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4 Way Street (1971) pt.1



(...) Che cos’è questo disco e di che cosa si tratta vale la pena di ripeterlo per chi per caso lo avesse dimenticato o perduto per via della giovane età. È una selezione di brani del più famoso supergruppo americano colto all’apice della sua popolarità e fama, durante quello che è stato, dai più ritenuta, come la migliore tournèe della sua, ahimè, breve esistenza: una sola estate, quella del 1970.Una proposta innovativa per i suoi tempi anche per come si presentava, perchè avviava un indirizzo, un modo di presentrsi, ora con strumenti acustici ora con strumenti elettrici, che sarebbe stata poi da molti seguita specie tra i musicisti west coast. Album importante perchè esaltazione della capacità di stare insieme per scelta propria di quattro forti, distinte personalità, ma al tempo stesso testimonianza del prevalere finale dell’egocentrismo delle stesse. A Four Way Street infatti seguiranno solo fallimenti, tra i tentativi dei quattro di rimettersi, sia pur temporaneamente insieme, fino al drammatico episodio di American Dream. Nel primo disco David Crosby è il protagonista di due indimenticabili brani: il poetico ed idilliaco The Lee Shore e l’oltraggioso Triad che fu la causa del famoso contrasto con i Byrds di Mc Guinn e Hillman. Stephen Stills ha più spazio di tutti su questo versante: apre con l’epica Suite:Judy Blue Eye, la fotografia del Festival di Woodstock, improvvisa la pianistica 49 Bye Bye, tira a lucido la grintosa Love The One You’re With che non fa pesare i suoi anni nel tempo e chiude con la leggendaria Find Coast Of Freedom. Tra i gettoni acustici di Graham Nash, Teach Your Children che non ha bisogno di commenti, Chicago, manifesto utopistico che trae origine da un’episodio storico e cioè la Convention Democratica del 1968, la cui ingenuità oggi è difficile da comprendere e Right Between The Eyes, tipica ballata di Nash, dolce e delicata. E lo stesso discorso vale per Neil Young che presenta una delle sue più belle canzoni dell’epoca Buffalo Springfield: On The Way Home, segue la stupenda ed intensa Cowgirl In The Sand, l’invitante Don’t Let It Bring You Down, fresco gioiellino di After The Gold Rush. Nel secondo disco Neil Young è titolare, tra i pezzi elettrici dove il quartetto è integrato dal bassista di colore Calvin Samuels e dal batterista ex Turtles Johnny Barbata, degli strepitosi e politici Souther Man e Ohio, due gemme della sua produzione, dove le chitarre graffiano forse anche più delle parole. Stephen Stills, che duetta con lui come e più che ai tempi degli Springfield, offre Carry On, uno dei momenti più belli dell’album Dejà Vù, in una versione che presenta i quindici minuti di lunghezza. Long Time Gome è il motivo cantato da David Crosby, siamo al C.S. & N., alla magia e alle aspettative di un’alba di pace. Pre Road Down quello cantato da Graham Nash, stesso ‘lp citato sopra, brano minore però dell’autore anglo-americano, ancora forse troppo Hollies. (...) Un disco irripetibile ed imperdibile per chi vuole possedere le testimonianze migliori di una generazione ingenua ma sincera, della storia del rock americano e weast coast in genere, che hanno contano.
Raffaele Galli da Buscadero, settembre 1992
 
 

Il supergruppo cantautoriale pià celebre alla prova del palco, dopo un album di pezzi superbi, corali, agresti ed intimisti come Dèjà vu. David Crosby (ex-Byrds), Stephen Stills (ex-Buffalo Springfield), Graham Nash (unico inglese, ex-Hollies) e l'ultimo arrivato, il canadese Neil Young (anche lui dai Buffalo Springfield) uniscono per poco tempo le loro forze dimostrando che il folk rock di matrice californiana può avere un profilo artistico convincente all'alba di un nuovo decennio. E' un attimo, perché contrasti e progetti solisti renderanno tale incontro davvero fugace. Paradossalmente, è proprio questo live a rappresentare la testimonianza più completa del suono CSN&Y, un intigolo di sonorità West Coast, intrecci vocali tipicamente californiani e ballate piene di brio.
da "100 Album Fondamentali" di Mucchio Selvaggio


