Chrome Dreams II - Rassegna Stampa pt.2
Benché sia da diversi anni senza produrre opere memorabili, l’alacre Neil Young, ormai giunto nella fase crepuscolare di una carriera inimitabile, ha saputo mantenere una invidiabile capacità di sviluppare il proprio percorso artistico in maniera accattivante e inquieta, pur all’interno di lavori inevitabilmente discontinui.
Non fa eccezione Chrome Dreams II, il quale però si candida prepotentemente per la palma di miglior album del Canadese da un paio lustri a questa parte. Se il titolo dell’opera rimanda a quel Chrome Dreams posto nel lontano 1977 dal suo autore in un limbo eterno (assieme a Homegrown è la più celebre delle invisibili reliquie younghiane), il contenuto riporta a lavori mitici quali After The Gold Rush o Freedom per le sfaccettate rifrazioni che ne avvolgono le spire. La scelta di un titolo così impegnativo e la pubblicazione di quest’opera prima dell’agognata uscita del vaso di pandora degli Archivi sono del resto due indizi significativi: Chrome Dreams II pare un tassello fondamentale nell’intricato mosaico del suo autore. Quasi la chiusura di un cerchio nella peculiare epica di un autore che non ha ancora smesso di evocare suggestivi miraggi americani.
L’album si snoda per buona parte su coordinate di routine: la cristallina rugiada country-folk di “Beautiful Bluebird” ( vecchio pezzo ripescato dalle session di Old Ways) richiama palesemente l’incipit di Harvest, mentre il banjo che avvolge “Boxcar” disegna traiettorie polverose di squisita fattura. Questa tavolozza di colori caldi e vivaci si rafforza laddove si ammantano le atmosfere con un soul morbido ma forse troppo d’antiquariato in pezzi come “Shining light”, “The Believer” e “Ever after”, cui fa da contraltare il rifferama appuntito di “Dirty Old Man”, classico garage-punk younghiano.
Ma il cuore pulsante di Chrome Dreams II è costituito da una splendida “trilogia della strada”: Neil prosegue il suo vagabondaggio tra le pieghe del sogno americano, tra i mirabolanti splendori e le insanabili antinomie della grande potenza. Il piglio è quello del sopravvissuto del rock, alternando rabbia, compassata mestizia e immutata speranza, Il tour de force di “Ordinary People” è emblematico: non è un caso che Young abbia deciso di ripescare tale brano (risalente ai tempi di This Note's For You, in piena epoca reaganiana) per l’occasione. Diciotto minuti ruggenti, con la sezione fiati dei Bluetones e la sei corde di Neil che si intrecciano in un climax di grande impatto, e un testo che mischia sapientemente echi whitmaniani e la verve del vecchio Neil nel descrivere in chiave surreale e metaforica una società sempre più avulsa da una dimensione umana: impareggiabile la vertigine che regala il suo scrutare ogni persona che incontra al punto da vedere dentro se stesso.
“Spirit road” è invece una corsa a rotta di collo per le human highways ventose e desolate che hanno costellato la sua carriera. La frontiera non si attraversa, si abita, si scandaglia e l’uomo col cappello da cowboy ne coglie l’essenza tessendo uno dopo l’altro riff garage-rock abrasivi e indiavolati, scanditi dalla batteria pestona di Ralph Molina. La trilogia si conclude con i 13 minuti vibranti di “No Hidden Path”: torna il Young imperscrutabile di Sleeps With Angels, tra riff affilati e squarci melodici di sublime intensità, ma il senso di perdita e desolazione lasciano spazio a toccanti bagliori: “Will the northern lights still play as we walk our distant days/ Ocean sky, sea of blue, let the sun wash over you”.
Il sipario cala con la soave litania di “The way”: l’ennesima, perfetta ballata pianistica di Neil. Una melodia tanto semplice e puerile (con tanto di coro di bambini) quanto riuscita: una luce tenue e soffusa che viene da lontano, e illumina il ritorno a casa.
Junio C. Murgia, storiadellamusica.it
Mattacchione di un Neil. Anziché pubblicare finalmente il famigerato, primo volumone dei leggendari Archives (atteso entro il 2007, adesso rinviato a data da destinarsi… mah!), resuscita una decina di quelle datate “dimenticanze”, ne registra alcune ex novo e battezza la raccolta che ne salta fuori come uno dei suoi lost album più celebri di sempre, quel Chrome Dreams che, fosse uscito nel ‘77, oggi contenderebbe la palma di miglior disco younghiano dei ’70 ai vari Harvest e Rust Never Sleeps (On The Beach e Tonight’s The Night sono altra categoria, ça va sans dire). Che burla. Tipico Shakey. Come ogni sequel, peraltro, questo II è meno riuscito del primo capitolo della saga – e per forza: pensate un po’ che quello includeva “Pocahontas”, “Like A Hurricane”, “Powderfinger”, “Look Out For My Love”, a dirne solo quattro. Adesso, con compiaciuta senilità e consapevole auto-celebrazione, in questo mucchietto di canzoni (recuperate prevalentemente dai cassetti dei suoi temibili anni ’80) gioca a incarnare praticamente tutte le sue identità, dal country farmer di “Beautiful Bluebird” al cantore melenso degli ultimi tempi di “The Believer”, “Shine A Light” e “The Way” (francamente terribile), fino al solito cavallo pazzo di sempre in “Spirit Road”, “No Hidden Path” e “Dirty Old Man” (brutta come il suo sacrilego titolo, per inciso).
