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Stephen Stills: Stephen Stills (1970)


Neil Young e Stephen Stills, uniti a triplo filo da un’amicizia profonda, da una irrisolta rivalità, dagli scarmigliati bioritmi del destino. Si attraggono e si respingono regolarmente, con tenacia. Il loro primo incontro innesca la reazione chimica che trasforma gli Au Go Go Singers - Stills con Richie Furay - nei Buffalo Springfield, anno 1966. Animati da una strana tensione poetica, i Buffalo imbastiscono un canzoniere maculato di genio, talora discontinuo, a tratti ingenuo, più o meno imprescindibile. Il merito non è del solo Cavallo Pazzo, basti dire che la canzone con cui fecero il botto e grazie alla quale perlopiù vengono ricordati, For What it's Worth - folk di protesta, sarcasmo RnB, barbagli psych - portava la firma e il marchio di mister Stills. La storia dei Buffalo fu breve e piuttosto ingenerosa, al termine della quale Young se ne andò pericolante per la sua strada, e sappiamo che razza di strada sarà. Stills invece rispose ad una chiamata che farà epoca: dall’altra parte del filo c’era Al Kooper piuttosto in ambasce, alla disperata ricerca di un chitarrista che finisse il lavoro lasciato a metà da un Mike Bloonfield letteralmente scoppiato nel bel mezzo delle incisioni per Super Sessions. Stephen era in realtà una terza scelta, ma dobbiamo tenere presente che le prime due rispondevano al nome di Randy California e Jerry Garcia, fuoriclasse al massimo del fulgore quindi troppo impegnati per accettare. Ne venne fuori lo stesso un lavoro epico. Anzi: ne venne fuori così un lavoro epico, cui Stills impose un’impronta decisiva. Suo il piglio affilato della seconda parte, quell’ipercinetismo graffiante e minuzioso che così bene contrasta i travolgenti virtuosismi di Bloomfield sul primo lato. E dopo, cosa accade? Dopo, accade CSN. Un trio delle meraviglie, su disco e al botteghino. Beh, Crosby e Nash: ex Byrds il primo, correo quindi nella definizione di un sound che ancora oggi miete proseliti, serafico cantastorie il secondo con gloriosi trascorsi negli inglesi Hollies. Assieme a Stills la miscela si rivelò perfetta, suadente l’impasto stilistico (blues+folk+psych), fantastico il gioco delle voci. Comprensibilmente, le platee li reclamavano on stage. Fu a quel punto che si aggregò Young, e la miscela da perfetta si fece esplosiva. Un album in studio (Deja Vu, marzo 1970) e quell’incredibile doppio live di cui tutti sapete. Ora, fermiamoci un attimo, perché nel 1970 (il 12 maggio, per la precisione), Stills debutta con un album solista. Omonimo, e bellissimo. Di cui oggi si parla poco, troppo poco. Circondato da storie più alte e vistose, scompare alla vista. Quante volte ne avete letto, quanto lo trovate citato nei consuntivi del periodo? Quasi niente, quasi mai. Eppure, proprio tanto pedigree avrebbe dovuto fare da propellente, fungere da piedistallo perfetto. Invece, macché. Ora, avete presente Black Queen, torrido blues acustico piantato nel mezzo della nuova stupenda edizione di 4 Way Street? L’originale sta qui, scabro nudo e intenso, sangue rappreso nella bianca gola di Stephen, fingerpicking sussultante su corde intossicate, e non ci sono storie: un grandissimo pezzo. Per non dire quella Love The One You’re With (ospiti alle voci oltre ai sodali Crosby e Nash, Rita Coolidge, Priscilla Jones e John Sebastian) che è in fondo un facezia festosa - pur se attraversata da sublime invasamento gospel - come del resto sua “sorella” Sit Yourself Down. Semmai, gospel per gospel, direi di quella Church (Part Of Someone) che vale oro solo per quell’organo lattiginoso sullo sfondo o per il frinire solenne degli archi, altarino cui nel tempo molti avranno rivolto laiche preghiere. Chessò, da Joe Cocker ai Black Crowes. Insomma, c’è materiale a sufficienza per avviare un’indagine conoscitiva. Per giunta, non mancava a Stills la voglia di intorbidare le acque, di battere terreni meno tradizionali scomodando ad esempio con Cherokee strutture jazz-soul in salsa psych (abbagliante e sinuoso il lavoro degli ottoni, insolita quella chitarra-sitar, stordente il ricamo orizzontale del flauto), mentre To A Flame sembra aggirarsi negli stessi vapori di un Tim Buckley - e in questo molto gioca la trepida tensione tra un liquoroso vibrafono ed il piglio soul degli archi. Ci sono poi da mettete in conto le comparsate di Eric Clapton (in Go Back Home, dove manolenta asperge quel ruvidume lisergico che gli veniva ancora così bene) e soprattutto di Jimi Hendrix (a addomesticare cataclismi di corde nel rhythm and blues nevrastenico Old Times Good Times, con Stephen relegato all’organo hammond). Jimi, grande amico di Stills, scomparve poche settimane dopo le sessioni d’incisione: il disco è dedicato a lui. Non ho ancora detto nulla di Do For The Others, e sarebbe grave scordarsene, non fosse che per la solenne cifra folk tenuta sul chi vive dal ricamo vibrante delle chitarre, con la voce avvolta nel proprio stesso madreperlaceo sogno. In chiusura, We Are Not Helpless, sorta di risposta alla Helpless younghiana nella quale i sussurri folk acquistano progressivamente corpo soul per ritrovarsi infine in un tripudio gospel di piano, archi, fiati, organo e festosità corale. Una angelica, solenne, speranzosa malinconia incarnata rock.
Stefano Solventi


