Crosby & Nash a Roma, 2011: un articolo di Ernesto Assante
di Ernesto Assante, Repubblica
Il pezzo che state per leggere non è un semplice articolo
di recensione di un concerto. E’ una confessione, uno sfogo, un analisi. E
anche una recensione, in fondo. Lo spunto è il concerto di David Crosby e
Graham Nash al Teatro Sistina di Roma, concerto conclusivo di un tour europeo
di sei settimane che ha visto i due musicisti esibirsi con successo in
Inghilterra, Francia, Germania, e che avrà una coda al Beacon Theatre di New
York per tre serate da domenica a martedì.
Vecchi ?
Sgombriamo il campo da un equivoco che, francamente, ci ha abbondantemente stufato: Crosby e Nash, anche se anagraficamente sono in un età piuttosto avanzata (Crosby ha compiuto settant’anni ad agosto, Nash li compirà il prossimo febbraio), non sono “vecchi”. Di “vecchio” nel loro show, nella loro musica, non c’è nulla. Non c’è niente che sia semplice memoria del passato, nulla che suoni stantio. Vecchio è quello che resta a prendere polvere sugli scaffali della memoria, la musica di Crosby e Nash (ma anche quella che i due hanno composto e inciso con Stephen Stills e Neil Young nel corso degli anni) è invece viva, forte, appassionata, rinvigorita da innumerevoli tour, concerti, manifestazioni, alle quali i due cantautori continuano costantemente a partecipare. Vecchio è chi pensa di non avere più nulla da dire, chi pensa di non avere più alcun futuro. Crosby e Nash hanno ancora molto da dire, utilizzando brani scritti dieci, venti, trenta o quaranta anni fa, e canzoni recentissime, mettendo insieme le loro spettacolari voci. Vecchio è chi, magari avendo solo venti o trent’anni, nella musica si limita a fare un mestiere invece di praticare l’arte, chi suona e canta senza passione, chi imita invece di inventare. Vecchio è chi pensa che il rock sia roba da museo. E può essere anche vero che gran parte del repertorio che i due presentano in concerto è “classica”, che gran parte del pubblico arrivi ad assistere al concerto proprio per riascoltare i “classici”, così come si va al Louvre o agli Uffizi, ma è altrettanto vero che l’esperienza di andare al Louvre o agli Uffizi non è certo fatta solo per chi ha passato la cinquantina, godere della bellezza o dell’arte è un esperienza che non ha limiti d’età, verso l’alto o il basso. E poi, per dirla tutta, la “gioventù” non è una garanzia di qualità, d’impegno o di passione, ed è altrettanto vero che gli artisti venuti dopo non eliminano quelli venuti prima: non è che l’arrivo di Picasso abbia cancellato Leonardo, insomma.
Sgombriamo il campo da un equivoco che, francamente, ci ha abbondantemente stufato: Crosby e Nash, anche se anagraficamente sono in un età piuttosto avanzata (Crosby ha compiuto settant’anni ad agosto, Nash li compirà il prossimo febbraio), non sono “vecchi”. Di “vecchio” nel loro show, nella loro musica, non c’è nulla. Non c’è niente che sia semplice memoria del passato, nulla che suoni stantio. Vecchio è quello che resta a prendere polvere sugli scaffali della memoria, la musica di Crosby e Nash (ma anche quella che i due hanno composto e inciso con Stephen Stills e Neil Young nel corso degli anni) è invece viva, forte, appassionata, rinvigorita da innumerevoli tour, concerti, manifestazioni, alle quali i due cantautori continuano costantemente a partecipare. Vecchio è chi pensa di non avere più nulla da dire, chi pensa di non avere più alcun futuro. Crosby e Nash hanno ancora molto da dire, utilizzando brani scritti dieci, venti, trenta o quaranta anni fa, e canzoni recentissime, mettendo insieme le loro spettacolari voci. Vecchio è chi, magari avendo solo venti o trent’anni, nella musica si limita a fare un mestiere invece di praticare l’arte, chi suona e canta senza passione, chi imita invece di inventare. Vecchio è chi pensa che il rock sia roba da museo. E può essere anche vero che gran parte del repertorio che i due presentano in concerto è “classica”, che gran parte del pubblico arrivi ad assistere al concerto proprio per riascoltare i “classici”, così come si va al Louvre o agli Uffizi, ma è altrettanto vero che l’esperienza di andare al Louvre o agli Uffizi non è certo fatta solo per chi ha passato la cinquantina, godere della bellezza o dell’arte è un esperienza che non ha limiti d’età, verso l’alto o il basso. E poi, per dirla tutta, la “gioventù” non è una garanzia di qualità, d’impegno o di passione, ed è altrettanto vero che gli artisti venuti dopo non eliminano quelli venuti prima: non è che l’arrivo di Picasso abbia cancellato Leonardo, insomma.
