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Year of the Horse (1997) - Rassegna Stampa


Year of the Horse
Usa, 1997
Regia Jim Jarmusch
Musica Neil Young e Crazy Horse
Montaggio Elliot Rabinowitz
Interpreti Neil Young e i Crazy Horse
Produzione Upstream Video & Film
Durata 107'


Year Of the Horse è il film-documentario sulla tournee che Neil Young ha intrapreso con i fidatissimi Crazy Horse nel corso dell’anno passato, frammisto a spezzoni tratti da concerti del 1976 e del 1986. Regista d’eccezione, chiamato dallo stesso Young, è Jim Jarmusch, con il quale il menestrello canadese aveva già collaborato due anni or sono, componendo la colonna sonora del suo ultimo lungometraggio, "Dead man". Se nel film di Jarmusch, peraltro, fu Neil Young a piegarsi ad un racconto già concluso (le musiche furono infatti composte in fase di montaggio), confezionando un puzzle musica-immagini fra i più visionari e potenti degli ultimi anni, in questo caso Jarmusch è un fedele documentarista che con la sua telecamera ‘ruba’ immagini di concerti e vita privata dei componenti della band. Non si deve peraltro pensare che il regista americano non ci abbia messo del suo: in simili occasioni, il contributo registico, oltre che progettuale, può essere determinante, per non scadere in una banale operazione commerciale. Neil Young certamente se ne è reso conto, e non è un caso che sia stato proprio lui il promotore del progetto: di certo ha pesato in questa scelta, oltre che l’amicizia personale tra i due, anche una certa contiguità che Jarmusch ha sempre avuto con gli ambienti più ‘off’ della musica americana (basti ricordare le interpretazioni, nei suoi primi film, di John Lurie, stralunato sassofonista del gruppo d’avanguardia newyorkese Lounge Lizards), e l’uso ruvido e sgranato delle immagini di cui Jarmusch ha fatto un marchio di fabbrica e che si confà particolarmente a questa fase musicale del chitarrista canadese. In questi ultimi anni, infatti, Neil Young ha indurito la sua proposta musicale, avvicinandosi sempre di più a sonorità ‘grunge’ (vedasi la sua collaborazione con i Pearl Jam) senza peraltro rinnegare un’armonia di fondo che resta sia nelle melodie che nella sua voce sgraziata e lamentosa. Jarmusch si adatta a questa tematica innanzitutto con l’utilizzo di un Super-8 artigianale ed ‘orgoglioso’ (come da lui stesso sottolineato nei titoli di testa), che rende tutto il film ruvido come la musica sottostante; inoltre, la predominanza data alle canzoni, fornite nella tipica versione dilatata dei concerti rock, non toglie la possibilità di alternare ad esse spezzoni di interviste ai membri del complesso, facendole passare il più delle volte come brani di conversazione privata ‘rubati’ dalla invadente telecamera di Jarmusch. Non mancano peraltro episodi divertenti, come un’esilarante commento alla Bibbia effettuato da Jarmusch, cui Young fa da contrappunto con strambe osservazioni, e neppure sono esenti critiche all’invadenza o ignoranza di certa stampa che spesso pone domande solo per la necessità di giustificare la propria presenza. Conclude il tutto la scelta di una scenografia spesso composta da una squallida stanza vuota in cui troneggia sullo sfondo una lavatrice capitata lì chissà come, con gli intervistati (tra cui vi è anche il padre di Young) che guardano in camera, perlopiù con uno sguardo abulico, stravaccati su una piccola sedia di legno: è qui che si nota l’impronta del regista americano, con personaggi che si aggirano spaesati in ambienti che li contengono e, in un qualche modo, predominano su di essi senza peraltro riuscire ad avere vita propria. 
Il binomio Young-Jarmusch risulta vincente proprio nell’assoluta mancanza di spettacolarità del documentario, che si discosta quindi da opere più ‘tematiche’ come l’inarrivabile "The last waltz" di Scorsese, ma anche dalla banalità di un patinato video-clip: verrebbe da dire "it’s only rock’n’roll", se non ci si trovasse dinanzi ad un autore che ha fatto uno sforzo di comprensione delle motivazioni dell’artista e che quasi naturalmente si trova sulla stessa lunghezza d’onda del personaggio che deve raffigurare. Memorabile, infine, la sequenza finale che mixa una versione ‘fedele alla linea’ di "Like a hurricane" tratta da un concerto inglese del 1976 con lo stile usato per lo stesso brano vent’anni dopo: chitarre urlanti, dissonanze, batteria tribale, e migliaia di braccia alzate tra il pubblico che si mischiano in uno sfuocatissimo bianco e nero fino a somigliare alle fiamme dell' inferno: in questo caso, la commistione tra suono ed immagini è semplicemente perfetta, e non ci sarebbe stata miglior chiusa ad una pellicola che mostra la vitalità di un artista che, ad un’età in cui molti suoi colleghi si limitano a rimasticare vecchi successi con sempre meno verve, ha ancora il coraggio di rimettersi in gioco e saltellare sul palco con l’energia di un ventenne a tormentare le corde della sua Gibson. Per Jarmusch che, presente alla proiezione, ha ricevuto ovazioni da rock-star, la conferma di un talento che non aveva certo bisogno di questo ‘divertissement’ per impressionarci, e la speranza che l’amicizia con Neil Young possa produrre ancora altri impasti del calibro di "Dead man".di Davide Verrazzani


