a nessuno. Forse per questo lo showcase - a porte chiuse - è stato accompagnato da un insolito battage pubblicitario da parte dell'artista e del suo manager. Tanto per preparare il terreno. «Ho inciso un nuovo album, un potente insieme di chitarra elettrica, basso e percussioni, accompagnato da tromba e un centinaio di voci - spiega Young - Credo si possa considerare una versione metal di Phil Ochs e Bob Dylan… Possiamo chiamarla protesta metal folk?» Un chiaro riferimento agli anni 60, alla musica e ai cantautori che hanno scritto la colonna sonora del movimento pacifista durante la guerra del Vietnam. «Nessuno sapeva che stesse preparando un nuovo disco, è stata completamente una sorpresa - sono state le parole di Bill Bentley, portavoce di Warner Music - Questo è il bello di Neil Young». Il musicista a sessant'anni suonati non è nuovo a prese di posizione politiche. Anche se non è il primo artista a impugnare la chitarra per criticare Bush, dalle anticipazioni il suo album pare di gran lunga il più feroce attacco contro il presidente che ha trascinato l'America in guerra con l'inganno. C'è anche un duetto in stile rap con la voce registrata di Bush e il coro che scandisce: «Flip, flop»: voltagabbana. Uno degli artisti che hanno partecipato alla registrazione ha rivelato sul suo blog Internet che l'album include una versione riadattata di “America the Beautiful”, un classico per eccellenza del patriottismo a stelle e strisce. Altre strofe circolano in rete, grazie a solerti addetti ai lavori e gruppi di fan ben introdotti: «Nei grandi alberghi, nelle moschee, alle porte dei musei, faccio un giuramento solenne, di non uccidere più nessuno». Una svolta per Neil Young che dopo l'11 settembre si era prodotto in “Let's Roll”, un tributo ai passeggeri del volo United numero 93, quello che avrebbe dovuto schiantarsi contro il Congresso ma precipitato in seguito a una rivolta a bordo fra i boschi della Pennsylvania. Un brano che era parso come un gesto di solidarietà e sostegno nei confronti dell'amministrazione Bush lanciata nella campagna per spazzar via il terrorismo dalla faccia della terra. Young si era pure espresso pubblicamente in favore del famigerato Patriot Act, il famigerato corpo di leggi speciali con cui l'allora segretario alla Giustizia John Aschroft dava carta bianca a polizia e servizi segreti per intercettare e mettere sotto controllo chiunque e senza neppure doversi prendere il disturbo d'informare la magistratura. Un mostro giuridico secondo le organizzazioni che si battono per i diritti civili. Nessuna sorpresa visto che negli anni 80 Neil Young aveva ceduto al fascino del reaganismo prestandosi a far campagna per il Partito repubblicano. Un idillio finito male: a volte ci vuole tempo per aprire gli occhi. La bussola di Neil Young d'altronde sembra essersi mossa in sintonia con quella dell'opinione pubblica americana, inizialmente convinta della necessità di togliere di mezzo Saddam Hussein con un intervento militare, poi disillusa e sfiduciata di fronte al caos in cui si sono andate a impantanare le truppe Usa senza trovar traccia di armamenti proibiti. Prima di Neil Young tra gli artisti che hanno dato voce alla protesta contro la guerra si son sentiti Steve Earle con “Rich Man's War” («La guerra dell'uomo ricco»), Willie Nelson con “What Ever Happened to Peace on Earth” («Cos'è successo alla pace in questo mondo»), e i Rolling Stone con “Sweet Neo Con” («Dolce neo conservatore»). 
Roberto Rezzo, L'Unità


NEIL YOUNG: AMERICA APRI GLI OCCHI SU BUSH

«Ho aspettato invano che qualche giovane si mettesse a scrivere qualcosa contro tutte le menzogne che ci rifilano. Alla fine ho dovuto farlo io»