Lasciando da parte l’esegesi (per dire, l’interminabile tour de force di “Ordinary People” è uno storico rigurgito del periodo pre-Freedom, fissata su nastro nell’’88 insieme alla band ’r’n’b di This Note’s For You), non è che queste anticaglie rimesse a nuovo ci diano molto - e non che noi chiedessimo più di quel che avevamo già, anzi alcuni ascolti ce li saremmo risparmiati volentieri. Prendiamo allora Chrome Dreams II come l’ennesimo sassolino che il gran Vecchio ha voluto togliersi dalla scarpa, l’ennesimo capriccio insoddisfatto di uno spirito sempre inquieto ed insanamente incosciente (e il fatto che questo sia il suo terzo album di inediti in tre anni ce lo conferma). Se ciò sia bene o male, giudicate voi.
Antonio Puglia
Neil Young è un tipo che ama sorprendere. Probabilmente lo fa apposta, chi lo sa? Certamente riesce in questa impresa praticamente sempre, proprio quando arrivi a pensare di aver capito tutto.
La sua storia discografica è piena di aneddoti riguardo mancate uscite di dischi sostituiti da altri: come nel 1976 quando l’album Chrome Dreams era ormai in dirittura d’arrivo nei negozi ma all’ultimo minuto il loner canadese pensò bene di cambiare completamente idea e decise di sostituire l’album con American Stars ‘n Bars, frutto (in parte) di altre sessions e con altre canzoni. E non fu l’unico suo disco a subire identico trattamento, andando così a costituire una grossa mole di inediti ed outtakes e così di conseguenza i famigerati Archives, i quali sono incominciati a trapelare ufficialmente solo da poco. Ed è così che quindi proprio nel periodo in cui aspettavamo l’uscita del primo cofanetto antologico di questa serie è arrivato a sorpresa (ovviamente) l’annuncio che un nuovo inedito disco di Young era pronto per essere ascoltato.
In apparenza una bella notizia (probabilmente è meglio avere materiale nuovo che vecchia roba scartata) finchè non capiamo che Neil Young ha compiuto una sorta di operazione a metà andando ad unire brani composti di recente ad altri tre ripescati dai suoi sterminati archivi e lasciati a prendere polvere per anni, e da qui è possibile comprendere (con riferimento a quanto scritto più sopra) anche il senso del titolo di questo lavoro.
Intendiamoci, il disco non è orripilante ma lo stacco rispetto ai recenti ed ottimi (usciti e realizzati in poco tempo sulla scia di una grande ed improvvisa ispirazione) Prairie Wind e Living With War pare decisamente netto. Partendo dalla qualità delle registrazioni, a volte dalle connotazioni quasi amatoriali o da vecchio bootleg live, finendo per il livello delle canzoni prese singolarmente.
I tre brani ripescati dal passato sono anche quelli che aprono il disco e cioè “Beautiful Bluebird”, “Boxcar” e “Ordinary People”; se i primi due sono pezzi senza infamia e senza lodi, il terzo è invece quello per così dire di punta: già amato in vecchie versioni live e invocato spesso dai fan hardcore, ora finalmente accontentati. Sono 18 minuti di rock puro alla Neil Young, anche se i fiati e la chitarra missata troppo bassa fanno perdere un pò di mordente al tutto. L’impressione è che si tratti di una composizione non proprio eccezionale (e forse non è un caso che sia rimasta fuori per così tanto tempo) però non noiosa nonostante la lunghezza, ma che probabilmente avrebbe reso maggiormente con più cura nell’arrangiamento e nell’esecuzione.
La parte centrale dell’album soffre invece di una certa mediocrità di fondo galleggiando tra pochissimi picchi (la graziosa filastrocca meditativa di “Shining Light”) e decisamente molti bassi (ad esempio la sgradevole “The Believer”, che però ha l’onore di essere una delle poche canzoni younghiane a non essere tristi).
“No Hidden Path” rappresenta, con i suoi 14 minuti di lancinanti assoli e melodia assolutamente non banale, il capolavoro del disco. Non tra le migliori 40 canzoni del songwriter canadese, ma vista la pochezza della maggiorparte di queste “nuove” composizioni sicuramente fa la sua bella figura.
Velo pietoso sul finale con coro di bambini su “The Way”, canzone melensa e decisamente poco interessante. Anche questa deturpata dall’arrangiamento.
