Sleeps With Angels - Gli articoli di Buscadero
Neil Young è unico. Da quando ha deciso di tornare a fare musica vera, più o meno dal 1989, ha infilato una serie di dischi tanto diversi quanto affascinanti ed estroversi: Freedom, Ragged Glory, Weld, Harvest Moon, Unplugged ed ora Sleeps With Angels.
Neil Young è unico, questo lo sapevamo già, unico e non affidabile (in senso strettamente musicale): se tu ti aspetti un disco fatto in un dato modo, puoi giurarci che lui farà tutt’altro. Sleeps With Angels è un disco spiazzante: non ha nulla in comune con quanto il canadese ha fatto negli ultimi anni. Ci sono sprazzi del suo classico country rock, ci sono dei feedback alla fine di qualche canzone, ci sono delle ballate tipiche e persino alcune jam che rammentano il periodo di Everybody Knows This Is Nowhere: ma tutto questo microcosmo younghiano ha un sapore diverso.
Se vogliamo trovare un punto di partenza rivolgiamoci a “Philadelphia” la tristissima composizione che il canadese ha regalato al film di Jonathan Demme: una ballata struggente e sofferta dove il pianoforte regna sovrano. Ed il pianoforte, a coda eppure verticale, è tra i protagonisti di questo album.
Sleeps With Angels sfugge ad ogni classificazione: ci presenta un’ora di musica densa e sofferta, interiore e molto triste, con composizioni splendide e canzoni “diverse”, con la voce spesso in secondo piano, nascosta dietro alle chitarre, quasi filtrate (niente vocoder, tranquilli): come se l’autore volesse celare la propria vocalità dietro ad impasti sonori non sempre equilibrati. Sleeps è un lavoro molto bello, cresce ascolto dopo ascolto, talvolta è splendido, coinvolgente, come nella parte centrale che congloba le composizioni più dilatate (dai 14 ed oltre di “Change your mind” ai sei abbondanti di “Blue eden” e “Safeway cart”), talvolta è tetro, come nelle canzoni che aprono e chiudono il disco, talvolta è lineare, quasi “normale”, come in “Western hero” e “Train of love”, talvolta è duro e violento come ci rammenta “Piece of crap” o, addirittura, la stessa “Sleeps With Angels”. Adesso che vi ho confuso abbastanza, ecco il disco, canzone per canzone.
“My heart” è spiazzante: voce e piano verticale, è una composizione tristissima, musicalmente glabra.
“Prime of life”, dove campeggia un flauto che ben si compendia alla voce soffusa del protagonista, è un racconto malinconico, con la sezione ritmica e la chitarra elettrica che entrano di soppiatto.
“Driveby” ricorda molto “Journey through the past” o certe cose di After The Gold Rush: il pianoforte, che ripete un motivo molto memorizzabile, domina incontrastato.
“Sleeps With Angels” sembra un demo buttato giù in fretta: è molto elettrica (al contrario di quanto potrebbe far pensare il titolo), il basso è distorto e la voce decisamente in secondo piano, nascosta sia dalla chitarra che dal basso stesso.
“Western hero” ha un andamento country: è una ballata d’effetto, nella tipologia classica younghiana. Il pianoforte è sempre in grande evidenza, una fisarmonica lancia melodie in sottofondo e, alla fine, una breve distorsione di chitarra ci riporta sulla terra.
“Change your mind” è, a mio parere, il capolavoro del disco. Dura 14.40 ed è certamente la canzone più lunga mai messa su disco dal canadese: si snoda attraverso una melodia orecchiabile (la ha suonata anche l’anno scorso a Milano, ma in versione molto diversa e più breve) e nella parte centrale continene una jam strumentale che dura almeno 7/8 minuti. Intro di chitarra tipico, voce in sottofondo nascosta dal muro di suoni (Crazy Horse: Frank Sampedro, Ralph Molina e Billy Talbot) della sezione ritmica: la chitarra traccia un assolo geniale e ci inoltriamo, dopo un ritornello ricorrente (“Protecting you, restoring you, revealing you, soothing you” a cui viene rispoto “Change your mind”) in una jam strumentale languida e distorta, costantemente in crescendo, con il ritorno alla normalità, quindi la voce, in un finale etereo.
