Intervista a Stephen Stills
di Ernesto De Pascale, www.ilpopolodelblues.com
Prima di tutto le mani. Quelle mani che hanno arpeggiato la chitarra in “4 + 20”, tirato allo spasmo le corde in “Carry On“, spinto fino a fondo scala la leva dell’elettrica in “For what it’s worth“. Poi gli occhi, quegli occhi clear blue sky che sono stati la porta per il paradiso californiano mai visto ma sempre sognato. Poi la voce, quella voce: un misto di rythm & blues e pulizia, di sporcizia e malinconica serenità. Proprio come la musica, la sua musica. Quella di Stephen Stills che è qui davanti a me, impegnato a separare i gamberetti dai totanini e dai muscoli e da certe sedicenti cozze che non voglio sapere da dove arrivano in questo piatto di spaghetti allo scoglio troppo grande per uno che ha passato la vita divorando il proprio talento. C’è ancora Stephen Stills: non ha perso il suo umorismo, la velocità tutta newyorchese (terra d’origine mai reietta) nella risposta, l’accoppiamento labirintico di idee, la capacità di commentare tutto con poche acerbe parole e passare oltre, further. “Quando ci siamo incontrati la prima volta, Ernesto, venticinque ani fa a Roma, ce l’avevo con il presidente degli Stati Uniti d’America, con lo stato del mondo e delle cose, il futuro del pianeta! Eccomi qui con un nuovo asshole al potere, mio figlio maggiore che mi chiede una mano per finire il suo disco e un nuovo figlio di otto mesi. In quanti possono vantarsi di essere noni e padri contemporaneamente? “. ”Anthony Quinn e Kirk Douglas“; rispondo io. “Esatto, man!. Due dei miei idoli” , biascica, tirando su (“inalando” mi suggerisce il suo addetto stampa) l’ultima linguina. Stills dimentica che all’aeroporto di Fiumicino ci scolammo insieme 4 martini dry e lui, per finire la seduta, un bloody mary (“per tirarmi su” mi disse) la mattina alle dodici, senza fare una piega, come veri professionisti. Era depresso per una storia d’amore e perché non riusciva a capire che ci faceva ospite di una tournee di un cantautore locale che – sue parole – pareva “uscito da un fumetto” (chi ricorda?). Mi parlò della notte dopo Monterey Pop festival 1967 con Hendrix e Buddy Miles, assediati in un cottage a suonare e circondati dalla polizia, del Venezuela, ma si rifiutò di dirmi dove si era nascosto Bruce Palmer( il mitico bassista dei Buffalo Springfield, una delle prime casualità dell’LSD di buona qualità). Indossava una camicia a nido d’ape azzurra e una cravatta rosa, pareva dovesse andare a un matrimonio di italoamericani a Little Italy. Mi confessò che la cravatta gliela aveva portata il padre da Roma, venti anni prima e che secondo lui, era appartenuta a Marcello Mastroianni. Il tempo ha lasciato diverse cicatrici sul fisico di Stephen: il volto, scavato dalla fatica, si riaccende negli occhi, l’articolazione facciale provata da qualche evidente problema mascellare (e vi pare poco per uno con una voce così!), la deambulazione è incerta, le mani, quelle mani, mostrano i segni degli anni, l’intero corpo pare aver subito una forte trasformazione, come se una dieta “chimica“ avesse cambiato l’assetto generale. L’artista è completamente sordo dall’orecchio destro.
Ulteriori particolari ve li risparmio. Nonostante questo Stills sul palcoscenico del Summer Festival di Lucca, dove si esibisce questa sera – sei luglio - con gli amici di sempre, David Crosby e Graham Nash , dopo un incerto avvio, licenzierà una memorabile performance di stile, classe, eleganza e smisurato abbandono sonoro. Il disco nuovo, il vero motivo per cui sono qui, è presto accantonato. “A Neil Young ho mandato non so quanti brani e mi ha tenuto fermo per mesi. Poi, un giorno mi chiama e mi dice: “ci vediamo domani“. E in sei take abbiamo fatto tutto. Questo è Neil!“. E poi il motivo della lunga attesa “ quei due – indicando David e Graham che cenano amabilmente con le famiglie (Stephen gira solo, con un assistente e le chitarre) – hanno preso le mie composizioni migliori per i dischi che abbiamo realizzato insieme. Mettere su un album mio pareva rubare la marmellataa loro”. “Poca prolificità?“, “macchè! ho altri quaranta brani pronti!”. Tutte dichiarazioni pertinenti, ma che mi lasciano poco soddisfatto. Alla fine, decido di affondare: “Dai Steve, tanto nuovo questo disco poi non è – gli contesto io – ci suona il percussionista Willie Bobo, è morto nel 1978!