Gli aspetti positivi da cogliere sono pochi: innanzitutto il fatto che Neil Young abbia ancora voglia di farsi sentire e di scrivere canzoni (anche se non emozionanti e sentite come nel recente passato) e poi, sicuramente notizia più interessante, forse c’è la speranza di rivederlo in Europa di nuovo dal vivo con un tour che a leggere le prime scalette promette un sacco di gioiellini. Per il resto, forse è meglio ritornare ad ascoltare i vecchi capolavori (anche gli ultimi due prima di questo, perché no) in attesa che i famigerati cofanetti degli Archives vedano finalmente la luce.
Andrea Belcastro
Non fa eccezione Chrome Dreams II, il quale però si candida prepotentemente per la palma di miglior album del Canadese da un paio lustri a questa parte. Se il titolo dell’opera rimanda a quel Chrome Dreams posto nel lontano 1977 dal suo autore in un limbo eterno (assieme a Homegrown è la più celebre delle invisibili reliquie younghiane), il contenuto riporta a lavori mitici quali After The Gold Rush o Freedom per le sfaccettate rifrazioni che ne avvolgono le spire. La scelta di un titolo così impegnativo e la pubblicazione di quest’opera prima dell’agognata uscita del vaso di pandora degli Archivi sono del resto due indizi significativi: Chrome Dreams II pare un tassello fondamentale nell’intricato mosaico del suo autore. Quasi la chiusura di un cerchio nella peculiare epica di un autore che non ha ancora smesso di evocare suggestivi miraggi americani.
L’album si snoda per buona parte su coordinate di routine: la cristallina rugiada country-folk di “Beautiful Bluebird” ( vecchio pezzo ripescato dalle session di Old Ways) richiama palesemente l’incipit di Harvest, mentre il banjo che avvolge “Boxcar” disegna traiettorie polverose di squisita fattura. Questa tavolozza di colori caldi e vivaci si rafforza laddove si ammantano le atmosfere con un soul morbido ma forse troppo d’antiquariato in pezzi come “Shining light”, “The Believer” e “Ever after”, cui fa da contraltare il rifferama appuntito di “Dirty Old Man”, classico garage-punk younghiano.
Ma il cuore pulsante di Chrome Dreams II è costituito da una splendida “trilogia della strada”: Neil prosegue il suo vagabondaggio tra le pieghe del sogno americano, tra i mirabolanti splendori e le insanabili antinomie della grande potenza. Il piglio è quello del sopravvissuto del rock, alternando rabbia, compassata mestizia e immutata speranza, Il tour de force di “Ordinary People” è emblematico: non è un caso che Young abbia deciso di ripescare tale brano (risalente ai tempi di This Note's For You, in piena epoca reaganiana) per l’occasione. Diciotto minuti ruggenti, con la sezione fiati dei Bluetones e la sei corde di Neil che si intrecciano in un climax di grande impatto, e un testo che mischia sapientemente echi whitmaniani e la verve del vecchio Neil nel descrivere in chiave surreale e metaforica una società sempre più avulsa da una dimensione umana: impareggiabile la vertigine che regala il suo scrutare ogni persona che incontra al punto da vedere dentro se stesso.
“Spirit road” è invece una corsa a rotta di collo per le human highways ventose e desolate che hanno costellato la sua carriera. La frontiera non si attraversa, si abita, si scandaglia e l’uomo col cappello da cowboy ne coglie l’essenza tessendo uno dopo l’altro riff garage-rock abrasivi e indiavolati, scanditi dalla batteria pestona di Ralph Molina. La trilogia si conclude con i 13 minuti vibranti di “No Hidden Path”: torna il Young imperscrutabile di Sleeps With Angels, tra riff affilati e squarci melodici di sublime intensità, ma il senso di perdita e desolazione lasciano spazio a toccanti bagliori: “Will the northern lights still play as we walk our distant days/ Ocean sky, sea of blue, let the sun wash over you”.
Il sipario cala con la soave litania di “The way”: l’ennesima, perfetta ballata pianistica di Neil. Una melodia tanto semplice e puerile (con tanto di coro di bambini) quanto riuscita: una luce tenue e soffusa che viene da lontano, e illumina il ritorno a casa.