“Blue eden” è costituita da un giro di blues: la voce, stentata, è sempre nascosta, ed il testo è stato creato in funzione della musica.
“Safeway cart”: è un’altra lunga composizione con basso e batteria quasi fuori squadra, mentre un piano liquido introduce la melodia e la voce segue, triste e sommessa. Un flauto appena accennato ed una chitarra estraniata ci fanno assaporare una musicalità quasi etnica: mentre il basso, che fa da assoluto padrone, arriva a tracciare la linea melodica.
“Train of love”: si chiude il periodo delle canzoni lunghe ed introverse, si torna alla luce. Questa composizione ha delle forti analogie con la melodia di “Western hero”: è lenta e cadenzata, ha il pianoforte in netta evidenza, mentre la ritmica è appena accennata.
“Trans am”: forse il brano che mi piace meno. La voce è quasi filtrata, il suono è strano, non è nitido: Neil racconta e la canzone, lentamente, prende corpo.
“Piece of crap”: elettrica e sporca, quasi punk, è dura e sfilacciata ed è il singolo apripista del disco. A conferma della stranezza dell’autore, questo brano non è certamente il più adatto a rappresentare il disco: i Crazy Horse picchiano duro e la voce sta sempre in secondo piano.
“A dream that can last” conclude il viaggio. È passata un’ora da quando abbiamo iniziato ad ascoltare questo album e questo “sogno che può durare” chiude il cerchio: un piano verticale, un tamburo e la voce. Niente di più, canzone spoglia, chiaramente fuori schema e fuori moda.
Sleeps With Angels è un disco strano ed affascinante, atipico e diverso, ma, comunque lo si prenda o lo si accetti, rimane un grande disco: lucido, profondo, tagliente, fortemente caratterizzato. Sembra una via di mezzo fra l’incertezza voluta di On The Beach e il furore compositivo di Zuma.
Neil Young è unico.
Paolo Carù, Buscadero 1994
Neil Young è unico, questo lo sapevamo già, unico e non affidabile (in senso strettamente musicale): se tu ti aspetti un disco fatto in un dato modo, puoi giurarci che lui farà tutt’altro. Sleeps With Angels è un disco spiazzante: non ha nulla in comune con quanto il canadese ha fatto negli ultimi anni. Ci sono sprazzi del suo classico country rock, ci sono dei feedback alla fine di qualche canzone, ci sono delle ballate tipiche e persino alcune jam che rammentano il periodo di Everybody Knows This Is Nowhere: ma tutto questo microcosmo younghiano ha un sapore diverso.
Se vogliamo trovare un punto di partenza rivolgiamoci a “Philadelphia” la tristissima composizione che il canadese ha regalato al film di Jonathan Demme: una ballata struggente e sofferta dove il pianoforte regna sovrano. Ed il pianoforte, a coda eppure verticale, è tra i protagonisti di questo album.
Sleeps With Angels sfugge ad ogni classificazione: ci presenta un’ora di musica densa e sofferta, interiore e molto triste, con composizioni splendide e canzoni “diverse”, con la voce spesso in secondo piano, nascosta dietro alle chitarre, quasi filtrate (niente vocoder, tranquilli): come se l’autore volesse celare la propria vocalità dietro ad impasti sonori non sempre equilibrati. Sleeps è un lavoro molto bello, cresce ascolto dopo ascolto, talvolta è splendido, coinvolgente, come nella parte centrale che congloba le composizioni più dilatate (dai 14 ed oltre di “Change your mind” ai sei abbondanti di “Blue eden” e “Safeway cart”), talvolta è tetro, come nelle canzoni che aprono e chiudono il disco, talvolta è lineare, quasi “normale”, come in “Western hero” e “Train of love”, talvolta è duro e violento come ci rammenta “Piece of crap” o, addirittura, la stessa “Sleeps With Angels”. Adesso che vi ho confuso abbastanza, ecco il disco, canzone per canzone.
“My heart” è spiazzante: voce e piano verticale, è una composizione tristissima, musicalmente glabra.
“Prime of life”, dove campeggia un flauto che ben si compendia alla voce soffusa del protagonista, è un racconto malinconico, con la sezione ritmica e la chitarra elettrica che entrano di soppiatto.
“Driveby” ricorda molto “Journey through the past” o certe cose di After The Gold Rush: il pianoforte, che ripete un motivo molto memorizzabile, domina incontrastato.