Nel 1970 esce Stephen Stills, album in cui è facile intuire l'ecletticità del suo autore, che spazia fra blues, gospel e country-rock. Senza sbavature, è quasi una summa della musica rock del periodo (non a caso vi prendono parte tantissimi musicisti, tra cui spiccano due nomi: Eric Clapton e James Marshall Hendrix), interpretata da un musicista tecnicamente eccelso ed un performer assolutamente sorprendente, con una voce in grado di passare da dolci melodie a graffianti blues.
The God suona in Go Back Home, uno splendido blues elettrico in cui le chitarre di Clapton e Stills si alternano tra riff e assoli trascinanti, con la voce di quest'ultimo che si tinge di nero per l'occasione. Peccato che la canzone ricordi un pò troppo Pearly Queen dei Traffic. Con Hendrix, Stills aveva suonato in una sessione di registrazioni a casa propria e verso di lui nutriva una profonda ammirazione, tanto che il disco è dedicato proprio a Jimi, disgraziatamente morto quell'anno, con una poesia di John Quarto riportata nell'ultima pagina del booklet. In Old Times Good Times, Stills fa posto alla chitarra di Hendrix e suona l'organo, in un pezzo tiratissimo, in cui la sezione ritmica con il basso di Calvin Fuzzy Smith e le percussioni Conrad Isedor e Jeff Whittaker, non fa rimpiangere Mitchell e Redding. Tuttavia nonostante la presenza di tante guest stars il disco è assolutamente personale, sia nei testi che nella musica e mostra la grande capacità compositiva del nostro, il suo eclettismo musicale e interpretativo e la sua straordinaria tecnica chitarristica e non solo, dato che in più di un'occasione il nostro suona basso, organo e tastiere e perfino la batteria. Black Queen è una torrido blues acustico, scabro nudo e intenso, sangue rappreso nella bianca gola di Stephen, fingerpicking sussultante su corde intossicate, e non ci sono storie: un grandissimo pezzo. Sul versante folk troviamo Do For The Others che vive del ricamo vibrante delle chitarre, con la voce avvolta nel proprio stesso madreperlaceo sogno. Per non dire di quella Love The One You’re With (ospiti alle voci oltre ai sodali Crosby e Nash, Rita Coolidge, Priscilla Jones e John Sebastian) che è in fondo un facezia festosa - pur se attraversata da sublime invasamento gospel - come del resto sua “sorella” Sit Yourself Down. Sul versante gospel troviamo quella Church (Part Of Someone) che vale oro solo per quell’organo lattiginoso sullo sfondo o per il frinire solenne degli archi, altarino cui nel tempo molti avranno rivolto laiche preghiere. Chessò, da Joe Cocker ai Black Crowes. Se a ciò si aggiunge la voglia di Stills di intorbidare le acque, di battere terreni meno tradizionali scomodando ad esempio con Cherokee strutture jazz-soul in salsa psych (abbagliante e sinuoso il lavoro degli ottoni, insolita quella chitarra-sitar, stordente il ricamo orizzontale del flauto), mentre in To A Flame sembra aggirarsi negli stessi vapori di un Tim Buckley - e in questo molto gioca la trepida tensione tra un liquoroso vibrafono ed il piglio soul degli archi. In chiusura, We Are Not Helpless, sorta di risposta alla Helpless younghiana nella quale i sussurri folk acquistano progressivamente corpo soul per ritrovarsi infine in un tripudio gospel di piano, archi, fiati, organo e festosità corale. Una angelica, solenne, speranzosa malinconia incarnata rock. 
Alessandro Creazza
 