Junio C. Murgia, storiadellamusica.it
Mattacchione di un Neil. Anziché pubblicare finalmente il famigerato, primo volumone dei leggendari Archives (atteso entro il 2007, adesso rinviato a data da destinarsi… mah!), resuscita una decina di quelle datate “dimenticanze”, ne registra alcune ex novo e battezza la raccolta che ne salta fuori come uno dei suoi lost album più celebri di sempre, quel Chrome Dreams che, fosse uscito nel ‘77, oggi contenderebbe la palma di miglior disco younghiano dei ’70 ai vari Harvest e Rust Never Sleeps (On The Beach e Tonight’s The Night sono altra categoria, ça va sans dire). Che burla. Tipico Shakey. Come ogni sequel, peraltro, questo II è meno riuscito del primo capitolo della saga – e per forza: pensate un po’ che quello includeva “Pocahontas”, “Like A Hurricane”, “Powderfinger”, “Look Out For My Love”, a dirne solo quattro. Adesso, con compiaciuta senilità e consapevole auto-celebrazione, in questo mucchietto di canzoni (recuperate prevalentemente dai cassetti dei suoi temibili anni ’80) gioca a incarnare praticamente tutte le sue identità, dal country farmer di “Beautiful Bluebird” al cantore melenso degli ultimi tempi di “The Believer”, “Shine A Light” e “The Way” (francamente terribile), fino al solito cavallo pazzo di sempre in “Spirit Road”, “No Hidden Path” e “Dirty Old Man” (brutta come il suo sacrilego titolo, per inciso).
Lasciando da parte l’esegesi (per dire, l’interminabile tour de force di “Ordinary People” è uno storico rigurgito del periodo pre-Freedom, fissata su nastro nell’’88 insieme alla band ’r’n’b di This Note’s For You), non è che queste anticaglie rimesse a nuovo ci diano molto - e non che noi chiedessimo più di quel che avevamo già, anzi alcuni ascolti ce li saremmo risparmiati volentieri. Prendiamo allora Chrome Dreams II come l’ennesimo sassolino che il gran Vecchio ha voluto togliersi dalla scarpa, l’ennesimo capriccio insoddisfatto di uno spirito sempre inquieto ed insanamente incosciente (e il fatto che questo sia il suo terzo album di inediti in tre anni ce lo conferma). Se ciò sia bene o male, giudicate voi.
Antonio Puglia
Neil Young è un tipo che ama sorprendere. Probabilmente lo fa apposta, chi lo sa? Certamente riesce in questa impresa praticamente sempre, proprio quando arrivi a pensare di aver capito tutto.
La sua storia discografica è piena di aneddoti riguardo mancate uscite di dischi sostituiti da altri: come nel 1976 quando l’album Chrome Dreams era ormai in dirittura d’arrivo nei negozi ma all’ultimo minuto il loner canadese pensò bene di cambiare completamente idea e decise di sostituire l’album con American Stars ‘n Bars, frutto (in parte) di altre sessions e con altre canzoni. E non fu l’unico suo disco a subire identico trattamento, andando così a costituire una grossa mole di inediti ed outtakes e così di conseguenza i famigerati Archives, i quali sono incominciati a trapelare ufficialmente solo da poco. Ed è così che quindi proprio nel periodo in cui aspettavamo l’uscita del primo cofanetto antologico di questa serie è arrivato a sorpresa (ovviamente) l’annuncio che un nuovo inedito disco di Young era pronto per essere ascoltato.
In apparenza una bella notizia (probabilmente è meglio avere materiale nuovo che vecchia roba scartata) finchè non capiamo che Neil Young ha compiuto una sorta di operazione a metà andando ad unire brani composti di recente ad altri tre ripescati dai suoi sterminati archivi e lasciati a prendere polvere per anni, e da qui è possibile comprendere (con riferimento a quanto scritto più sopra) anche il senso del titolo di questo lavoro.
Intendiamoci, il disco non è orripilante ma lo stacco rispetto ai recenti ed ottimi (usciti e realizzati in poco tempo sulla scia di una grande ed improvvisa ispirazione) Prairie Wind e Living With War pare decisamente netto. Partendo dalla qualità delle registrazioni, a volte dalle connotazioni quasi amatoriali o da vecchio bootleg live, finendo per il livello delle canzoni prese singolarmente.
I tre brani ripescati dal passato sono anche quelli che aprono il disco e cioè “Beautiful Bluebird”, “Boxcar” e “Ordinary People”; se i primi due sono pezzi senza infamia e senza lodi, il terzo è invece quello per così dire di punta: già amato in vecchie versioni live e invocato spesso dai fan hardcore, ora finalmente accontentati. Sono 18 minuti di rock puro alla Neil Young, anche se i fiati e la chitarra missata troppo bassa fanno perdere un pò di mordente al tutto. L’impressione è che si tratti di una composizione non proprio eccezionale (e forse non è un caso che sia rimasta fuori per così tanto tempo) però non noiosa nonostante la lunghezza, ma che probabilmente avrebbe reso maggiormente con più cura nell’arrangiamento e nell’esecuzione.
La parte centrale dell’album soffre invece di una certa mediocrità di fondo galleggiando tra pochissimi picchi (la graziosa filastrocca meditativa di “Shining Light”) e decisamente molti bassi (ad esempio la sgradevole “The Believer”, che però ha l’onore di essere una delle poche canzoni younghiane a non essere tristi).
“No Hidden Path” rappresenta, con i suoi 14 minuti di lancinanti assoli e melodia assolutamente non banale, il capolavoro del disco. Non tra le migliori 40 canzoni del songwriter canadese, ma vista la pochezza della maggiorparte di queste “nuove” composizioni sicuramente fa la sua bella figura.
