Harvest Moon - Gli articoli di Buscadero
L'IMPORTANZA DI ESSERE NEIL YOUNG
Ho dovuto sentirlo con le orecchie e poi con la coscienza, infine il mio cervello ha emesso il suo verdetto. Harvest Moon è un capolavoro e l’unica vera continuazione rispetto ad Harvest del 1972 sta nel titolo, perché la “luna del raccolto”, come direbbero i pellerossa, questa volta è una luna giusta. Ma la vera importanza di un disco come questo, ultimato nel 1991 mentre Young dava alle stampe il doppio live Weld, risiede nella ricchezza compositiva intrinseca delle canzoni e soprattutto nel legame saldo con ventisei anni di carriera. È vero che siamo davanti a un disco acustico, che quindi facilmente si può catalogare nello scaffale del multimilionario quasi omonimo, di Comes A Time (1978) e di Old Ways (1985) ma la verità è che Harvest Moon è molto più diretto e parente di Freedom, quell’album che tre anni or sono ci restituì un vecchio bisonte in piena forma. Un Neil Young con la voglia di fare e strafare.
Tuttavia nessun disco del canadese aveva presentato una precisione e una dimensione di disco-registrato-in-studio come questo. È facile sentirlo in brani come “From Hank to Hendrix” e soprattutto “Dreamin’ man”, credo la prima canzone in quattro quarti regolari da principio alla fine di tutta la carriera di Young. Eppure non si perde nulla di quel Neil un po’ sgangherato e svagato (in apparenza) che registrava canzoni come sogni, così come gli venivano. Harvest Moon in questo senso è un passo avanti, anche se non tutti i brani vengono, palesemente, dallo stesso periodo. In particolare “One of these days” e “Dreamin’ man” paiono appartenere, assieme a “Such a woman” e “From Hank to Hendrix” (questa potrebbe essere addirittura una composizione dei Waterboys attorno al 1987), a un momento vicino alla vena di Freedom. Solo in apparenza, e con un ascolto distratto, si potrà paragonare questo Young a quello di Comes A Time infatti. Là c’era un tono volutamente leggero, anche nelle canzoni più intense. Qui il tono è malinconico, ma di una malinconia struggente (“You and me” è uno dei brani più belli da oltre dieci anni a questa parte), struggente e sospesa tra la forza della maturità di un uomo arrivato alla mezza età ancora pieno di pulsioni e l’impercettibile tristezza di chi è troppo profondo per credere davvero che i sogni possano materializzarsi così come li si vede nella notte, o negli occhi che vedono. Ecco la grandezza del disco. Sentendo un nastro dal vivo del gennaio di quest’anno, i brani si sono amalgamati alla perfezione a classici come “Heart of gold” o “After the gold rush”.
La lunghissima “Natural beauty”, che conclude Harvest Moon, non assomiglia a nessuna delle epiche che abitavano spesso i suoi album, da “Like a hurricane” a “Cortez the killer”, “Cowgirl in the sand”, “Down by the river” – tutte elettriche e sofferte. Si tratta al contrario di un sollievo a sei corde in un registro rilassato rispetto agli standard del lungo canadese. Eppure l’album riesce a far convivere toni e situazioni, come la dolcissima e gentile “Harvest Moon”, che neppure in Freedom avevano trovato sbocco talmente fluido e interessante.
È anche difficile far capire a chi non conosce bene Young che questo non è il “vero Neil Young”, dato che tanta rilevanza hanno avuto i suoi ultimi due anni impegnati sul fronte del rumore. Ma sarebbe un grave errore dire che i trentacinque minuti di Arc, puro feedback montato con l’idea di una circolarità nella mente del nostro eroe, siano stati un capriccio. Neil Young è tutto questo, l’uomo che sa di non poter reggere la furia elettrica oltre un certo limite, un autore completo in un settore dove di artisti e critici completi al punto di capire che vedere a 360° significa stare un gradino più sopra della media, ce ne sono davvero pochi.
Se, come ci auguriamo tutti, sarà possibile dall’anno prossimo iniziare ad attraversare quel catalogo di oltre venti dischi inediti accumulati da Young (che, comunque, ne pubblica uno all’anno!), probabilmente ci si accorgerà che la sua non è un’evoluzione nel tempo, bensì nello spazio. E con Harvest Moon – facendo finta che non ci interessi sapere da dove arrivano, né da quando, le canzoni – Neil Young ha dimostrato definitivamente che l’importanza di essere lui è proprio quella di non essere mai dove tutti credono che sia, sebbene sia il personaggio stesso a farci entrare nel suo castello dove possiamo ammirare ogni spazio senza mai capire in quale epoca ogni stanza è stata ideata. Per questa ragione, e tutte le altre che l’ascoltatore attento si degnerà di trovare, Harvest Moon è un grande disco, uno dei migliori di sempre nella sterminata ed erratica produzione del canadese, un album certamente destinato a grande successo. Orecchie aperte per il raccolto.