Il tutto ha avuto inizio appena un mese e mezzo fa, il 16 marzo per l'esattezza. Neil Young era a una conferenza sulla musica ad Austin, nel Texas, quando qualcuno gli ricordò di “Ohio”, della canzone che aveva scritto nel 1970 subito dopo che la Guardia Nazionale aveva sparato e ucciso quattro studenti dell'università di Kent, nell'Ohio appunto, che protestavano contro la guerra in Vietnam. «Mr. Young - si sentì dire - abbiamo bisogno di un'altra canzone».
Ci pensava da mesi, il cantante e compositore canadese emerso come parte di Crosby, Stills, Nash & Young, ma in quel momento qualcosa lo colpì. Un senso di urgenza, la realizzazione che di fronte alla guerra in Iraq e alla piega che stavano prendendo gli Stati Uniti sotto la presidenza di George W. Bush non riusciva più a restare indifferente. E che c'era un vuoto da riempire. «Aspettavo da mesi che venisse fuori qualcuno, un giovane cantante tra i 18 e i 22 anni che prendesse posizione e che si mettesse a scrivere questo tipo di canzoni. Ho aspettato e aspettato finché ho realizzato che forse la generazione che deve fare questo è ancora quella degli anni '60. Siamo ancora qui».
Si era stancato di aspettare, Young, e due settimane dopo quell'incontro in Texas era in una sala di registrazione in California intento a scrivere e a registrare non una canzone ma un album intitolato Living With War, vivendo con la guerra. Una vera corsa contro il tempo, un giorno di canzoni ne ha scritte quattro. «La chitarra suonava da sola», ricorda. Il 18 aprile, un mese dopo Austin, l'album era pronto per gli executives della Reprise Records e lunedì prossimo sarà in vendita. Ma dal 28 aprile, l'album è disponibile gratuitamente online per chiunque va al suo sito, http://www.neilyoung.com
Living With War è un atto di accusa potentissimo, dove niente e nessuno viene risparmiato. C'è pure una canzone che si chiama “Let's impeach the President”, nella quale Neil Young invita gli americani a far fuori Bush colpevole di avere «distorto i fatti per creare una nuova storia per mandare gli uomini in guerra». In un'altra , “Looking for a leader”, si sente la voce di Bush sullo sfondo che sostiene che la missione in Iraq è stata compiuta con successo e che tutto sta andando per il meglio. Non teme che le verrà chiesto di tornare nel suo Paese natio? «Capisco che ci sarà sempre qualcuno che se chiedi l'impeachment del Presidente la prenderà male, ma l'America è questo, è essere in grado di esprimere il tuo punto di vista», risponde Young. «E poi, se Bush dovesse subire l’impeachment finiremmo per fare solo un grande favore ai repubblicani. Potrebbero presentarsi di nuovo di fronte al paese con orgoglio». Neil Young è parte di una lunga e onorata tradizione e il suo primo omaggio va Bob Dylan e ai suoi contemporanei. «Le sue canzoni degli anni '60 sono di grande ispirazione», continua. «La gente scriveva con la propria anima su cose che stavano accadendo nel paese, tipo i diritti civili, l'ingiustizia. È bello poter avere una voce e quando usi la musica si sparge come un incendio fuori controllo». La voce di Neil Young, di questi tempi, non è l'unica. Pearl Jam e Green Day hanno scritto contro la guerra, Bruce Springtsteen è appena uscito con We shall overcome. Ma nessuno ha saputo esprimersi in modo così esplicito, e con così tanta urgenza, come Neil Young, che in molte delle sue canzoni si è fatto accompagnare da un coro di 100 persone. «Non è un disco per me o su di me, è sulla gente che incontri per la strada che parla delle cose di cui parlo io nel disco. E un coro in quel senso mi ha aiutato».
Poi ricorda: «Quando abbiamo registrato "Let's impeach the President" ho detto a quelli del coro che se non si sentivano a loro agio di non venire. Il giorno dopo ne sono venuti il doppio».
Il nuovo album sarà nei negozi a partire da lunedì, ma non parlategli di vendite. «Non abbiamo bisogno di vendere e di fare soldi», conclude Young. «L'importante è che si diffonda e si sparga e Internet, in questo, ha un potere incredibile. Siamo la minoranza silenziosa, sinora siamo rimasti a guardare e non abbiamo fatto niente. Ma siamo più noi di loro e sarà una valanga. Sarà uno tsunami».
La Stampa