Velo pietoso sul finale con coro di bambini su “The Way”, canzone melensa e decisamente poco interessante. Anche questa deturpata dall’arrangiamento.
Gli aspetti positivi da cogliere sono pochi: innanzitutto il fatto che Neil Young abbia ancora voglia di farsi sentire e di scrivere canzoni (anche se non emozionanti e sentite come nel recente passato) e poi, sicuramente notizia più interessante, forse c’è la speranza di rivederlo in Europa di nuovo dal vivo con un tour che a leggere le prime scalette promette un sacco di gioiellini. Per il resto, forse è meglio ritornare ad ascoltare i vecchi capolavori (anche gli ultimi due prima di questo, perché no) in attesa che i famigerati cofanetti degli Archives vedano finalmente la luce.
Andrea Belcastro
È lui il vero immortale, l’highlander del rock. La polio, l’epilessia, la sindrome di down che affligge i figli, i lutti (anche familiari: ha perso il padre da poco), un’operazione alla spina dorsale e un aneurisma cerebrale che due anni fa stava per mandarlo al creatore non sono bastati a minare quella roccia umana che è Neil Young. Ancora alive and kicking, vivo e vegeto, malgrado tutto. Indistruttibile come un eroe omerico, e testardamente uguale a se stesso. Chrome Dreams II, che nel titolo allude a un omonimo disco concepito nel 1977 e mai dato alle stampe, potrebbe essere stato inciso allora, o anche prima. Ascolti "Beautiful bluebird”, armonica, lap steel e chitarra acustica con quell’inconfondibile ritmo strascicato, ed è come tornare indietro di trentacinque anni, ai tempi di Harvest (“Una mattina/mentre guidavo il mio camioncino pick up…”, persino la voce non è cambiata di una virgola). Oggi ci sono Bush e l’Iraq al posto di Nixon e del Vietnam, ma nel mondo in bianco e nero e un po’ manicheo del canadese in fondo è cambiato poco, e quando c’è da rimboccarsi le maniche lo si fa senza pensarci su due volte (vedi l’instant record Living With War). Lui, che lo sa e se ne frega, sulla sua marmorea immutabilità ci gioca. Dal primo, inedito Chrome Dreams germogliarono piante rigogliose come “Pocahontas”, “Powderfinger”, “Look out for my love” e “Like a hurricane”; qualcun’altra è rimasta nascosta in serra, o sottoterra, e ora è cresciuta con il fusto di una sequoia secolare: “Ordinary people”, diciotto epici minuti di empito populista che incita la gente comune a riprendersi in mano il suo destino, piacerà a Patti Smith e farà venire gli occhi lucidi ai fan della prima ora: è una outtake da This Note's For You, 1988, informano gli storici, un hard rhythm & blues da favola con fiotti inarrestabili e incandescenti di chitarra elettrica, riff robusti di fiati, assoli di sax e di cornetta, tastiera alla Roy Bittan, otto strofe e un ritornello maestoso di quelli che ti vengono una volta su cento. Aggiungeteci “No hidden path”, un’altra cavalcata selvaggia di quattordici minuti e mezzo in puro stile Crazy Horse (anche se degli antichi cavalli pazzi qui resta in sella il solo batterista Ralph Molina) e il gioco è fatto, il vecchio Neil vince le ultime resistenze e pregiudizi a mani basse: non sarà “Down by the river” o “Cowgirl in the sand” ma poco ci manca. Capolavoro, allora? Non proprio: tra le cinque stelle di Mojo e le perplessità espresse da altri recensori c’è una via di mezzo. Siccome Neil è un campione dello ying e dello yang (e scusate il gioco di parole), l’autore bipolare e schizofrenico di trionfi come After The Gold Rush e tonfi come Trans, non è tutto così scontato e lineare. Chrome Dreams II è un disco un po’ a singhiozzo, sbilanciato tra elettrico e acustico (e non è la prima volta: le magie di Rust Never Sleeps mica possono riuscire tutte le volte), melensaggini e muscoli scintillanti. Solo gli aficionados più sfegatati gli perdoneranno lo stucchevole sentimentalismo di “The way”, il suo coro di bambini e il valzerino da Bacharach di serie b. E non è facile entusiasmarsi neppure per pesi piuma come “Shining light”, spectoriana ma inconsistente, o “Ever after”, ballata country carina ma friabile, che basta un venticello di montagna per spazzarle via dalla memoria. Però conquista la cocciuta, onesta fedeltà di Young a un suo mondo poetico elementare ma efficace, in cui il mito dell’hobo e del viaggio (preferibilmente su rotaie e treni merci: il bel folk rock di “Boxcar”) assume sempre connotazioni metaforiche e trascendentali, e quel che conta è purificarsi nella bellezza divina della Natura, credere che tutto abbia un senso ultimo (“I’m just a believer, baby”: ma qui, nonostante i coretti e la melodia pop anni Sessanta, i Monkees non c’entrano), cercare la strada del Grande Spirito (“Spirit road”, un’altra tumultuosa tempesta elettrica). È un “Dirty old man” dal cuore tenero, Neil, che si diverte ancora a strapazzare la chitarra elettrica con lo spirito di un punk, e non si vergogna del fanciullino naif che ha dentro di sé. Un agnello ma anche un leone che qui ruggisce per quaranta minuti buoni, e scusate se è poco con tutto quello che è successo prima.