Neil Young e i Crazy Horse hanno deciso di cominciare a guardarsi indietro dopo un paio di decenni al galoppo su praterie non sempre fertili. Per farlo si sono affidati a Jim Jarmush, eccentrico regista americano con cui Young aveva già collaborato per la colonna sonora di "Dead Man". La scelta di Jarmush si rivela azzeccatissima fin dai titoli di testa che annunciano trionfalmente che "questo film è stato girato con orgoglio in 8mm per essere ascoltato a volume assordante". Il regista passa poi a presentarci i quattro musicisti in versione foto segnaletica, rese ancora più reali da un bianco e nero con pochissimo contrasto e sgranato all'inverosimile. Nei 107 minuti del film veniamo condotti all'interno dell'universo Young + Horse dall'occhio della telecamera che si snoda tra cunicoli del backstage, stretti corridoi d'albergo, autobus e autostrade deserte. E viaggia nel tempo, saltando dal '76 al '96, e viceversa, senza preavviso. Posandosi anzi in modo impietoso sulle rughe, sui capelli diradati e sugli sguardi stanchi dei protagonisti di oggi. E' infatti la mancanza di pietà, di devozione fanatica che colpisce immediatamente gli spettatori. Jarmush riesce nella non facile impresa di spogliarsi dei panni del fan per portarci il più dentro possibile, per scavare in modo a volte crudele nelle personalità e nei rapporti dei quattro. Così a volte la telecamera resta fissa e oggettiva di fronte ai furiosi litigi e agli insulti che un Neil Young frustrato scarica sugli altri fuori campo nello sfortunato tour del 1987. A volte lo zoom si concentra sugli occhi arrossati, sulle bocche aperte e sui dialoghi resi sconnessi dalla droga durante il Tour del 1976. Altre volte intervista direttamente i quattro, con Jarmush stesso che pone le domande da dietro l'obiettivo. O infine abbraccia tutta la larghezza del palco per poi stringersi in modo deliziosamente arbitrario e frenetico su una mano, un gesto o una smorfia. Il risultato è un documentario nel vero senso della parola che forse, come dice a più riprese un'irritante Sampedro, non riesce a raccontare tutta la storia dei Crazy Horse, ma certamente a trasmetterne l'essenza, affondando il colpo quando serve e applaudendo il giusto merito. Nonostante la vistosa assenza di trama, il filo conduttore molto sottile e la pessima traduzione dei sottotitoli, "Year of the Horse" si rivela un film per tutti, amanti di Young e non, che scorre veloce e gradevole proprio grazie al tocco della regia. Se non fosse per...beh, se non fosse per Neil Young e i Crazy Horse dal vivo ! Il gruppo che vediamo su vari palchi europei e americani nel tour del 1996 è senz'altro potente e trascinante, ma Young dà l'ennesima imostrazione della sua frustrante capacità di pescare sempre brani decisamente non all'altezza dal suo enorme repertorio. Per di più il canadese sembra avere negli ultimi anni perso la voglia di suonare, sporcando e scarnificando all'inverosimile il suo stile. Le code conclusive o le parti soliste dei suoi brani hanno quindi finito per perdere il loro splendido potere ipnotico diventando semplicemente tediose e spezzando maldestramente il ritmo del film. L'impressione che si ha, forse anche per via del meraviglioso bianco e nero sgranato di Jarmush, è che per la prima volta Young e la band si facciano prendere dalla malinconia e dall'autocompiacimento, finendo per fare il verso a é stessi. Jarmush stesso sembra suggerirlo nel primo piano strettissimo sull'espressione intensa di Young durante la parte a cappella di Tonight's the night", intesa in onore dello scomparso produttore David Briggs, ma che finisce col sembrare una litania funebre che le quattro voci sofferenti intonano al proprio passato. Il finale è ancora più esplicito : il bianco e nero della versione attuale di "Like a hurricane" viene sfumato nei colori brillantissimi della splendida versione del 1976 prima di tornare di colpo al feedback in grigio dei giorni nostri. I titoli che scorrono sulle operazioni di raccolta dei rifiuti post concerto, accompagnati dalle note della commovente "Music Arcade", danno la sensazione impalpabile che qualcosa si sia spezzato. Che dopo decenni di galoppo frenetico il cavallo abbia deciso di fermarsi sulle rive più rigogliose del fiume?. Lunga vita ai Crazy Horse, quindi. Anche se abbiamo forse celebrato l'inizio della fine. Con la speranza che Young riesca per l'ennesima volta a mettersi in discussione e prenderci di sorpresa.
di Giampaolo Corradini & Paolo Palù da Viceversa


