Crosby-Pevar-Raymond: Just Like Gravity (2001)
Non diventerà - non sono più quelli, i tempi - un'icona hippy, un distintivo da appuntare sull'American Dream e sul bavero della controcultura come CSNY, ma CPR è già un simbolo da ostentare con orgoglio per chi crede che l'utopia californiana, in qualche modo, non è mai finita: non se si tratta di inseguire ancora un'ecologia dei suoni, un'estetica che profuma di grandi spazi, natura incontaminata e apertura della mente senza gli artifici e le semplificazioni mistificatorie di tanta "ambient" e new age di questi giorni. Il bello è che il trio - David Crosby, chitarra e voce, il figlio ritrovato James Raymond, tastiere, e Jeff Pevar, chitarra solista - non indulge solo in nostalgie, annusa i tempi nuovi e porta vento fresco sulle sponde del Pacifico. Ci era riuscito un paio d'anni fa con il primo album di studio, si ripete e anzi si supera con questa seconda prova (dal vivo, poi, come spesso succede ai grandi talenti, si produce uno scatto ulteriore, impossibile da catturare in sala). Sarà che Crosby, voce esile e flessibile come un giunco ingabbiata in una corporatura goffamente ingombrante, sa ancora toccare le corde del cuore e della chitarra con quel suo stile inimitabile che, veleggiando leggero tra arpeggi folk, armonizzazioni jazz e flash psichedelici, restituisce come pochi altri l'incanto mistico e assorto di certe ambientazioni californiane, il blu increspato di schiuma dell'oceano e i tramonti sulle alture di Tamalpais. O che Pevar è uno dei migliori chitarristi rock oggi in circolazione, stringato quando la partitura non ammette sbavature, impeccabile nel contrappunto alle armonie vocali, pronto a liberare la chitarra (elettrica o acustica che sia) in soli brevi e brucianti ogni qual volta lo spazio della canzone lo concede. Si finirebbe per essere ingiusti nell'individuare in Raymond l'anello più debole della catena: perché il giovane musicista risulta anch'egli strumentalmente ineccepibile (soprattutto nel fluido fraseggio pianistico) e perfetto controcanto vocale al leader (sarà il legame di sangue, ma l'alchimia funziona eccome) oltre a rappresentare, non va dimenticato, anche il primo motore e causa scatenante dell'ennesima rinascita artistica del vetusto genitore. Ma è indubbio che a convincere meno, nel disco, sono certe sue sterzate in direzione fusion sul modello Steely Dan (che anche David, d'altra parte, adora: si ascolti l'iniziale e peraltro assai piacevole "Map to buried treasure", aperta da un inatteso riff in puro stile The Edge), che conferiscono una patina un po' troppo fredda e formale a una musica che insegue sempre e comunque canoni estetici di alto livello. E' il puro talento del patriarca Crosby, viceversa, a condurre le danze nei momenti migliori: l'acid folk elusivo, quasi impalpabile, del suo miglior repertorio rinasce negli stop and go e nelle scale jazzate di "Kings get broken" (coronata da un bel coro in odor di gospel), nella assorta, quasi spettrale semplicità acustica di "Just like gravity", nel magnetismo di "Climber" (sembra quasi di sfogliare le pagine ingiallite di "CSN" o "If I could only remember my name": "Guinnevere" e "Traction in the rain" non sono troppo distanti). "Angel dream" esplode come un tramonto infuocato di suoni e voci, "Coyote king" vede Raymond ripercorrere felicemente le orme di Bill Payne e dei Little Feat, e "Eyes too blue" è un altro squarcio irresistibile, una delicata e malinconica ballata californiana come Dio comanda incorniciata da un'armonica che più younghiana non si può. Non è tutto di questo livello, ma chi osava ancora chiedere tanta grazia e poesia all'uomo che più di una volta ha fatto il viaggio di ritorno dall'inferno?
Alfredo Marziano, Rockol
Successivamente
l’ascolto di quell’album ha fatto capire che la nuova avventura musicale
del vecchio Croz non era soltanto una maniera di mettere a posto la
propria coscienza e contenere il senso di colpa. L’unione musicale con
il figlio (peraltro discreto pianista e bravissimo compositore) e con
l’eccellente chitarrista Jeff Pevar ricordava molto la magica formula
dei primi CSN: armonie vocali ravvicinatissime, melodie ricercate,
atmosfere californiane, mélange elettro-acustica raffinatissima.