…” “Spooky”, (“lingua lunga” ma si dice anche per commentare un evento spettrale), mi rimprovera lui, ”Bobo è più vivo di tanti vivi morti”, e con questo liquida l’album. E’ a questo punto, però, che il vero Stills viene a galla. Potremmo parlare dei Buffalo Springfield, del trio, del quartetto con Young, di Woodstock Altmont, Londra 1974, i fantastici Manassas, dell’incerto ”Long May You Run”, le decadi offuscate da chissà quali misture, con il tempo scandito da mille reunion e promesse. Poi una illuminazione e una regola insegnatami tanti anni fa: mai menarla troppo a un musicista della vecchia scuola sulla sua lunga e gloriosa carriera, lo annoierete, gli mostrereste solo i fantasmi di un passato troppo glorioso con cui competere. Parlategli piuttosto, che so!, di….Napoleone, ad esempio. Viene così fuori che Stills è appena tornato da Waterloo e che vuole andare all’isola d’Elba per visitare i luoghi dell’esilio e che gli americani sono un popolo di ignoranti ( principio sul quale in linea di massima concordiamo). Il tema sembra quanto mai lontano dal campo d’azione di uno dei più grandi talenti della musica rock americana ma – lentamente – le cosse cominciano ad avere un senso. “Ernesto - mi dice a un centimetro dal naso - ce l’hai presenti i grandi condottieri di una volta? Alessandro Magno, Napoleone e altri. Ecco: nella musica non ci sono più: Ahmet (Ertgun) si è ritirato, Bill (Graham) è morto, Doc Pomus ci ha lasciato negli anni ottanta, i Chess sono soltanto editori, Barclay (il grane uomo della discografia francese al quale stills era legato da antica amicizia) se ne è andato. Chi resta? Claude Nobs a Montreux in Europa, eravamo da lui ieri al festival, e qualche bel nome a L.A. come David Geffen e Lenny Waronker o Clive Davis a New York (ma non avevi litigato un po’ con tutti, Steve?…). Questa era gente con cui facevi mattina a giocare a poker e a bere wiskey, a ridere e ad ascoltare musica. Una volta montammo un palcoscenico in casa di Mo Ostin per fare esibire delle go go girls. Certo, erano dei rascals, ma di alta classe”. Poi Stephen si ferma un attimo, guarda verso il cielo e ci pensa un po’ su. “Ti potrà sembrare una visione romantica della esistenza e da vecchio rock bohemien ma, credimi, questa resta la mia gente!”.
Poi si volta verso Crosby e con due dita fa finta di sparargli. Crosby, con l’unica espressione che ha, gli sorride facendo il segno della pace. “Allora perché sei qui?“ gli chiedo spontaneamente “perché è l’unico posto dove sto bene, la strada!”. E aggiunge: “ho sessantaquattro anni e abbiamo viaggiato tutta la notte sulle Alpi, sali e scendi da Montreux fino a qui. Sono giunto in albergo distrutto che mi pareva che un serpente a sonagli avesse danzato nel mio corpo e ho dormito tutto il giorno. Mi sono svegliato con un mal di testa incredibile e comincio a sentirmi meglio ora. Adesso sono con te e fra mezz’ora suono in una città che non conosco se non di nome ma che mi dicono aver più storia di tutto il continente americano. Quando sarò a casa, fra una settimana, riabbraccerò il mio piccolo bambino e poi tornerò a vivere. Quale vita? Quella delle news televisive? O quella fata di memorie? Non ci stò!. Cosa altro vuoi chiedere alla vita se non imbracciare le tue chitarre e suonarle tutte? E questa volta ho anche un disco nuovo da proporre…“. E’ allora chiaro che Stephen Stills, l’anima ruggente dei CSN&Y, il motore di “Four Way Street”, non è più l’obnubilato smoderato artista consumato dal successo, ma nemmeno il fantasma di una generazione che si concretizza ai concerti dei tre (più Neil). “Woodstock generation? perché non suonargli la canzone di Joni a questi ragazzi, non è forse una grande canzone? Mettiamola così: le canzoni restano, i motivi annessi cambiano. Alcuni sono però più grandi di noi e riappaiono o non vanno mai via”: “Con chi confrontarsi allora, Steve?”. “Con le nuove generazioni, Ernesto“. “E cosa vogliamo dire allora a tutte le nuove generazioni là fuori, Steve “ . “Apathy is the worst enemy “. Abbiamo bevuto acqua San Pellegrino, scambiato impressioni sui nostri viaggi, ci siamo trovati d’accordo sul desiderio di nuova musica folk (“ti è piaciuto il mio duetto con Neil alla Stanley brothers?), sulla necessità di essere critici al mondo d’oggi, sulla curiosità che non può essere sopita. Ci siamo dati appuntamenti da qualche parte ancora, chissà. Quando gli porgo la mia copia in vinile del suo primo album per una firma, lui si ferma un attimo a pensare e poi scrive “Spero che questo ti abbia portato felicità“. Mi dice: “Stay tuned, man!” . “I will” lo rassicuro, e lo lascio al rituale del prima concerto. Mi saluta e si allontana spalla a spalla con Nash e Crosby diretti verso le loro suite. In silenzio, con grande dignità, senza scambiarsi una parola scompaiono nell’opulenza di questa villa settecentesca.