Davide Sapienza, Buscadero 1992
Tuttavia nessun disco del canadese aveva presentato una precisione e una dimensione di disco-registrato-in-studio come questo. È facile sentirlo in brani come “From Hank to Hendrix” e soprattutto “Dreamin’ man”, credo la prima canzone in quattro quarti regolari da principio alla fine di tutta la carriera di Young. Eppure non si perde nulla di quel Neil un po’ sgangherato e svagato (in apparenza) che registrava canzoni come sogni, così come gli venivano. Harvest Moon in questo senso è un passo avanti, anche se non tutti i brani vengono, palesemente, dallo stesso periodo. In particolare “One of these days” e “Dreamin’ man” paiono appartenere, assieme a “Such a woman” e “From Hank to Hendrix” (questa potrebbe essere addirittura una composizione dei Waterboys attorno al 1987), a un momento vicino alla vena di Freedom. Solo in apparenza, e con un ascolto distratto, si potrà paragonare questo Young a quello di Comes A Time infatti. Là c’era un tono volutamente leggero, anche nelle canzoni più intense. Qui il tono è malinconico, ma di una malinconia struggente (“You and me” è uno dei brani più belli da oltre dieci anni a questa parte), struggente e sospesa tra la forza della maturità di un uomo arrivato alla mezza età ancora pieno di pulsioni e l’impercettibile tristezza di chi è troppo profondo per credere davvero che i sogni possano materializzarsi così come li si vede nella notte, o negli occhi che vedono. Ecco la grandezza del disco. Sentendo un nastro dal vivo del gennaio di quest’anno, i brani si sono amalgamati alla perfezione a classici come “Heart of gold” o “After the gold rush”.
La lunghissima “Natural beauty”, che conclude Harvest Moon, non assomiglia a nessuna delle epiche che abitavano spesso i suoi album, da “Like a hurricane” a “Cortez the killer”, “Cowgirl in the sand”, “Down by the river” – tutte elettriche e sofferte. Si tratta al contrario di un sollievo a sei corde in un registro rilassato rispetto agli standard del lungo canadese. Eppure l’album riesce a far convivere toni e situazioni, come la dolcissima e gentile “Harvest Moon”, che neppure in Freedom avevano trovato sbocco talmente fluido e interessante.
È anche difficile far capire a chi non conosce bene Young che questo non è il “vero Neil Young”, dato che tanta rilevanza hanno avuto i suoi ultimi due anni impegnati sul fronte del rumore. Ma sarebbe un grave errore dire che i trentacinque minuti di Arc, puro feedback montato con l’idea di una circolarità nella mente del nostro eroe, siano stati un capriccio. Neil Young è tutto questo, l’uomo che sa di non poter reggere la furia elettrica oltre un certo limite, un autore completo in un settore dove di artisti e critici completi al punto di capire che vedere a 360° significa stare un gradino più sopra della media, ce ne sono davvero pochi.
Se, come ci auguriamo tutti, sarà possibile dall’anno prossimo iniziare ad attraversare quel catalogo di oltre venti dischi inediti accumulati da Young (che, comunque, ne pubblica uno all’anno!), probabilmente ci si accorgerà che la sua non è un’evoluzione nel tempo, bensì nello spazio. E con Harvest Moon – facendo finta che non ci interessi sapere da dove arrivano, né da quando, le canzoni – Neil Young ha dimostrato definitivamente che l’importanza di essere lui è proprio quella di non essere mai dove tutti credono che sia, sebbene sia il personaggio stesso a farci entrare nel suo castello dove possiamo ammirare ogni spazio senza mai capire in quale epoca ogni stanza è stata ideata. Per questa ragione, e tutte le altre che l’ascoltatore attento si degnerà di trovare, Harvest Moon è un grande disco, uno dei migliori di sempre nella sterminata ed erratica produzione del canadese, un album certamente destinato a grande successo. Orecchie aperte per il raccolto.