Prologo: difficile che l’ascolto di un “live”, per quanto godurioso, non sia accompagnato dalla frustrazione del non esserci, dall’assenza di quello scenario (ambiente, corpi, voci, odori…) in cui una chimica miracolosa lega assieme musica e realtà. Per questo mi viene da pensare che 4 Way Street sia una specie di prodigio, perché è tutto un ricevere, un provare, uno stupirsi estasiato, un ascolto che non si limita a se stesso ma “respira” e – nei modi e nelle forme dei sogni – “vede” un altro mondo: purtroppo, irraggiungibile. Anno 1970: lo straordinario successo di Deja Vu spinge Stephen Stills, David Crosby, Graham Nash e Neil Young ad affrontare un tour che sarebbe passato di prepotenza alla storia. Questo doppio cd ne è la fragrante - e sbalorditiva - testimonianza. Narrano le cronache di arene affollate, entusiaste, immerse in una palpitante sensazione di irripetibilità: non c’è che dire, l’idea di unire quei quattro – a chiunque sia venuta e comunque sia nata - fu vincente sotto ogni punto di vista, una specie di esplosivo appuntamento con la storia, che neppure la supponenza di Stills né un maldisposto Young riuscirono a compromettere. Beato chi c’era. Noi giovinastri (si fa per dire) ci dovremo invece accontentare di questo succulento doppio album, in cui la netta divisione del concerto in due sezioni, la prima acustica e l’altra elettrica, è felicemente riprodotta: i due dischetti, complementari come le coppie più belle e durature, sembrano i volti diversissimi della stessa anima, per nulla slegati ma anzi complici e testimoni di uno stesso spirito, di una stessa attitudine. Insomma, c’è naturalmente una track list, numerata e “skippabile” a piacimento, ma non è che un flusso torrenziale e magmatico di delicate scelleratezze, selva di immagini, incrocio di voci e personalità, ingenua contesa tra sognanti ambizioni. Difficile tenere fuori anche un solo brano dei ben 21 che compongono l’ultima edizione, impossibile non assegnare ad ognuno un ruolo determinante nell’economia del quadro, ed è quindi inevitabile ricorrere al termometro dei brividi, scremare la crema dalla crema mediante un personale, e quindi fallace, punto di vista. Farò dunque partire l’elenco dei momenti irresistibili dal fraseggio di Triad, traccia numero 4, dopo il minuto abbondante di introduzione parlata di un affabile Crosby: il pezzo, lascito del florido periodo byrdsiano (e già utilizzato dai Jefferson Airplane in Crown Of Creation), è l’ideale vetrina per i vocalismi vellutati del nostro amato trichecone, volatile e aereo come uno stormo di emozioni eppure sempre miracolosamente coi piedi al suolo e il cuore in mano, come un Tim Buckley meno virtuoso ma anche meno autoindulgente. Proseguendo tra le acustiche magie del primo dischetto, difficile non capitolare di fronte alla tenerezza fragrante di Right Between The Eyes, dove Nash sembra rifarsi scopertamente all’arte dei coevi Simon & Garfunkel, serafiche stratificazioni vocali incluse: gustoso e paradigmatico l’inconveniente iniziale, con pubblico e musicisti a ridere insieme a causa di un attacco sbagliato. Tocca subito dopo ad uno stralunato Neil Young: due classici come Cowgirl In The Sand e Don’t Let It Bring You Down, due versioni incerte e vibranti come sugheri nella corrente, lo sbuffare malfermo di passioni insane, l’obliquo intrico di una personalità sempre e comunque “borderline”. Il tocco del canadese è come al solito a metà tra il dilettantesco e l’inaudito, nella sua voce si spalancano improvvisi scenari di inquieto languore, di commozione ferita e agghiacciante. L’istrionesco Stills sale in cattedra con una Bye-Byes/America’s Children straordinariamente soul, il piano che ora incalza ora spande lacrime, il sogno degli (ormai) antichi Buffalo Springfield come un faro nella nebbia, invitante e contagioso. Detto che delle bonus track di cui possiamo beneficiare noi figli snaturati dell’era digitale non ce n’è una che non sia quanto meno bellissima (soprattutto Laughing, dal primo fantastico album solista di Crosby), possiamo passare al secondo dischetto, dove i nostri percorrono torridi sentieri di country rock elettrificato e vibranti deviazioni folk-blues, affiancati dagli ottimi Johnny Barbata (batteria) e Calvin Samuels (basso). Almeno tre i pezzi da leggenda: Southern Man è un classico younghiano (da After The Gold Rush) furiosamente dilatato, stravolto, attraversato da venature acide e rabbiose, con l’inevitabile corollario di stecche nei selvaggi e straniti assolo, che quanto più sembrano perdere la direzione tanto più – non è un paradosso – costituiscono i tratti, l’ossatura, il carattere dell’intera opera, come un segno lasciato sulla strada del tempo, imperfetto e perfettibile come cosa umana; c’è poi una Ohio addirittura schiumante di rabbia contro la politica assassina della polizia di Nixon, le quattro voci come la voce di tutte le coscienze del mondo, una freccia spiccata contro il muro dell’ingiustizia (destinata a spezzarsi, ma mai sconfitta); chiude il trittico delle meraviglie l’immarcescibile Carry On, chitarre spianate, cavalcata inconsulta, miracolo ritmico in diretta da un mondo al limite tra amore e perdita, tra rapimento e tenerezza, tra le mille domande inevase di una moltitudine di sogni. I due minuti della conclusiva Find The Cost Of Freedom sigillano nella quiete miracolosa delle voci un miraggio a cui non possiamo guardare oggi senza nostalgia, il senso della sconfitta storica preconizzata nell’enigmatico e sognante abbandono del testo. Già, perché se ci sono evidenti motivi strettamente musicali per regalarsi questo doppio cd, d’altro canto il suo significato storico e simbolico è indubbio: c’è infatti come una cesura tra il mondo che trasudano queste tracce e ciò che è venuto dopo, come se da lì in avanti il rock – e tutto ciò che al rock è legato – abbia semplicemente iniziato a smettere di crederci. Non proverò neppure a nominare qualcosa di attuale che possa rimandare alle scellerate velleità di questo 4 Way Street, meglio pensare che assomigli soltanto a se stesso, al proprio inguaribile (s)battersi contro un’evidenza inaccettabile ma – ahinoi – alla fine dominante. Quindi, fidatevi, oppure no, fa lo stesso: forse il più grande disco live della storia. 