“Sleeps With Angels” sembra un demo buttato giù in fretta: è molto elettrica (al contrario di quanto potrebbe far pensare il titolo), il basso è distorto e la voce decisamente in secondo piano, nascosta sia dalla chitarra che dal basso stesso.
“Western hero” ha un andamento country: è una ballata d’effetto, nella tipologia classica younghiana. Il pianoforte è sempre in grande evidenza, una fisarmonica lancia melodie in sottofondo e, alla fine, una breve distorsione di chitarra ci riporta sulla terra.
“Change your mind” è, a mio parere, il capolavoro del disco. Dura 14.40 ed è certamente la canzone più lunga mai messa su disco dal canadese: si snoda attraverso una melodia orecchiabile (la ha suonata anche l’anno scorso a Milano, ma in versione molto diversa e più breve) e nella parte centrale continene una jam strumentale che dura almeno 7/8 minuti. Intro di chitarra tipico, voce in sottofondo nascosta dal muro di suoni (Crazy Horse: Frank Sampedro, Ralph Molina e Billy Talbot) della sezione ritmica: la chitarra traccia un assolo geniale e ci inoltriamo, dopo un ritornello ricorrente (“Protecting you, restoring you, revealing you, soothing you” a cui viene rispoto “Change your mind”) in una jam strumentale languida e distorta, costantemente in crescendo, con il ritorno alla normalità, quindi la voce, in un finale etereo.
“Blue eden” è costituita da un giro di blues: la voce, stentata, è sempre nascosta, ed il testo è stato creato in funzione della musica.
“Safeway cart”: è un’altra lunga composizione con basso e batteria quasi fuori squadra, mentre un piano liquido introduce la melodia e la voce segue, triste e sommessa. Un flauto appena accennato ed una chitarra estraniata ci fanno assaporare una musicalità quasi etnica: mentre il basso, che fa da assoluto padrone, arriva a tracciare la linea melodica.
“Train of love”: si chiude il periodo delle canzoni lunghe ed introverse, si torna alla luce. Questa composizione ha delle forti analogie con la melodia di “Western hero”: è lenta e cadenzata, ha il pianoforte in netta evidenza, mentre la ritmica è appena accennata.
“Trans am”: forse il brano che mi piace meno. La voce è quasi filtrata, il suono è strano, non è nitido: Neil racconta e la canzone, lentamente, prende corpo.
“Piece of crap”: elettrica e sporca, quasi punk, è dura e sfilacciata ed è il singolo apripista del disco. A conferma della stranezza dell’autore, questo brano non è certamente il più adatto a rappresentare il disco: i Crazy Horse picchiano duro e la voce sta sempre in secondo piano.
“A dream that can last” conclude il viaggio. È passata un’ora da quando abbiamo iniziato ad ascoltare questo album e questo “sogno che può durare” chiude il cerchio: un piano verticale, un tamburo e la voce. Niente di più, canzone spoglia, chiaramente fuori schema e fuori moda.
Sleeps With Angels è un disco strano ed affascinante, atipico e diverso, ma, comunque lo si prenda o lo si accetti, rimane un grande disco: lucido, profondo, tagliente, fortemente caratterizzato. Sembra una via di mezzo fra l’incertezza voluta di On The Beach e il furore compositivo di Zuma.
Neil Young è unico.
Paolo Carù, Buscadero 1994
Capita raramente di trovarsi di fronte a dischi che chiedono una marcia in più alla nostra attenzione. Sleeps With Angels a meno di due anni da Harvest Moon è certamente uno di questi. Young ancora una volta si propone con un album difficile, dopo le concessioni fatte con la pubblicazione di Unplugged, antologia acustica.
Ma chi davvero “riposa con gli angeli”? Neil Young o, molto probabilmente, qualcuno come Kurt Cobain? Parecchie cose fanno pensare al talento dei Nirvana scomparso lo scorso aprile, cose come il tappeto sonoro della title track con la voce in sottofondo mentre una batteria soffocante si avvinghia alla crudezza elettrica che il vecchio bisonte ha insegnato alle generazioni punk: “Lei faceva succedere le cose / Ma quella era quando lui lo fece / Lei fece salire le bollette del telefono / Cercando di città in città (troppo tardi) / Lui riposa con gli angeli (troppo presto) / È sempre nella mente di qualcuno”.