Da Neil Young ai Green Day si torna a cantare contro la guerra e il sistema

La risposta sta scritta nella storia, piuttosto che nel vento: l'esercito di capelloni che durante l'estate del 1969 andò ad imbrattarsi nel fango di Woodstock cambiò il corso della guerra in Vietnam. Il lamento della chitarra di Jimi Hendrix ferì come le bombe che cadevano sul serio in Indocina, mentre il versetto irridente di Country Joe McDonald diventò l'inno di coscritti e disertori: «And it's one, two, three, what are we fighting for? Don't ask me, I don't give a damn, next stop is Vietnam». Perché combattiamo? Non me lo chiedere, non me ne frega nulla: la prossima fermata è il Vietnam. E adesso dov'è lo sdegno? Dove sono le canzoni di protesta del «fronte interno»? Secondo il settimanale di sinistra «The Nation» stanno tornando, e questo potrebbe segnare davvero la fine per l'intervento in Iraq. Subito dopo l'11 settembre anche i musicisti avevano avuto una reazione patriottica. Neil Young aveva scritto «Let's Roll» in onore delle vittime del volo 93, Paul McCartney «Freedom», e anche «The Rising» di Bruce Springsteen era parso in linea con i sentimenti nazionali. I giovani artisti, in generale, avevano evitato l'argomento: le canzoni politiche sembravano scheletri del passato, e poi non c'era più la leva obbligatoria a scaldare i loro animi. Quasi cinque anni dopo l'aria sta cambiando, per via dell'Iraq, ma non solo.
Neil Young fra qualche giorno pubblicherà un album intitolato «Living With War», che lo riporterà ai tempi in cui cantava «Ohio», dopo l'uccisione di quattro studenti che manifestavano alla Kent State University nel maggio del 1970. Un brano, tanto per capirsi, si chiama «Impeach the President», e tutti gli altri pezzi sono contro la guerra. A luglio, poi, Young partirà con i vecchi compagni Crosby, Stills e Nash, per un tour di concerti chiamato «Freedom of Speech '06», libertà di parola 2006. Tra i musicisti che alzano la voce, però, non ci sono solo i reduci della generazione sessantottina come i Rolling Stones. Le Dixie Chicks erano state le prime a criticare Bush, e ora insistono con «Not Ready to Make Nice». Le hanno seguite i Green Day, che hanno scalato le classifiche internazionali con «American Idiot», e ora i Pearl Jam con «World Wide Suicide». Il gruppo punk Anti-Flag si lamenta da anni, ma adesso al suo fianco ci sono pure Moby e Michael Stipe dei R.E.M., che hanno partecipato al concerto «Bring 'Em Home», riportate a casa i soldati. Persino Pink, la ragazzetta pop che sembrava avere un debole per Bush, ora lo attacca con «Dear Mr. President». Invece il nuovo profeta dell'hip hop, il nero Kayne West, si è scatenato per la gestione dei soccorsi dopo l'uragano Katrina.
Secondo il cantante degli Anti-Flag, Justin Sane, «all'inizio la gente aveva ignorato la guerra, ma ormai non si può più». Era capitato per la cronica apatia delle nuove generazioni, l'impatto emotivo dell'11 settembre, l'assenza della leva militare obbligatoria, il numero relativamento ridotto dei morti americani nel conflitto.
Ora però il sentimento nazionale è cambiato: negli ultimi sondaggi la popolarità di Bush è scesa al 32% e il 55% degli americani considera la guerra un errore, perciò anche i musicisti hanno preso nota. Il «fronte interno» fu quello che determinò la sconfitta in Vietnam, e una ventata di opposizione nella cultura pop potrebbe influenzare il futuro dell'intervento in Iraq.
La canzone di protesta che sta provocando più scandalo, però, non parla dell'Iraq. E' una versione dell'inno nazionale degli Stati Uniti, «Star-Spangled Banner», incisa in spagnolo da Wyclef Jean, Pitbull, Carlos Ponce e Olga Tanon. Lo hanno fatto su idea del produttore britannico Adam Kidron, per sostenere la rivolta contro le nuove leggi sull'immigrazione da parte dei latini, che il primo maggio vogliono bloccare gli Usa. Persino Bush ha reagito, dicendo che «l'inno va cantato in inglese», perché se la protesta diventasse una canzone non avrebbe più limiti.
Paolo Mastrolilli, La Stampa