Alfredo Marziano, rockol.it
Sessantadue anni di vita, quasi quaranta di carriera solista, numeri impressionanti quelli del loner canadese che, tra le edizioni di vecchi concerti (At Fillmore East con i Crazy Horse e l’immaginifico Live at Massey Hall 1971” in solitaria), pubblica questo Chrome Dreams II, figlio nel titolo di quel Chrome Dreams che Neil Young progettò dopo Zuma senza però mai pubblicarlo e le cui canzoni (una tracklist da favola, per inciso..) finirono su album successivi.
Un nuovo disco di un dinosauro del rock, come si usa dire per simili colossi, spinge a tante considerazioni. Certo, gli ultimi tempi non sono stati granché per il cantautore canadese, la sua carriera non ha brillato e da più parti si pensa che la pensione sarebbe cosa buona e giusta.
Certo, quando hai pubblicato Everybody Knows This Is Nowhere, After The Gold Rush, Harvest, On The Beach, Tonight’s The Night, Rust Never Sleeps e via dicendo, come vuoi fare ora, anziano e acciaccato, a regalare ancora emozioni? Eppure…
Eppure i primi tre pezzi di Chrome Dreams II sono cose che i suoi giovani successori pagherebbero per saper scrivere e interpretare.
Prendi “Beautiful Bluebird”, ballata per armonica e lap steel, una di quelle canzoni per cui il sottoscritto baratterebbe buona parte del nuovo revival folk di oggi; dipinto di grano e sole, strade solitarie e ingenui amori.
Colonna sonora ideale per il viaggio di Richard Farnsworth nel lynchiano Una storia vera, orgoglio e pace interiore fatta di cose semplici, azzerate le distanze temporali, Harvest non è poi così lontano.
"If heaven had a window here the sun came shinin’ through / like a beautiful bluebird, I’d come flying back to you”. E buonanotte a tutti gli Iron & Wine e M Ward..
Ricordi più recenti (ma non di molto) sollevano la polvere e il banjo di “Boxcar”, ancora America rurale, western di perdenti e lavoratori, gente vera, gente comune; “Ordinary People”, allora, l’inaspettata energia di questo vecchio cavallo pazzo che ci regala diciotto minuti di elettricità come quando furoreggiava con i Crazy Horse: stavolta sono i BlueNote a fornire appoggio informale con sax, cornette e fiati vari, ma c'è quella chitarra inconfondibile a ricordarti chi stai ascoltando.
Diciotto minuti di svisate e assoli con Neil a cantare come ai vecchi tempi, populista forse, prolisso magari, ma tant’è.
Poi, purtroppo, l’uomo di Toronto ritorna quello degli ultimi anni e ci rifila “Shining Light” e “The Believer”, due ballate melense incrociate con pop e soul che fanno quasi svanire il fresco ricordo del trittico iniziale.
Non è finita, però, perché il vecchio leone ha ancora qualche ruggito in serbo: si risolleva con “Spirit Road” e “Dirty Old Man”, tutte grinta, poi, tra l’innocuo country di “Even After” e la trascurabile ballata finale per piano e fanciullesco coro “The Way”, si rilancia ancora in un’ultima cavalcata.
“No Hidden Path”, gemella di “Ordinary People” ma meno multiforme, è un altro pezzo di quasi quindici minuti in cui la chitarra elettrica si libra in voli d’improvvisazione che ci ricordano un’altra fetta della carriera del buon Neil.
Diviso tra i fan che lo accetteranno e difenderanno come ogni scampolo di musica del loro idolo e i detrattori che non vedono l’ora di avventarsi su ogni passo falso come avvoltoi, Chrome Dreams II è lì, nel mezzo, con i suoi pregi e le sue debolezze.
Sicuramente confrontato con l'intera opera di Young risulterà una nullità, ma possiede dei colpi che lo fanno brillare in confronto a quello che il cantautore canadese ha creato negli ultimi(ssimi) anni, almeno del periodo dal 2000 in avanti.
Non fosse altro che per il trittico iniziale, la sufficienza se la merita ampiamente.
Gianni Candellari, ondarock.it
Alfredo Marziano, rockol.it
Sessantadue anni di vita, quasi quaranta di carriera solista, numeri impressionanti quelli del loner canadese che, tra le edizioni di vecchi concerti (At Fillmore East con i Crazy Horse e l’immaginifico Live at Massey Hall 1971” in solitaria), pubblica questo Chrome Dreams II, figlio nel titolo di quel Chrome Dreams che Neil Young progettò dopo Zuma senza però mai pubblicarlo e le cui canzoni (una tracklist da favola, per inciso..) finirono su album successivi.