Ma aldilà della possibile dedica a Cobain, vista la recente rinuncia a “My my, hey hey” brano dal quale si leggeva un famoso verso nella nota d’addio del ragazzo di Aberdeen, questo Sleeps With Angels è un disco di desolazione e tristezza, segno di chi si avvicina ai 50 anni con la lucidità interiore di un uomo saturo animato da uno spirito vicino al mondo reale. La musica è bella. Alcune canzoni compongono il nocciolo dell’opera e da sole totalizzano la lunghezza di un album. Sono le tracce che vanno da “Western hero”, ballata country vicina alle ultime cose, a “Train of love”, musica uguale ma titolo e liriche diverse. Il climax di questi cinque brani è “Change your mind”: sono 14’40 di epica younghiana, la cosa più lunga mai apparsa su un disco ufficiale del canadese. Nei quasi 63 minuti dell’album tutto funziona come le scatole cinesi: quando all’inizio si sentono “My heart”, “Prime of life” e “Driveby” entrare dalla porta di “Western hero” disorienta non poco. Ma una volta giunti alla fine si capisce bene che “Trans am”, “Piece of crap” (il singolo punk-rock) e “A dream that can last” (titolo ottimista, comunque), il viaggio ai confini della luce ha un senso circolare e compiuto. Diversamente da Freedom o Rust Never Sleeps non c’è una canzone tema a circoscrivere l’errare di Young, ma un immaginario lirico e interiore che si svolge fuori da ogni dimensione. Si parte dal crepuscolo e la tristezza malinconica, quasi piacevole, di quelle canzoni acustiche messe al punto giusto serve per portarci nel lungo magma che sta al cuore di “Change your mind”, una jam chitarristica di nove minuti con la voce che interviene solo per un attimo.
La voce, questa (s)conosciuta. La voce che Young eredita da “Philadelphia”, la struggente ballata che chiudeva l’omonimo film di Jonathan Demme, è quella che aleggia in tutta l’opera, la stessa ugola che si tuffa nel finale di questa lunga cavalcata per aprire, con le stesse frasi, “Blue eden”, uno sporco blues cattivo, moderno e inquietante. Forse la composizione più bella è quella che sta nel cuore della notte younghiana, “Safeway cart”. Un brano decisamente diverso da tutto quello che Neil ci ha sino ad oggi proposto, con un basso asciutto ma pulsante, capace di ritmare questa dimensione onirica.
In Sleeps With Angels Neil Young attua una forma di approfondimento psicologico affidato alla sola musica, poiché i testi sono spesso ermetici e volutamente approssimati; tuttavia la figura dell’eroe rimane in tutta la sua arrogante fragilità (“Aprire il fuoco / Arriva l’eroe occidentale / Se ne sta lì con quei gran soldi in mano / Stai sicuro, era un eroe occidentale, stanne certo”) mentre la forza dell’amore come arteria vitale di scorrimento della vita privata è una forza chiave. “Quando sei debole ed hai bisogno di mettere alla prova la tua volontà \ Quando la vita è completa ma ancora ti manca qualcosa \ Chi ti distrae da questo deve essere la persona che sai” (“Change your mind”).
Buffa anche la presenza di un singolo che nulla ha a che fare con il resto del disco: “Piece of crap” (“Una stronzata”) è il singolo che rimette in fila i nipotini: “Sto cercando di salvare gli alberi \ L’ho visto in TV \ Distruggono la foresta \ Per costruire una stronzata \ Sono tornato al negozio \ Me ne hanno dati altri quattro \ Sulla porta il tipo mi ha detto \ È una stronzata”.
Chi sa Neil Young dov’è adesso mentre queste righe terminano: sarà uscito dal buio del “paradiso blu”, sarà entrato in una “valle dei cuori”? Sarà sempre impossibile dirlo. Per questo è così grande nella sua ricca semplicità di poeta delle sei corde.