Davide Sapienza, Buscadero 1992
Harvest vent’anni dopo, Harvest 2, ovvero Harvest Moon. Gli Stray Gators Tim Drummond, Kenneth Buttrey e Ben Keith in studio con lui, le back up vocals di Nicolette Larson, Linda Ronstadt e James Taylor alle spalle come allora, il compagno di vecchie battaglie Jack Nitzsche in qualche modo presente.
Forti sono le analogie con quello che è stato uno dei maggiori successi commerciali della sua carriera, ciononostante non legherei più di tanto questa nuova fatica discografica di Neil Young al celeberrimo suo album del passato. Non c’è una reale possibilità di confronto, anche il richiamo, al di là degli aiutanti convolti, mi sembra poco più che occasionale.
Questa è una nuova proposta musicale e basta, più il seguito di Arc / Weld che altro. Il passato è stato troppo grande per poter essere misurato col presente, il momento storico è diverso, gli anni trascorsi pesano troppo, non consentono pertanto seri e reali confronti, seppur in qualche modo “voluti” più dalla casa discografica perciò dal suo protagonista.
Questo è un disco che non esiterei di consigliare di acquistare a Natale, perché rappresenta un country folk con impianto pop piacevole e sereno, equilibrato e godibile. Attenzione però non ci sono brani capolavoro nella circostanza, non appaiono altri “Harvest” o “Heart of gold” o “Old man” o “Alabama” o “The needle and the damage done”, che ancora oggi ritroviamo nel repertorio on stage del cantautore canadese.
Le cose migliori si chiamano “Natural beauty”, “Unknown legend”, il brano che titola il disco “Harvest Moon”, “Old king”. “Natural beauty” è una splendida, tipica ballata delle sue, che ha in sé qualche reminiscenza di “Like a hurricane” sotto il profilo strumentale, una pubblica denuncia alla crisi ambientale registrata dal vivo in Oregon a Portland, durante il suo ultimo tour acustico invernale. Notevole il lavoro dell’armonica. “Unknown legend”, il brano d’apertura, è un’altra bella ballata dal ritmo abbastanza solido, l’ottimo refrain, un delicato assolo di armonica e la steel di Ben Keith in sottofondo. Ne è protagonista una donna, una leggenda sconosciuta, sempre in movimento.
“Harvest Moon” dovrebbe essere la canzone più gettonabile, almeno secondo le intenzioni del suo autore, penso. Ha qualcosa di “This old house” incisa da Young con Crosby, Stills & Nash per American Dream, anche se non può contare di un’analoga compattezza corale. È volutamente semplice, perché dovrebbe richiamare quella epica “senza luna” di allora, eppur decisamente deliziosa. “Old king” è una ballad che Neil canta con una certa grinta; il sostegno molto forte del banjo di Bill gli conferisce un’aria un po’ western. È dedicata al suo affezionatissimo cane, ora deceduto, che lo accompagnava sempre, anche in tournée. Per la verità, anche “War of man” dove si ritrova l’abituale versione pessimistica della vita secondo Neil, la guerra dell’essere umano non dà vincitori, è bella specie per i fraseggi chitarristici che mettono in comunicazione una strofa con l’altra, e il duetto avviato con una voce femminile.
Il resto del materiale è più normale, diciamo così, colpisce di meno perché in fondo lo conosciamo già. “From Hank to Hendrix” è una grande ballata d’amore, che si spinge fino a dire che è bello fare le cose che piacciono ma esse alla fine possono anche uccidere, armonica e organo si fanno sentire volentieri. “You and me” è quasi minuta, Neil è solo con la sua chitarra acustica al collo, anche se la voce femminile che l’accompagna gli è di indubbio aiuto. “One of these days” dal titolo plurisaccheggiato è pure semplice semplice, si fanno sentire la steel guitar in sottofondo e qualche timido assolo di acoustic guitar. “Dreamin’ man” è sulla stessa falsariga, abbastanza lenta mette in luce la seconda voce femminile che fa come da eco. “Such a woman” è il brano più diverso inserito, una sorta di “There is a world”, per restare in confronto con Harvest; lenta ballata d’atmosfera, dominata dal piano suonato da Spooner Oldham e soprattutto dagli archi condotti da Jack Nitzsche. Bello è il refrain con la voce femminile a supporto, meno centrato invece l’assolo di armonica.
Certo il disco è ipotizzabile ritenere che non ripeterà il boom di vendite ottenuto da Harvest, il suo accostamento ad esso sarà tuttavia di aiuto per la sua affermazione che pure è da considerarsi quasi garantita. Il pubblico di Neil in fondo ha sempre preferito il suo beniamino nelle vesti di menestrello chitarra in una mano e armonica a tracolla a quello che si presenta come un duro rocker tutto energia e elettricità.