Con una sapiente alternanza fra colore e bianco e nero Jim Jarmusch ricostruisce l’anima emotiva dei Crazy Horse. Il regista infatti sorprende lo spettatore mostrando durante le performances del gruppo improvvisi squarci di cieli popolati di nuvole o di strade e autostrade e rettilinei che risaltano fortemente per il repentino passaggio al bianco e nero dalle tinte accese che accompagnano visivamente sul palcoscenico le note rock dei circa dodici brani eseguiti dalla rock band. Queste interruzioni sembrano caricarsi di una valenza lirica che travalica i confini delle singole canzoni per mostrare al pubblico qualcosa di profondamente interiore: la magia che scatta quando Neil Young, Ralph Molina, Billy Talbot e Frank "Poncho" Sampedro suonano insieme creando un sound che diventa la sintesi delle loro personalità che si esprimono all'unisono.

Non a caso «Quando riuniamo il gruppo, qualsiasi anno sia in Cina, per noi è l'anno del cavallo» dice Billy in uno dei frammenti d'intervista. E non per niente Poncho afferma di provare autentico «fastidio per quel nuovo tizio che pensa di poter riassumere con un paio di domandine trent'anni di follia totale, di tentativi di fare musica e di restare uomini e avere una famiglia e vivere tra tutti i nostri problemi e disaccordi»: il tizio cui ironicamente si riferiscono queste parole è proprio il regista sceneggiatore Jarmusch… Sono i Crazy Horse stessi dunque i primi ad avvertire la difficoltà di raccontare o mostrare l'alchimia musicale che li unisce. Ma il regista se la cava bene accostando alternativamente immagini tratte dal tour Europa '96 e immagini di backstage degli anni '70 e '80. Si assembla così l'intera storia della rock band scivolando sull'onda dei ricordi dei quattro componenti che sembrano prendere spunto dai dettagli del passato (situazioni di vita vissuta oppure fotografie) inquadrati dalla macchina da presa di Jarmusch. La spontaneità dei discorsi degli artisti non va comunque a scapito della chiarezza documentaristica grazie alla struttura ben organizzata del lungometraggio girato in video 8 ed esteso a 35 mm, che fa spesso ricorso a movimenti di macchina volutamente sporchi e a una fotografia sgranata, in sintonia con lo spirito ribelle e graffiante dei Crazy Horse.
L'inizio stesso del documentario è una sintetica e ordinata presentazione di Neil, Ralph, Billy e Poncho. Quasi si trattasse di documenti d'identità in versione cinematografica. Poi si susseguiranno le didascalie Francoforte, Londra, Glasgow, Lione, Rotterdam, e ancora Francia, e ancora Inghilterra, e poi "somewhere in Europe"… E insieme ai luoghi le date: 1996, 1976, 1996, 1986, 1976, 1986 in questo viaggio musicale a spasso nel tempo. A collegare fra loro le tante esperienze artistiche contribuisce in larga misura Scott Young, il padre di Neil, che confronta presente e passato del gruppo. Ma le riprese sulle discussioni fra i quattro musicisti sono già di per sé eloquenti: vi si rintraccia il filo conduttore di rapporti d'amore e odio e intensa amicizia mai tramontati e forieri di un'esplosiva energia musicale.