Davide Sapienza, Buscadero 1994
Ma chi davvero “riposa con gli angeli”? Neil Young o, molto probabilmente, qualcuno come Kurt Cobain? Parecchie cose fanno pensare al talento dei Nirvana scomparso lo scorso aprile, cose come il tappeto sonoro della title track con la voce in sottofondo mentre una batteria soffocante si avvinghia alla crudezza elettrica che il vecchio bisonte ha insegnato alle generazioni punk: “Lei faceva succedere le cose / Ma quella era quando lui lo fece / Lei fece salire le bollette del telefono / Cercando di città in città (troppo tardi) / Lui riposa con gli angeli (troppo presto) / È sempre nella mente di qualcuno”.
Ma aldilà della possibile dedica a Cobain, vista la recente rinuncia a “My my, hey hey” brano dal quale si leggeva un famoso verso nella nota d’addio del ragazzo di Aberdeen, questo Sleeps With Angels è un disco di desolazione e tristezza, segno di chi si avvicina ai 50 anni con la lucidità interiore di un uomo saturo animato da uno spirito vicino al mondo reale. La musica è bella. Alcune canzoni compongono il nocciolo dell’opera e da sole totalizzano la lunghezza di un album. Sono le tracce che vanno da “Western hero”, ballata country vicina alle ultime cose, a “Train of love”, musica uguale ma titolo e liriche diverse. Il climax di questi cinque brani è “Change your mind”: sono 14’40 di epica younghiana, la cosa più lunga mai apparsa su un disco ufficiale del canadese. Nei quasi 63 minuti dell’album tutto funziona come le scatole cinesi: quando all’inizio si sentono “My heart”, “Prime of life” e “Driveby” entrare dalla porta di “Western hero” disorienta non poco. Ma una volta giunti alla fine si capisce bene che “Trans am”, “Piece of crap” (il singolo punk-rock) e “A dream that can last” (titolo ottimista, comunque), il viaggio ai confini della luce ha un senso circolare e compiuto. Diversamente da Freedom o Rust Never Sleeps non c’è una canzone tema a circoscrivere l’errare di Young, ma un immaginario lirico e interiore che si svolge fuori da ogni dimensione. Si parte dal crepuscolo e la tristezza malinconica, quasi piacevole, di quelle canzoni acustiche messe al punto giusto serve per portarci nel lungo magma che sta al cuore di “Change your mind”, una jam chitarristica di nove minuti con la voce che interviene solo per un attimo.
La voce, questa (s)conosciuta. La voce che Young eredita da “Philadelphia”, la struggente ballata che chiudeva l’omonimo film di Jonathan Demme, è quella che aleggia in tutta l’opera, la stessa ugola che si tuffa nel finale di questa lunga cavalcata per aprire, con le stesse frasi, “Blue eden”, uno sporco blues cattivo, moderno e inquietante. Forse la composizione più bella è quella che sta nel cuore della notte younghiana, “Safeway cart”. Un brano decisamente diverso da tutto quello che Neil ci ha sino ad oggi proposto, con un basso asciutto ma pulsante, capace di ritmare questa dimensione onirica.
In Sleeps With Angels Neil Young attua una forma di approfondimento psicologico affidato alla sola musica, poiché i testi sono spesso ermetici e volutamente approssimati; tuttavia la figura dell’eroe rimane in tutta la sua arrogante fragilità (“Aprire il fuoco / Arriva l’eroe occidentale / Se ne sta lì con quei gran soldi in mano / Stai sicuro, era un eroe occidentale, stanne certo”) mentre la forza dell’amore come arteria vitale di scorrimento della vita privata è una forza chiave. “Quando sei debole ed hai bisogno di mettere alla prova la tua volontà \ Quando la vita è completa ma ancora ti manca qualcosa \ Chi ti distrae da questo deve essere la persona che sai” (“Change your mind”).
Buffa anche la presenza di un singolo che nulla ha a che fare con il resto del disco: “Piece of crap” (“Una stronzata”) è il singolo che rimette in fila i nipotini: “Sto cercando di salvare gli alberi \ L’ho visto in TV \ Distruggono la foresta \ Per costruire una stronzata \ Sono tornato al negozio \ Me ne hanno dati altri quattro \ Sulla porta il tipo mi ha detto \ È una stronzata”.
Chi sa Neil Young dov’è adesso mentre queste righe terminano: sarà uscito dal buio del “paradiso blu”, sarà entrato in una “valle dei cuori”? Sarà sempre impossibile dirlo. Per questo è così grande nella sua ricca semplicità di poeta delle sei corde.
Davide Sapienza, Buscadero 1994