"Stephen Stills" e' un disco di rara bellezza. Probabilmente uno di quei capolavori del rock dimenticati con l' andare del tempo. Stills a chiusura parziale dell' esperienza con i C. S. N. & Y. sul finire del 1970 confeziona, scrive, produce e se lo suona "Stephen Stills". L' album presenta lui stesso alle prese con tantissimi strumenti ed un numero stratosferico di grandi ospiti. Uscito nel novembre 1970 il disco e' dedicato a James Marshall Hendrix che in "Stephen Stills" era stato ospitato nel brano "Old times good times". In "Go back home" si assiste alla presenza elettrica di Eric Clapton . Solare, esaltante, "Love the One You're with" apre grandiosamente il disco. Il brano si muove su linee acustiche ben ritmate sopra le quali dei cori stupendi rendono superbo il brano. L' entrata centrale di organo Hammond e cori e' da brividi. "Do for the others" tutta suonata da Stills : alle chitarre, basso, percussioni e voce. Intima. Una perla. "Church (part of someone)" e' una di quella canzoni che man mano che avanza sai che sta arrivando qualcosa di incredibile. In effetti si muove su linee di piano e d' organo, poi quando arrivano i cori gospel e gli arrangiamenti orchestrali c' e' solo esaltazione auditiva. "Old Times Good Times" e' un ottimo rock, ben assemblato da organo e chitarre elettriche. Si sente Hendrix. "Go back Home" dai tratti blueseggianti presenta uno Stills con voce ben roca ed una chitarra solista di Clapton con leggerissimi effetti wha-wha. "Sit yourself down" e' un altro capolavoro di canzone rockeggiante su basi di piano e chitarra. Ma sono gli interventi-ritornello ai cori che la rendono superlativa. "To a Flame" e' un' altra perla di Stills scritta al piano. Intima e profonda si avvale della supervisione di Arif Mardin che ne aggiunge sonorita' percussive e melodiche speciali. "Black Queen" esce dal coro delle canzoni del disco. Registrata live : sono cinque minuti di chitarra acustica e voce molto roca che viaggiano tra blues-folk-country. Particolare. Con "Cherokee" siamo in splendido territorio soul-rock. All' organo c' e' Booker T. Jones ed ai fiati Sidney George. L' arrangiamento orchestrale questa volta e' tutto di Stills. Bellissimo pezzo. "We Are not Helpless" chiude magnificamente il disco. Parte lentissima su chitarra acustica prima e pianoforte poi. Intervengono ancora arrangiamenti orchestrali ed un coro super-celestiale. Finale superlativo. Dopo "Four Way Street" dei C. S. N. & Y. i quattro se ne andavano ad iniziare carriere soliste. Si sarebbe potuto pensare che avessero esaurito il loro potenziale creativo. Soprattutto Stills che nei dischi d' insieme aveva fornito parecchio materiale d' alto livello qualitativo. Invece . Tutte le canzoni di "Stephen Stills" sono molto belle, alcune sorprendono per la ricchezza vocale che manifestano. E' un disco di sano rock, passato alla storia per avere ospitato Hendrix e Clapton; nella realta' i due non fanno molto per rendere il disco un capolavoro : i loro fraseggi chitarristici sono normale routine. Il disco e' un capolavoro per tutt' altre cose. Innanzitutto per la successione grandiosa dei brani, quindi per l' impressionante numero di personaggi ai cori utilizzati e soprattutto per la straordinaria polistrumentalita' di Stephen Stills, qui nel disco in forma smagliante.
Il Rock


Stephen Stills (1970, CD Atlantic 7206-2)

Love the One You're With 3:03
Do for the Others 2:52
Church (Part of Someone) 4:05
Old Times Good Times 3:38
Go Back Home 5:56
Sit Yourself Down 3:05
To a Flame 3:10
Black Queen 5:28
Cherokee 3:25
We Are Not Helpless 4:17

Tutte le canzoni sono di Stephen Stills

Il Cast
John Barbata: Drums
Eric Clapton: Guitar
Priscilla Coolidge: Vocals
Rita Coolidge: Vocals
David Crosby: Vocals
Cass Elliot: Vocals
Sidney George: Alto Flute,
Richard Hayward: Drums
Jimi Hendrix: Guitar
Conrad Isadore: Drums
Booker T. Jones: Keyboards, Organ, Vocals
Priscilla Jones: Vocals
Claudia Lanier: Vocals
Shirley Matthews: Vocals
Graham Nash: Vocals
Judith Powell: Vocals
Calvin "Fuzzy" Samuels: Bass, Vocals
John Sebastian: Vocals
Larry Steele: Vocals
Stephen Stills: Bass, Drums (Steel), Guitar, Keyboards, Organ,
Percussion, Vocals
Liza Strike: Vocals
Dallas Taylor: Drums
Jeff Whittaker: Congas
Tony Wilson: Vocals

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