E dopo il «dream concert» arriva l'incubo. L'anima in pena di Neil Young continua a giocare con la medaglia e il suo rovescio, ricordando tenacemente a tutti che la musica è vita, ovvero un urlo che a volte sprofonda nel dramma, che la voce è rantolo più che bel canto, che rock fa rima con country. Così dopo aver celebrato l'America rurale con Prairie Wind, uscito solo otto mesi fa, il cantautore torna nel mare agitato del rock con Living With War, album elettrico, sporco, graffiante, che gronda rabbia contro la guerra dalla prima all'ultima nota e dalla prima all'ultima parola. I testi sono semplici, quasi didascalici (in “Let's Impeach The President”, accompagnato da un coro di cento voci canta: «Incriminiamo il presidente per aver mentito e portato con l'inganno il nostro paese in guerra abusando del potere che gli abbiamo dato»; in “Looking For A Leader” chiede: «Cerchiamo un leader che riporti il paese a casa riunendo il rosso il bianco e il blu... Spero che ci ascolti, e che sia una donna o un nero... può darsi che sia Obama o Colin Powell a distinguere il bene dal male») ma interpretati con passione su chitarre distorte, basso e batteria (Rick Rosas e Chad Cromwell) durissimi e a tratti una tromba. Un disco pieno di energia, compatto e con buone ballate (“Shock And Awe”, “Flags Of Freedom”, “After The Garden”) anche se manca il colpo da ko di “Ohio”, il capolavoro che Young scrisse negli anni '70 dopo che quattro studenti furono uccisi dalla Guardia nazionale a un raduno per la pace. Una «protesta folk metal - come dice il cantautore - per discutere con gente che non la pensa come me».
Antonio Lodetti, Il Giornale


La storia raccontata in quest'album comincia in realtà alla fine, con il coro maestoso e malinconico di “America The Beautiful”: all'inizio di tutto l'America era quella, terra benedetta di «cieli spaziosi», «maestose montagne purpuree» e «onde di grano color dell'ambra». Cosa sia diventata nel tempo, e quanto veleno nel suo cuore, ce lo raccontano le cronache di ogni giorno. Qui un vecchio cantautore mai domo lo sottolinea con furore e amarezza in un disco ostinatamente disperatamente mono/tono, brandendo il tomahawk della sua indignazione alla traccia 1 e deponendolo solo all'ultima, quando appunto quella visione di «come eravamo».
Young ha solo la rabbia dalla sua, una lucida rabbia che gli fa urlare che il Presidente andrebbe processato, che la bandiera della Libertà è a brandelli, che la guerra è terrore e sconvolgimento, che l'America avrebbe bisogno di un capo che però non sta alla Casa Bianca, un capo forte e giusto - e cosa sarà dell'uomo quando l'ultimo palmo di terra sarà devastato e l'ultima goccia d'acqua avvelenata, after the garden? Il disco è una modulazione di questa rabbia, senza grandi idee musicali a sostenerlo: e poco importa sapere se queste idee Young le giudichi superflue in un'occasione come questa o proprio gli siano finite. Come in vecchio album di blues con le stesse frasi che ritornano e ritornano, così qui girano vecchie schiume hard rock e riff già sentiti, in tanti dischi Crazy Horse e non solo (“Flags Of Freedom”, per esempio, sembra appoggiarsi senza timore alla “Chimes Of Freedom” di Bob Dylan). Chad Cromwell batteria, Rick Rosas basso, Tommy Bray tromba, più un coro di cento voci: il resto è Young, tanto e senza freni.
Così alla fine non do voto, sarebbe imbarazzante. È un disco da giudicare con il cuore e la passione, e per quanti distinguo si possano fare va bene, va benissimo così. Mi piace che un signore di 61 anni abbia ancora tanta indignata energia in corpo: e che la memoria riconoscente lo porti a ringraziare nelle note Phil Ochs (e Dylan) «per l'ispirazione».
Riccardo Bertoncelli


