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Life - Rassegna Stampa


Non tutti lo ricordano, forse, ma Neil Young è vivo, se non vitale, e ancora miagola le sue canzoni a quanti tra i suoi fedeli sono sopravvissuti all’ascolto delle sue ultime creazioni. Dell’incongruenza di quegli exploit (elettronica, e neanche della migliore, profusa a guarnizione delle sue melodie vetero-country) persino il caro Neil, naif fino al midollo, dev’essersi reso conto: tanto che in questo Life l’ambiente torna semiacustico, o al massimo elettrificato, country amabile o rock secco/spumante, tanto per non scontentare i palati dei suoi vecchi gourmet.
A dir la verità, d’incongruenze ne affiorano anche qui, quando Young si affida a ritmiche troppo sostenute e forti, o quando inserisce (con duplice anacronismo) un improbabile organo alla Mike Ratledge su un ostinato rock. Ma il livello medio delle composizioni e degli arrangiamenti è, se non nobile, perlomeno tollerabile: almeno per gli aficionados younghiani, tra i quali certo non possiamo annoverarci. Resta comunque un dubbio: dovendo proprio ascoltarci Neil Young, non conviene tornare a opere comunque più fresche, senza voler spillare energia ad un uomo che pare averla già spesa tutta? Non è proprio probabile che il futuro storiografo (ammesso che possa esistere) considererà tra gli ultimi fremiti del “tardo Neil Young” il Comes A Time di dieci anni fa? 
Paolo Bertrando, Buscadero 1987


L'atteso ritorno di Neil con i Crazy Horse si rivela un'altra delusione. L'album è ben lungi dalla brillantezza dei lavori degli anni settanta e solo in due canzoni ("Long Walk Home" e la lunga "Inca Queen") il canadese mostra di aver ancora grinta.
Pubblicato nel luglio '87, è l'ultimo disco del disastroso periodo per la Geffen. Quello che manca è il sound chitarristico tipico di Young e dei Crazy Horse: roccato, abbastanza involuto, inferiore a Reactor che, se non altro, aveva ancora parecchio feeling, Life sembra voler chiudere definitivamente il capitolo Young. 
Paolo Carù, Buscadero 1989


Attraverso la lunga carriera a volte altalenante di Neil Young l'unica costante sono stati i Crazy Horse. Nonostante tutte le sperimentazioni con country, techno, rockabilly, metal e qualunque altra cosa gli fosse passato per la testa, c'è sempre stato qualcosa di rassicurante nel rock solido fatto con la sua band abituale. Sono gli album fatti con i Crazy Horse il fulcro di un'imponente mole di lavoro. Life è il primo album di Neil Young & Crazy Horse da Re-ac-tor del 1981, ed ecco che si riafferma quell'energia, quell'alchimia che ha del magico e che si ritrova solo nel materiale Young/Crazy Horse. Anche quest'album non è scevro da sviamenti e stranezze come la stralunga “Inca queen” e i due inni di garage grunge che aprono il secondo lato, “Too lonely” e “Prisoners of rock' n' roll” in cui Young e soci suonano con un fervore e con uno spirito che contraddice la natura saltuaria della loro collaborazione. Ma del resto, che album di Neil Young sarebbe senza aberrazioni, specialmente quando enfatizzate al pari degli altri tratti distintivi come gli arrangiamenti approssimativi, i testi imbarazzanti e il fraseggio vocale?. “Long walk home” inizia proprio laddove finiva “After The Gold Rush”, il rock di “Cryin' eyes”, le ballate conclusive “When your lonely heart breaks” e “We never dance” si schierano a fianco delle migliori canzoni di Young. Perfino i brani dal sapore in qualche modo politico, per quanto politici possano essere i testi di una Rock-Star americana, come “Mideast vacation”, “Around the world” e “Long walk home” stanno in piedi con la forza della loro musica. Rabbia, vitalità giovanile e incontaminata tenerezza sono i linguaggi musicali di Life. Definirlo un ritorno vorrebbe dire, forse, liquidare brutalmente i quattro album che Young ha registrato per conto suo dopo Re-ac-tor, ma nel complesso rappresenta un lavoro più che onesto. 
Giuseppe Patané

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