Quasi con stile giornalistico, e ripreso da un'inquadratura fissa sullo sfondo costante di una stanza semivuota, Neil Young fornirà al regista-intervistatore brevi e intense definizioni dei caratteri di Ralph, Billy e Poncho. Tutti poi dedicheranno alcune parole ai momenti bui della loro storia (la morte del chitarrista Danny Whitten e del produttore David Briggs). E proprio attraverso uno stile di ripresa oggettivo tanto da sconfinare nell'asettico Jarmusch riesce a mettere in campo l'anima dei Crazy Horse e a spiegare cinematograficamente le parole di Billy: «Quando suoniamo insieme è come se fossimo una sola persona».

Jleana Cervai, mymovies.it





Il documentario, frutto del duraturo rapporto di amicizia e di stima reciproca tra Jim Jarmusch e Neil Young, si concentra in particolare sul suoi Crazy Horse, integrando i momenti musicali con i più disparati materiali girati tra il 1976 e il 1986, attraversando stanze d'albergo, discussioni animate, minuti particolarmente gustosi in cui un giovane Neil dà fuoco a un centrotavola nell’hotel di cui è ospite con la band e tenta di convincere della propria innocenza l’esterrefatta albergatrice con una surreale disquisizione sulla pericolosità di alcuni soprammobili, letture della Bibbia in pullman che culminano in graffianti definizioni della fede - “Dio è come…mi fa pensare a quando ho piantato degli alberi, non sono cresciuti come volevo e li ho tagliati tutti”, dice Neil - discorsi dal sapore assai jarmuschiano sulla possibilità di suonare o meno con i Beatles, l’insolito set naturale di un anfiteatro del primo secolo a.C. per un concerto francese - “un luogo antico, ideale per dei vecchi con della vecchia e sporca attrezzatura”, ironizza uno dei chitarristi che accompagnavano occasionalmente Neil Young in concerto, suggerendo però la coerenza con l’attitudine ruvida e genuina costantemente richiamata da testi e musica che per oltre 30 anni vengono portati in scena da quella che al di là di ogni retorica si definisce una “famiglia”: un corpo unico, che sul palco crea tanta energia da rendere singolare e riconoscibile il proprio suono anche quando non è tecnicamente perfetto.
Year Of The Horse, "l'anno del cavallo", concetto che rappresenta, al di là dello zodiaco cinese, un’istanza di libertà e di apertura al mutamento, alterna bianco e nero a colore, lunghe fasi di concerto a brevi riprese dei lirici e grandi cieli americani, filmati d'epoca a interviste più recenti, realizzate in una stanza volutamente spoglia, arredata soltanto da una sedia, una lavatrice e una bombola di gas, riproducendo fedelmente anche nell’estetica l'approccio sporco e generoso che Neil Young ha sempre mantenuto nei confronti della musica e di una visione politica e sociale non condiscendente, in particolare con i Crazy Horse ma anche nel corso di una lunga carriera individuale in cui si è confrontato con ogni sorta di espressione, dal cantautorato blues al garage, dal folk rock alla psichedelia, dalla composizione di colonne sonore per il cinema (una lunga serie – tra cui le splendide atmosfere rarefatte e intense per Dead Man di Jarmusch) alle esperienze come attore, montatore, direttore della fotografia e regista (come in Greendale, film in super 8 che accompagna un concept album del 2003, riflessione su una comunità rurale e sulla difficoltà di mantenersi al riparo dalla corruzione e dal potere di una società schiacciante).

