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Il ritorno di Crosby: io, la mia famiglia e il rock (l'intervista di Repubblica, 2005)


"La musica più popolare negli Stati Uniti non riesce a comunicare niente, non parla di nulla, non è nulla"

Manca poco al concerto. In alto, su un'ampia terrazza che domina la sala dell'Auditorium di Roma (ultima tappa del minitour italiano con Graham Nash) dove tremila persone lo stanno aspettando come un messia, c'è un pullman attrezzato, di quelli dove si può vivere per giorni, con letti e impianti stereo. David Crosby è nel salottino, si alza, lentamente, ci viene incontro con la sua grande pancia, i bianchi capelli, gli enormi baffi che lo fanno assomigliare a un simpatico tricheco.

"Di che vuoi parlare?" ci dice con uno sguardo che trafigge, chiaro, limpidissimo, occhi abituati ai larghi orizzonti della California, quello stesso sguardo che ha riempito di visioni l'immaginario del rock. Fare rock, per uno che ha 64 anni, deve essere strano. O no? "E' bello, è grande, almeno per le tre ore nelle quali lo faccio". Ha una voce sottile, quasi infantile, a contrasto col suo volto da vecchio saggio della montagna. "Certo è più dura nelle altre 20 ore del giorno, perché non sono più un bambino. Ma questo è un grande gruppo e cantare con loro è bellissimo. E' la mia vita. La mia famiglia e la mia musica sono tutto quello che ho".

Nei concerti italiani qualcuno in prima fila piangeva a dirotto quando lei e Nash cantavate "Teach your children". Che effetto fa?
"Mi fa sentire bene. Il nostro scopo sopra ogni cosa è aiutare gli altri a sentire qualcosa".

Lei ha cantato di una musica che voleva cambiare il mondo. E oggi? La musica può ancora aiutare il mondo a cambiare?
"Speriamo. Ora però la musica più popolare negli Stati Uniti non parla di nulla, non è nulla. Non ha la capacità di comunicare gioia o qualcosa di buono, al massimo riesce a comunicare rabbia, risentimento e paura. E di queste cose ne abbiamo già abbastanza, grazie. E' triste perché la musica potrebbe avere un forte impatto sulla società. Per quanto mi riguarda la gente che esce dai nostri concerti va via sentendosi bene, molto bene. Almeno siamo in grado di contribuire, di fare qualcosa nelle loro vite".

Quali sono stati i momenti più importanti della sua carriera?
"Ce ne sono stati tanti. Di solito i giornalisti ci chiedono di Woodstock, pensano che quello sia stato il momento decisivo. Ma non è così. Per me la cosa più importante della vita è stata incontrare Graham Nash e cantare con lui la prima volta. Come scoprire Joni Mitchell, ancora sconosciuta, che cantava in un locale, oppure incontrare mio figlio James, suonare con lui la prima volta. Quello è stato davvero un momento incredibile perché lui è veramente un musicista fantastico. E io sono suo padre, è meraviglioso. I momenti più importanti sono quando alcune persone sono entrate nella mia vita e c'è stata subito magia".

Quali sono i musicisti che più l'hanno ispirata?
"Graham sopra tutti, mio figlio James, Michael Hedges, lui mi ha completamente fatto esplodere il cervello. E poi Miles Davis, John Coltrane. Miles una volta è venuto da me e mi ha detto: "Hey sono Miles Davis" e io gli ho detto "... Sì... lo so chi sei tu". Comunque è stato uno dei miei eroi. Come eroe c'è sicuramente Hendrix, e di lui ancora penso sia un intoccabile".

E' vera la leggenda secondo la quale il pezzo dei Byrds "Eight Miles High" era dedicato a John Coltrane?
"Sì non è una leggenda. Quello che è successo è questo: stavo ascoltando l'album di Coltrane "Africa Brass" e lo suonavo in continuazione per Roger McGuinn e l'effetto fu che quando andammo a registrare il pezzo iniziò lui a suonare come John Coltrane. Ecco da dove arriva quel solo".

E i Beatles?
"Oh sì, loro mi hanno condizionato più di tutti gli altri. Quando ho visto "Hard Day's Night", anzi anche prima quando ho sentito "Meet The Beatles" (la versione americana di "With the Beatles" n. d. r.) ero ancora un cantante folk e mi sono detto: "Non si può fare questo! Oh mio Dio, l'hanno fatto...! Ma come hanno fatto!?". E da quel momento volevo fare la stessa cosa".

Non è triste pensare che oggi nessuno sia in grado di fare altrettanto?
"Sì, so cosa vuol dire. Ora bisogna suonare jazz per poter incontrare altri veri musicisti, gente che vuole suonare vera musica. Il pop non lo fa più, si basa soprattutto sull'apparire. E' colpa di Mtv e Vh1. Quando sono nati questi canali abbiamo pensato tutti: "Grande! Ora le nostre canzoni saranno ancora più forti, più potenti e belle!". E invece non è stato così. In pochissimo tempo tutto è cambiato, invece di essere un'esperienza musicale è diventata un'esperienza teatrale, e improvvisamente è diventato importante solo l'apparire. Per questo ora c'è tutta questa gente che non sa scrivere, non sa cantare, non sa parlare. Gente che si limita a mettere il nastro e a ballare. E' un trucco, questi non hanno niente da dire a nessuno. Non vogliono comunicare, vogliono solo far vedere quanto sono carini".

E invece lei ha partecipato alla campagna a favore di Kerry...
"Ecco! Guarda chi ha partecipato! Non hai visto Britney Spears lì, o Justin Timberlake. C'erano James Taylor e Bruce Springsteen e i REM. Gente che sta cercando di dire qualcosa. E Bonnie Raitt, probabilmente una delle migliori cantanti del mondo, e Jackson Browne. Comunque artisti che hanno un'esperienza di vita, qualcosa da scrivere".

Tornerà in Italia in trio con Nash e Stills come si vocifera?
"Quasi certamente nella prima settimana di luglio. L'Italia è la nazione europea che preferisco in assoluto e gli italiani sono gli unici che capiscono la leggerezza della vita e sanno divertirsi più di tutti gli altri europei messi insieme".

Grazie signor Crosby, e buon concerto...
"No, un momento, ancora una domanda".

Qual è la cosa più importante nella sua vita?
"L'amore".

Così un po' generico...
"L'amore che attraversa tutta la vita. Da quello per i tuoi genitori all'inizio, passando per quello verso te stesso, fino a quello per la tua donna. Ma l'amore più importante per me adesso, è quello per la famiglia. Mi mancano i miei piccoli ragazzi e mi manca terribilmente mia moglie. La loro assenza è la cosa più difficile da affrontare quando sono in giro. Se non sentissi di essere nato per far questo e se non sentissi sinceramente che questo è ciò che devo fare, non sarei capace di lasciare casa".

Gino Castaldo, Repubblica 12 marzo 2005

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