Stefano Solventi


Siamo nel 1971 e il disco documenta i concerti tenuti a New York, Los Angeles e Chicago da questo gruppo costituito da David Crosby, Neil Young, Grahm Nash e Stephen Stills. Quattro dei maggiori esponenti della musica americana tra la fine degli anni '60 e l'inizio del decennio successivo, trovatisi assieme assolutamente per caso (la leggenda narra di una magica serata a casa di Joni Mitchell, quando Crosby, Stills e Nash iniziarono d improvvisare una canzone capendo all'istante che il loro destino era spartirsi lo stesso microfono. Almeno per un po'…). In queste canzoni (la versione in cd ne contiene quattro in più rispetto all'originale vinile) c'è tutta l'utopia di un'America che credeva ancora negli ideali di pace amore e libertà (un sogno da cui si sarebbe risvegliata in modo fin troppo brusco di lì a poco), che pensava che con un canzone si potesse veramente cambiare il mondo, o almeno spingere qualcuno a farlo… Un disco essenzialmente acustico e uno dove prevalgono le cavalcate elettriche tanto care soprattutto all'ultimo arrivato, Neil Young. Ecco, soprattutto in questa seconda parte sono riscontrabili i germi di tanti graffi che sarebbero venuti anche molto dopo (quanto Seattle ha amato Neil Young…). La cupa amarezza di "Ohio" o i 13 acidi minuti di "Southern Man" hanno sicuramente influenzato il rock che sarebbe venuto, più della dolcezza e del sogno di "Find the cost of freedom". Ed è inevitbile che sia stato così: non era precisamente un mondo tutto rosa quello che ci sarebbe stato da raccontare di lì a poco…
Lucio Mazzi



John Mellencamp una volta mi disse che non pubblica dischi dal vivo perché, da fan di CSN&Y, da ragazzo rimase deluso da quanto fosse brutto 4 Way Street. Beh, io penso che questo sia tutt'oggi uno dei migliori dischi dal vivo di tutti i tempi. Può darsi che la parte elettrica (il doppio vinile era diviso in un primo album di performance acustiche e un secondo full band) oggi suoni un tantino datata (però ascoltare i duelli di chitarre impazzite tra Stills e Young nelle lunghissime rese - oltre un quarto d'ora - di "Southern Man" e "Carry On" con quei crescendo furiosi e devastanti per me è ancora una goduria), ma sicuramente le esecuzioni acustiche meritano la dicitura di "extraordinaire". Nonostante, infatti, fossero in quel momento storico (il live fu registrato durante un tour del 1970) il gruppo più popolare del mondo, i quattro mantengono un piacevolissimo approccio informale, da folksinger intenti a esibirsi in un piccolo club invece che in una grande arena, scambiandosi battute o sbagliando addirittura l'attacco di un pezzo. Ma è la straordinaria tensione (che si avverte nel pubblico, in totale e religioso silenzio) di momenti come "The Lee Shore" (Crosby), "Cowgirl In The Sand" (Young) o "Right Between The Eyes" (Nash) che ne fa esecuzioni di una bellezza "out of time".
La ristampa in cd contiene alcune performance in più, su tutte l'esaltante medley "The Loner/Cinnamon Girl/Down By The River" di Neil Young.
Paolo Vites, JAM

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