Ciò che stupisce è la mancanza di domande un po’ più audaci e stimolanti da parte di Jarmusch, che sembra quasi rassegnato a confermare la scherzosa protesta del chitarrista Frank 'Pancho' Sampedro, il quale etichetta come un’impresa persa in partenza da parte del regista quella di rendere in un documentario la comune, densa e mutevole esperienza di vita, oltre che musicale, dei Crazy Horse – in una delle brevi interviste afferma che “non significa nemmeno scalfire la punta dell'iceberg”, alludendo ad una indefinibile e gigantesca struttura di memorie, vissuto comune e cambiamenti troppo rapidi per essere anche soltanto ricordati o raccontati – “Mentre il clown che è malato / Fa il trucco del disastro / Per la razzia della mia testa e della mia faccia / Si muove troppo velocemente” (da “Mr. Soul”) – in effetti le dichiarazioni di vari collaboratori occasionali del gruppo risultano piuttosto ovvie e non forniscono spunti di riflessione particolarmente interessanti, e viene in qualche modo sprecato anche l’incontro con il padre di Neil Young, Scott, occasione che avrebbe potuto arricchire il documentario di un aspetto particolarmente intimo e dipingere da un punto di vista inconsueto il ritratto del grande cantautore americano: ci si limita invece a riprenderlo infatti mentre dichiara che gli anni hanno reso più intenso l’impegno e l’intensità del progetto artistico dei Crazy Horse. Sembrano affrettate e un po’ lacunose anche le sequenze in cui si tocca brevemente il rapporto del gruppo con il chitarrista Danny Whitten, scomparso per overdose, e con lo storico produttore David Briggs: la sensazione è che la debolezza delle interviste sia la conseguenza della scelta precisa, e apprezzabile, malgrado comporti un po’ di noia come effetto collaterale, di evitare ogni atteggiamento di tipo aggressivo e interlocutorio nei confronti di un vecchio amico.

IL DVD - Sfrontatamente girato in super 8! (ma anche in 16mm e Video Hi8) è il fiero messaggio a lettere maiuscole con cui si apre il documentario, al quale segue immediatamente il perentorio invito ad alzare il volume di un film “nato per essere rumoroso”. Si entra volentieri nello spirito selvaggio e immediato di un’esibizione dei Crazy Horse accettando di buon grado l’immagine video spesso sgranata e il montaggio tipico del dvd di un concerto a opera di Jay Rabinowitz, collaboratore abituale di Jarmusch (Ghost dog, Coffee and cigarettes, Broken flowers) che rispettano la tensione sul palco e il calore del pubblico e facendo buon uso dell’audio, come consigliato, disponibile in Dolby Digital 5.1 e 2.0. Dispiace la mancanza di extra.

Margherita Palazzo, sentieriselvaggi.it


 
di Laura Putti da Repubblica del 05.09.1997

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