Attuali
Il concerto di Crosby & Nash, quindi, non sa di muffa. E non solo perché i
due cantano e suonano con passione ed energia, ma soprattutto perché il repertorio,
per quanto datato, non è stantio. Voglio dire che i temi, gli argomenti, la
materia che trattano i due grandi cantautori, sono ancora in gran parte di
straordinaria attualità. Lo è certamente Military madness di Nash, lo è Wooden
Ships di Crosby, tanto per citarne due, che parlano ancora di noi, del nostro
mondo, della nostra realtà, perché essendo canzoni universali non rispondono
solo ad un epoca, ma provano a raccontare, a commentare, a criticare, la vita e
la realtà in generale. Nash soprattutto è riuscito nel corso degli anni ad
avere un atteggiamento “impegnato” nelle sue canzoni e nei suoi tour, al quale
non è mai venuto meno. E non a caso, quindi, può permettersi di mettere una
accanto all’altra canzoni scritte molto tempo fa come “Cathedral” e brani più
recenti come “In your name”, entrambe sul tema della religione e entrambe
attuali. E Crosby quando intona “They want it all” parla chiaramente (il brano
è del 2004) di chi in questi mesi, in questi anni, gioca con la crisi economica
pensando ai propri profitti e può tranquillamente cantare subito prima “What
are their names”, che più di quarant’anni fa chiedeva di sapere i nomi di
quelli che governavano davvero il mondo. Solo chi è sordo può non sentire, solo
chi non vuole capire non capirà. E c’è poco da fare, sono pochi, pochissimi gli
artisti contemporanei che sanno trattare queste materie nello stesso modo, che
trattano queste materie. A protestare sono pochi, è il pop che domina il mondo,
e non ci sono “giovani” che abbiano saputo raccontare i nostri giorni con la
forza, la passione, l’originalità, l’impegno con il quale Crosby e Nash (ma
anche Neil Young per essere onesti) continuano oggi.
Il pubblico
Si può parlare male del pubblico? Beh, forse sarebbe il caso di farlo. Al concerto romano, al Teatro Sistina, erano molti i posti vuoti. E l’età media dei presenti era abbastanza elevata. Ragazzi pochi, pochissimi. Ed è un peccato. Anzi, una follia. Perché è incredibile, francamente, che non ci siano almeno duemila persone (e stiamo parlando sempre di numeri assurdamente piccoli) in una città da cinque milioni e più di abitanti, disposte a pagare un biglietto, per quanto salato, per assistere a un concerto di David Crosby e Graham Nash. E’ il luogo comune a dominare nella nostra scena culturale, anzi la somma di più luoghi comuni. Il primo, il più forte e difficile da scuotere, è quello dell’età, troppo vecchi David e Graham, bolliti, ripetitivi, in grado di scuotere al massimo le stampelle, quindi da lasciar perdere. Il secondo è che il repertorio, rock in particolare, sia ormai adatto solo agli “over cinquanta” e che la “musica di oggi” sia per forza altra. Nessuno dei due è vero, ma basta passarsi la voce, darsi di gomito, dire sorridendo che chi va a vedere Crosby & Nash è al massimo un “vecchio fricchettone”, perché tutto sembri vero. Il pubblico diserta, i giovani preferiscono affollare la sala dove si “esibisce” Hardwell. Non c’è nulla di male, ovviamente, non c’è niente di sbagliato, nell’ascoltare, apprezzare, amare Hardwell, ma mentre quest’ultimo potrà al massimo offrire divertimento, magari anche arte, legata al rapido cambiare del vento, la musica di Crosby & Nash la ascolteremo ancora per qualche decina di anni, e su questo accetto scommesse (mi piace vincere facile, come recita un recente spot pubblicitario….).