Raffaele Galli, Buscadero 1992
Forti sono le analogie con quello che è stato uno dei maggiori successi commerciali della sua carriera, ciononostante non legherei più di tanto questa nuova fatica discografica di Neil Young al celeberrimo suo album del passato. Non c’è una reale possibilità di confronto, anche il richiamo, al di là degli aiutanti convolti, mi sembra poco più che occasionale.
Questa è una nuova proposta musicale e basta, più il seguito di Arc / Weld che altro. Il passato è stato troppo grande per poter essere misurato col presente, il momento storico è diverso, gli anni trascorsi pesano troppo, non consentono pertanto seri e reali confronti, seppur in qualche modo “voluti” più dalla casa discografica perciò dal suo protagonista.
Questo è un disco che non esiterei di consigliare di acquistare a Natale, perché rappresenta un country folk con impianto pop piacevole e sereno, equilibrato e godibile. Attenzione però non ci sono brani capolavoro nella circostanza, non appaiono altri “Harvest” o “Heart of gold” o “Old man” o “Alabama” o “The needle and the damage done”, che ancora oggi ritroviamo nel repertorio on stage del cantautore canadese.
Le cose migliori si chiamano “Natural beauty”, “Unknown legend”, il brano che titola il disco “Harvest Moon”, “Old king”. “Natural beauty” è una splendida, tipica ballata delle sue, che ha in sé qualche reminiscenza di “Like a hurricane” sotto il profilo strumentale, una pubblica denuncia alla crisi ambientale registrata dal vivo in Oregon a Portland, durante il suo ultimo tour acustico invernale. Notevole il lavoro dell’armonica. “Unknown legend”, il brano d’apertura, è un’altra bella ballata dal ritmo abbastanza solido, l’ottimo refrain, un delicato assolo di armonica e la steel di Ben Keith in sottofondo. Ne è protagonista una donna, una leggenda sconosciuta, sempre in movimento.
“Harvest Moon” dovrebbe essere la canzone più gettonabile, almeno secondo le intenzioni del suo autore, penso. Ha qualcosa di “This old house” incisa da Young con Crosby, Stills & Nash per American Dream, anche se non può contare di un’analoga compattezza corale. È volutamente semplice, perché dovrebbe richiamare quella epica “senza luna” di allora, eppur decisamente deliziosa. “Old king” è una ballad che Neil canta con una certa grinta; il sostegno molto forte del banjo di Bill gli conferisce un’aria un po’ western. È dedicata al suo affezionatissimo cane, ora deceduto, che lo accompagnava sempre, anche in tournée. Per la verità, anche “War of man” dove si ritrova l’abituale versione pessimistica della vita secondo Neil, la guerra dell’essere umano non dà vincitori, è bella specie per i fraseggi chitarristici che mettono in comunicazione una strofa con l’altra, e il duetto avviato con una voce femminile.
Il resto del materiale è più normale, diciamo così, colpisce di meno perché in fondo lo conosciamo già. “From Hank to Hendrix” è una grande ballata d’amore, che si spinge fino a dire che è bello fare le cose che piacciono ma esse alla fine possono anche uccidere, armonica e organo si fanno sentire volentieri. “You and me” è quasi minuta, Neil è solo con la sua chitarra acustica al collo, anche se la voce femminile che l’accompagna gli è di indubbio aiuto. “One of these days” dal titolo plurisaccheggiato è pure semplice semplice, si fanno sentire la steel guitar in sottofondo e qualche timido assolo di acoustic guitar. “Dreamin’ man” è sulla stessa falsariga, abbastanza lenta mette in luce la seconda voce femminile che fa come da eco. “Such a woman” è il brano più diverso inserito, una sorta di “There is a world”, per restare in confronto con Harvest; lenta ballata d’atmosfera, dominata dal piano suonato da Spooner Oldham e soprattutto dagli archi condotti da Jack Nitzsche. Bello è il refrain con la voce femminile a supporto, meno centrato invece l’assolo di armonica.
Certo il disco è ipotizzabile ritenere che non ripeterà il boom di vendite ottenuto da Harvest, il suo accostamento ad esso sarà tuttavia di aiuto per la sua affermazione che pure è da considerarsi quasi garantita. Il pubblico di Neil in fondo ha sempre preferito il suo beniamino nelle vesti di menestrello chitarra in una mano e armonica a tracolla a quello che si presenta come un duro rocker tutto energia e elettricità.
Raffaele Galli, Buscadero 1992