In appena tre anni, gli ultimi, ha pubblicato tre album di studio (Greendale, Prairie Wind e Living With War), ha scritto e diretto un film (Greendale), ha incarnato il se stesso più naturale comparendo in scena per Jonathan Demme (Heart Of Gold) e ha approntato l'uscita di due nuovi dischi, una versione ampliata e mixata di Living With War e un live "ufficiale" dei Crazy Horse risalente al 1970. Si presume che per fare tanto un uomo debba quantomeno godere di buona salute. Manco per niente: appena un anno e mezzo fa, Young ha dovuto vedersela con un aneurisma, roba per cui gente normale interromperebbe qualsiasi attività (Bill Berry dei REM, per dire, vittima dello stesso colpo, ha lasciato la band). Serenità d'animo, almeno? Considerando quanto dolorosa sia stata la dipartita dell'adorato padre, l'ottantasettenne Scott, nemmeno quella. Allora, cosa? Una tempra d'acciaio, rodata in decine e decine di crash-test a furia di alcool, droghe, morti tragiche, malattie sue e malformazioni congenite dei suoi figli? Ecco, sì, forse è questo. È la sua stessa vita che ora gli sta restituendo le capacità psicofisiche di cui tanto ostinatamente per decenni ha cercato di privarlo. Lo Young iperattivo, forte, curioso e a suo modo lucido di oggi è la ricompensa per aver resistito. Si è piegato, qualche volta, ma si è sempre rialzato. Si è "perduto" a "inseguire tutti i sogni", ma si è sempre ritrovato. Per quanto ne sappiamo, potrebbe anche tentarci lo scherzo di campare fino a cent'anni. E fino a cent'anni potrebbe non smettere mai di parlare, di suonare e di apparire, pur con quel suo modo laconico e sfuggente che tanto a pennello gli sta addosso.
Nella ricompensa è compresa anche la libertà di fare un po' quel che vuole, si tratti di lasciarsi andare a un moto di sdegno o di organizzare un barbecue con gli amici. A non molti è concesso di registrare in una settimana un disco all'insaputa dei discografici a cui si è legati da un contratto, prendere la macchina e andare fino agli uffici della major e lasciare lì sul tavolo un master con su scritto "da pubblicare il prima possibile". È ciò che Young ha fatto, leggenda o no, lo scorso maggio con Living With War. Nella sua urgenza, il disco non poteva aspettare un'altra riunione di marketing. In realtà, poi non aspettò nemmeno di essere pubblicato, tant'è vero che lo si poteva ascoltare per intero dal sito ufficiale. Solo una goccia nell'oceano? Ok, può essere, ma è così stupido da credere che gli indecisi che hanno ascoltato "Let's Impeach The President" non abbiano poi votato Bush alle elezioni di novembre? L'oceano si fa a gocce, una dopo l'altra.
La protesta di Living With War era sì rabbiosa e istintiva, finanche sloganistica, ma quanto alle harmonies contava su un abbellimento di ben 100 voci. Young voleva che fosse la testimonianza di un'esperienza collettiva, come una piazza che scalpita, come quarant'anni fa ai tempi di "Ohio". Rilvelatrice, al proposito, una "Flags Of Freedom" che non fa mistero di riallacciare un legame con la stagione più fervida dei movimenti per la pace e i diritti civili: non solo cita scopertamente la "Chimes Of Freedom" di Bob Dylan nel titolo e nella melodia, oltre che nel respiro complessivo, ma si spinge fino a inserire nelle strofe versi come "blowin' in the wind", "church bells are ringin'" e "listenin' to Bob Dylan singin' in 1963". Private dei cori, questa e le altre protest songs si ripresentano nude nella nuova edizione di Living With War, che lo stesso Young definisce semplicemente raw. Come un gorgogliare di stomaco. [...]
Gianluca Testani e John Vignola, Mucchio Selvaggio 2006

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