Gli
straordinari contenuti musicali del disco hanno contato assai più delle
dichiarazioni dello stesso Crosby improntate, per altro, a grande
ottimismo e fiducia in questa sua ennesima rinascita personale e
artistica. Persino nel corso della presentazione dell’album reunion con
gli amici Stills, Nash & Young (e del loro fortunatissimo tour
americano dello scorso anno), Crosby ha ribadito una volta di più che
quella con i vecchi compagni d’avventura sarebbe stata solo una (felice)
parentesi e che i suoi sforzi principali si sarebbero indirizzati in
direzione CPR.
Detto fatto. Dal prossimo 18 giugno, il nuovo
lavoro discografico di Crosby, Pevar e Raymond sarà disponibile in tutti
i negozi di dischi. Dico subito agli appassionati che si tratta di un
disco bellissimo che rafforza una nostra convinzione: cioè che CPR abbia
raccolto l’eredità artistica di CSN nel nuovo millennio.
Crosby
(denominatore comune) è in forma smagliante, sia come interprete che
come compositore sostenuto in modo perfetto dai suoi partner. E non è
una novità per chi ha avuto modo di vedere il gruppo dal vivo. Come (e
meglio) di quanto dimostrano le due registrazioni live disponibili su cd
(Live At Wilthern e Live At Costa Mesa) un concerto di CPR è davvero
una grande esperienza musicale ed emotiva: il repertorio oscilla tra
presente e passato (CSNY), tra futuro e passato remoto (Byrds) in una
varietà stilistica divertente che pure mantiene equilibri sonori
invidiabili.
Tutte queste peculiarità si ritrovano nel nuovo
lavoro di CPR che parte con una travolgente Map To Buried Treasure, in
perfetto clima CSN ma con un groove (come nella eccitante Northern
Border) che può ricordare a seconda dei gusti il miglior Bruce Hornsby o
i primi Steely Dan: il testo, scritto a quattro mani da David e dalla
moglie Jan, è uno straordinario giuramento di fedeltà/dichiarazione
d’amore eterno. Dopo un’altrettanto positiva e intensa Breathless
(scritta da Crosby e dal figlio James che si cimentano con successo
anche nella più cupa Angel Dream) si vira verso i classicci territori
chiaroscuri à la Crosby con Darkness, ballad obliqua che si apre con un
chorus solare.
Le eccellenti qualità compositive di Raymond,
davvero in un momento di grazia creativa, vengono evidenziate in due
brani diversi tra loro ma in egual misura emblematici dell’album: la
suggestiva (e molto ‘crosbyana’) Eyes Too Blue che presenta anche un
magnifico duetto vocale padre/figlio e la trascinante Jerusalem Syndrome
che, per l’accattivante melodia, per il testo a modo suo disincantato,
per la costruzione armonica e per i suoni (armonica a bocca su tutti)
ricorda la vecchia scuola folk-rock dei Byrds. Così come assai byrdsiano
è l’attacco etnico/psichedelico di Gone Forever, mentre sempre grazie
alla prolifica penna di James, assai gradevole risulta Coyote King,
brano semi-acustico in classico stile californiano.
Gli amanti del
Crosby d’annata, quello dei brani acustici alla Triad per intenderci,
troveranno pane per i loro denti con l’enigmatica Climber e con la
ancora più affascinante Just Like Gravity che chiude il disco con un
tocco di eleganza superlativo. Un disco davvero bello, in grado di
accontentare palati sopraffini, che ci ricorda che la California non è
solo terra di surf punk, neo metal o crossover ma anche nel nuovo
millennio rimane patria di grandi melodie positive e di eterne good
vibrations.
Voto: 8+
Perché: conferma la freschezza classica di un trio che poggia su una leggenda del rock sempre in grado di emozionare con canzoni bellissime, arrangiate con gusto, cantate in modo elegantissimo.
Perché: conferma la freschezza classica di un trio che poggia su una leggenda del rock sempre in grado di emozionare con canzoni bellissime, arrangiate con gusto, cantate in modo elegantissimo.
Ezio Guaitamacchi, JAM online