Un nuovo disco di un dinosauro del rock, come si usa dire per simili colossi, spinge a tante considerazioni. Certo, gli ultimi tempi non sono stati granché per il cantautore canadese, la sua carriera non ha brillato e da più parti si pensa che la pensione sarebbe cosa buona e giusta.
Certo, quando hai pubblicato Everybody Knows This Is Nowhere, After The Gold Rush, Harvest, On The Beach, Tonight’s The Night, Rust Never Sleeps e via dicendo, come vuoi fare ora, anziano e acciaccato, a regalare ancora emozioni? Eppure…
Eppure i primi tre pezzi di Chrome Dreams II sono cose che i suoi giovani successori pagherebbero per saper scrivere e interpretare.
Prendi “Beautiful Bluebird”, ballata per armonica e lap steel, una di quelle canzoni per cui il sottoscritto baratterebbe buona parte del nuovo revival folk di oggi; dipinto di grano e sole, strade solitarie e ingenui amori.
Colonna sonora ideale per il viaggio di Richard Farnsworth nel lynchiano Una storia vera, orgoglio e pace interiore fatta di cose semplici, azzerate le distanze temporali, Harvest non è poi così lontano.
"If heaven had a window here the sun came shinin’ through / like a beautiful bluebird, I’d come flying back to you”. E buonanotte a tutti gli Iron & Wine e M Ward..
Ricordi più recenti (ma non di molto) sollevano la polvere e il banjo di “Boxcar”, ancora America rurale, western di perdenti e lavoratori, gente vera, gente comune; “Ordinary People”, allora, l’inaspettata energia di questo vecchio cavallo pazzo che ci regala diciotto minuti di elettricità come quando furoreggiava con i Crazy Horse: stavolta sono i BlueNote a fornire appoggio informale con sax, cornette e fiati vari, ma c'è quella chitarra inconfondibile a ricordarti chi stai ascoltando.
Diciotto minuti di svisate e assoli con Neil a cantare come ai vecchi tempi, populista forse, prolisso magari, ma tant’è.
Poi, purtroppo, l’uomo di Toronto ritorna quello degli ultimi anni e ci rifila “Shining Light” e “The Believer”, due ballate melense incrociate con pop e soul che fanno quasi svanire il fresco ricordo del trittico iniziale.
Non è finita, però, perché il vecchio leone ha ancora qualche ruggito in serbo: si risolleva con “Spirit Road” e “Dirty Old Man”, tutte grinta, poi, tra l’innocuo country di “Even After” e la trascurabile ballata finale per piano e fanciullesco coro “The Way”, si rilancia ancora in un’ultima cavalcata.
“No Hidden Path”, gemella di “Ordinary People” ma meno multiforme, è un altro pezzo di quasi quindici minuti in cui la chitarra elettrica si libra in voli d’improvvisazione che ci ricordano un’altra fetta della carriera del buon Neil.
Diviso tra i fan che lo accetteranno e difenderanno come ogni scampolo di musica del loro idolo e i detrattori che non vedono l’ora di avventarsi su ogni passo falso come avvoltoi, Chrome Dreams II è lì, nel mezzo, con i suoi pregi e le sue debolezze.
Sicuramente confrontato con l'intera opera di Young risulterà una nullità, ma possiede dei colpi che lo fanno brillare in confronto a quello che il cantautore canadese ha creato negli ultimi(ssimi) anni, almeno del periodo dal 2000 in avanti.
Non fosse altro che per il trittico iniziale, la sufficienza se la merita ampiamente.