Si può parlare male del pubblico? Beh, forse sarebbe il caso di farlo. Al concerto romano, al Teatro Sistina, erano molti i posti vuoti. E l’età media dei presenti era abbastanza elevata. Ragazzi pochi, pochissimi. Ed è un peccato. Anzi, una follia. Perché è incredibile, francamente, che non ci siano almeno duemila persone (e stiamo parlando sempre di numeri assurdamente piccoli) in una città da cinque milioni e più di abitanti, disposte a pagare un biglietto, per quanto salato, per assistere a un concerto di David Crosby e Graham Nash. E’ il luogo comune a dominare nella nostra scena culturale, anzi la somma di più luoghi comuni. Il primo, il più forte e difficile da scuotere, è quello dell’età, troppo vecchi David e Graham, bolliti, ripetitivi, in grado di scuotere al massimo le stampelle, quindi da lasciar perdere. Il secondo è che il repertorio, rock in particolare, sia ormai adatto solo agli “over cinquanta” e che la “musica di oggi” sia per forza altra. Nessuno dei due è vero, ma basta passarsi la voce, darsi di gomito, dire sorridendo che chi va a vedere Crosby & Nash è al massimo un “vecchio fricchettone”, perché tutto sembri vero. Il pubblico diserta, i giovani preferiscono affollare la sala dove si “esibisce” Hardwell. Non c’è nulla di male, ovviamente, non c’è niente di sbagliato, nell’ascoltare, apprezzare, amare Hardwell, ma mentre quest’ultimo potrà al massimo offrire divertimento, magari anche arte, legata al rapido cambiare del vento, la musica di Crosby & Nash la ascolteremo ancora per qualche decina di anni, e su questo accetto scommesse (mi piace vincere facile, come recita un recente spot pubblicitario….).
Una recensione
David Crosby e Graham Nash hanno offerto a Roma quasi due ore e mezza di
concerto, una strepitosa cavalcata tra successi grandi e piccoli della loro più
che quarantennale avventura insieme, da quel lontano luglio del 1968 quando
assieme a Stephen Stills iniziarono la loro carriera insieme. Anzi, a dire il
vero si parte addirittura un po’ prima, dai Byrds e da 8 miles high, che
stabilisce subito il tono della serata, perché la band, formata dal chitarrista
Shayne Fontaine, il bassista Kevin McCormick, il batterista Steve DiStanislao e
il tastierista James Raymond (figlio di David Crosby, da lui dato in adozione
appena nato e ritrovato qualche anno fa) è davvero eccellente, in perfetta
sintonia con i due leader, in grado, dividendosi i compiti, di sostituire
egregiamente, dove serve, i due compagni mancanti, Stills e Young, quando i
brani di repertorio lo richiedono. L’equilibrio tra parti acustiche ed
elettriche è perfetto, Nash fa da capobanda, dirigendo per quel che serve il
combo musicale, che cammina speditamente anche da solo, sostenendo i due
cantanti in maniera perfetta. Ma è un sostegno del quale i due riescono ancora
a fare a meno, quando cantano da soli con le loro chitarre acustiche o a
cappella. I pezzi fondamentali ci sono quasi tutti, da Marrakesh Express a
Almost cut my hair, da Wooden Ships a Our House, da Military Madness a In My
Dream, non mancano brani nuovi, bellissimi come Slice of time di Crosby, o
l’antinucleare. Il pubblico gradisce, risponde entusiasta, ride alle battute di
Nash (“Suonare in questo teatro così antico è emozionante. Avrà almeno cento
anni. Avrà più o meno l’età di Crosby…”.), applaude Crosby quando fa i
complimenti all’Italia per il voto al referendum contro il nucleare, e Nash quando
esprime solidarietà ai ragazzi che occupano Wall Street. Pubblico che canta in
coro, a squarciagola, Teach your children, che si commuove quando partono le
note di Long time gone e che si spella le mani quando, a sorpresa, Crosby
esegue Laughing (“Sono quarant’anni che mi chiedono di suonare questo pezzo e
non l’ho mai fatto. Ora ho la band giusta per farlo”). E’ un concerto in cui
nessuno si risparmia, non è un inutile circo per vecchietti, ne una nostalgica
rivista per pensionati rock. E’ un gran concerto, offerto da grandi artisti.
una serata fantastica di musica, parole, emozioni.