Gianni Candellari, ondarock.it
Solo uno come Neil Young farebbe il sequel di un disco mai pubblicato. Sì, solo lui. Perché la carriera del singer canadese, ormai quarantennale, va vista come una specie di grande disegno filologico del rock. Una storia a capitoli e segnata da grandi flashback che azzerano tutto e ti portano indietro. Se decidete di acquistare questo Chrome Dreams II, alle stampe quasi a sorpresa in questo autunno 2007, non ricercatene negli annali un “primo tomo”, non lo troverete. Nel ’77, Neil, aveva in mente un grande album. Un album che contenesse forse il meglio del meglio della sua musica. Si doveva chiamare Chrome Dreams, ma non uscì mai, perchè Young preferì farlo “vivere” nel corpo di altri grandi dischi composti in seguito. Oggi questo numero 2 dei “sogni cromatici” rappresenta, così, l’ennesima auto-citazione del cantautore canadese, una specie di meta-disco, una riflessione sulla sua musica, in attesa di quegli Archives che prima o poi arriveranno, ma che Neil ritarda a pubblicare forse per paura che possano rappresentare come una sorta di pensione anticipata. Andando nello specifico, possiamo e dobbiamo dirlo, questo Chrome Dreams II non è un disco-capolavoro. Non ammalia, non appassiona eccessivamente, non scuote l’interesse dell’ascoltatore. È anche vero, però, (e ci teniamo a sottolinearlo) che neanche smentisce la qualità migliore (storica) dei lavori younghiani: ovvero quella capacità di parlare dell’uomo americano e della sua collocazione nel mondo. Neil lo fa con la sua solita delicatezza folk, con il languore delle sue ballate, con lo sferzante strappo della sua chitarra elettrica, forse un po’ invecchiata, ma sempre decisiva. E poi, diamine, solo un pezzo come “Ordinary People” giustifica assolutamente la presenza di questo lavoro sul mercato. Il rock stagionato di questa canzone-fiume viene snocciolato lungo diciotto minuti diciotto di una composizione che ha l’assoluta capacità di non annoiare nonostante viva della reiterazione del medesimo ritornello. È una grande festa quella di “Ordinary People”, una festa anni ’60, una cavalcata insistente che nasce per essere vissuta ebbra alla presenza di migliaia di persone. Un pezzo lunghissimo ma reso unico dalla presenza, anomala per Young, di fiati in abbondanza. Segnatevi anche un brano come “No Hidden Path”, 14:33 di chitarre, strumentalismo, ritmo, invenzione ed atmosfera desertica. Le altre sono tutte tracce che un giovane musicista farebbe carte false per scrivere, ma che forse sono troppo marginali rispetto a ciò a cui Zio Neil ci ha abituati. Ma è bravo chi sa aspettare, è bravo chi sa tirarne fuori i propositi, è bravo chi conosce così bene la discografia di Young e capisce che, Chrome Dreams II, è la tappa di avvicinamento per una nuova grande opera.
Riccardo Marra, ilcibicida.com
Ogni album di Neil Young aveva beneficiato di un qualche tipo di coerenza interna. Mentre poteva cambiare drasticamente da un album all’altro, all’interno dello stesso album Young era in grado di impersonare dall’inizio alla fine una persona integra e profonda. Chrome Dreams II (2007), chiaro seguito di un album del 1976 non pubblicato, costituisce una notevole eccezione alla regola (Chrome Dreams avrebbe contenuto le versioni originali di “Powderfinger”, “Pocahontas” e “Like a Hurricane”). Young assemblò il disco come una collezione di rarità e pezzi inediti risalenti a periodi diversi della sua vita, ed ecco il perché della confusione stilistica. Si può pressoché rinvenire l’intera carriera di Young nello spazio di un disco: il country-rock di Harvest (“Beautiful Bluebird”, “Ever After”, “Boxcar”), soluzioni nello stile dei Crazy Horse (“Spirit Road”, “No Hidden Path”, quest’ultima di 14 minuti), foschi lamenti funebri (“Dirty Old Man”) e la errante ed epica “Ordinary People”, di 19 minuti (con piano e fiati), registrata nel 1988. In questa parata di personificazioni, si trovano perfino delle rare variazioni: una ballata soul (“Shining Light”), una ninna nanna per piano (“The Way”, con un coro di bambini), una canzoncina da festa in stile Tamla (“The Believer”, con un botta e risposta di controcanti). È per la maggior parte musica che avrebbe dovuto essere sepolta una volta per tutte.
Piero Scaruffi
Riccardo Marra, ilcibicida.com
Ogni album di Neil Young aveva beneficiato di un qualche tipo di coerenza interna. Mentre poteva cambiare drasticamente da un album all’altro, all’interno dello stesso album Young era in grado di impersonare dall’inizio alla fine una persona integra e profonda. Chrome Dreams II (2007), chiaro seguito di un album del 1976 non pubblicato, costituisce una notevole eccezione alla regola (Chrome Dreams avrebbe contenuto le versioni originali di “Powderfinger”, “Pocahontas” e “Like a Hurricane”). Young assemblò il disco come una collezione di rarità e pezzi inediti risalenti a periodi diversi della sua vita, ed ecco il perché della confusione stilistica. Si può pressoché rinvenire l’intera carriera di Young nello spazio di un disco: il country-rock di Harvest (“Beautiful Bluebird”, “Ever After”, “Boxcar”), soluzioni nello stile dei Crazy Horse (“Spirit Road”, “No Hidden Path”, quest’ultima di 14 minuti), foschi lamenti funebri (“Dirty Old Man”) e la errante ed epica “Ordinary People”, di 19 minuti (con piano e fiati), registrata nel 1988. In questa parata di personificazioni, si trovano perfino delle rare variazioni: una ballata soul (“Shining Light”), una ninna nanna per piano (“The Way”, con un coro di bambini), una canzoncina da festa in stile Tamla (“The Believer”, con un botta e risposta di controcanti). È per la maggior parte musica che avrebbe dovuto essere sepolta una volta per tutte.
Piero Scaruffi