Una confessione
Certo, il sottoscritto parte da un “preconcetto” positivo inalienabile. Che parte da una vicenda personale: era il febbraio del 1971, i miei genitori andarono a Londra e quando tornarono, per farmi un regalo in occasione del mio compleanno, mi portarono tra dischi, che si erano fatti consigliare dal commesso di un negozio della capitale inglese. Uno era John Lennon / Plastic Ono Band, il primo disco solista di Lennon, il secondo era Watt dei Ten Years After, il terzo era If i could only remember my name di David Crosby. I Ten Years After di Alvin Lee li ho amati moltissimo, l’album di Lennon l’ho consumato con infiniti ascolti sul mio giradischi mono, ma l’album di David Crosby ha fatto molto di più, mi ha letteralmente aperto la mente. Io, dopo aver ascoltato quel disco, averlo imparato a memoria, ogni più piccolo particolare, ogni singola nota, non sono stato più lo stesso. Dopo aver ascoltato quel disco mi è stato chiaro cosa volessi, come volevo vivere, chi volevo essere, dove volevo andare. Ancora oggi, quando ascolto quei brani, quell’album, le sensazioni che provo sono profonde, straordinarie, fortissime. E compatisco chi non ha avuto la gioia di provarle, chi non conosce e non ama quella musica. Compatisco chi non sa sognare, chi non immagina per se e per gli altri un mondo diverso e migliore, chi non si lascia cambiare da quello che ascolta, da quello che legge, da quello che vede. Compatisco chi non ha mai ascoltato If i could only remember my name e non ha capito che poteva vivere meglio. Io, ieri sera, mi sono commosso, divertito, entusiasmato, ho ricordato ancora una volta il motivo per cui mi piace essere al mondo, le cose che amo e che sogno per me e per gli altri, la passione per la musica, per l’arte, per la poesia, per l’immaginazione, per la libertà.
Certo, il sottoscritto parte da un “preconcetto” positivo inalienabile. Che parte da una vicenda personale: era il febbraio del 1971, i miei genitori andarono a Londra e quando tornarono, per farmi un regalo in occasione del mio compleanno, mi portarono tra dischi, che si erano fatti consigliare dal commesso di un negozio della capitale inglese. Uno era John Lennon / Plastic Ono Band, il primo disco solista di Lennon, il secondo era Watt dei Ten Years After, il terzo era If i could only remember my name di David Crosby. I Ten Years After di Alvin Lee li ho amati moltissimo, l’album di Lennon l’ho consumato con infiniti ascolti sul mio giradischi mono, ma l’album di David Crosby ha fatto molto di più, mi ha letteralmente aperto la mente. Io, dopo aver ascoltato quel disco, averlo imparato a memoria, ogni più piccolo particolare, ogni singola nota, non sono stato più lo stesso. Dopo aver ascoltato quel disco mi è stato chiaro cosa volessi, come volevo vivere, chi volevo essere, dove volevo andare. Ancora oggi, quando ascolto quei brani, quell’album, le sensazioni che provo sono profonde, straordinarie, fortissime. E compatisco chi non ha avuto la gioia di provarle, chi non conosce e non ama quella musica. Compatisco chi non sa sognare, chi non immagina per se e per gli altri un mondo diverso e migliore, chi non si lascia cambiare da quello che ascolta, da quello che legge, da quello che vede. Compatisco chi non ha mai ascoltato If i could only remember my name e non ha capito che poteva vivere meglio. Io, ieri sera, mi sono commosso, divertito, entusiasmato, ho ricordato ancora una volta il motivo per cui mi piace essere al mondo, le cose che amo e che sogno per me e per gli altri, la passione per la musica, per l’arte, per la poesia, per l’immaginazione, per la libertà.