American Dream (1988)
L'AMERICAN DREAM DEI QUATTRO CAVALIERI
Ernesto
Assante, Repubblica 1988
Primo
album in studio dai tempi dell’ormai mitico Dejà Vu, American
Dream (Atlantic, 1988) è, di fatto, il ritorno in pompa magna dei
quattro cavalieri del country-rock.
Ad abbellirsi in vetrina, ovviamente, Neil Young che, tuttavia, vive una fase creativa in declino dopo il nuovo apice personale di Rust Never Sleeps (1979). È lui che da il via alle ritrovate danze del supergruppo, ma l’orecchiabile ritmo di basso della title track non sembra affatto il preludio a un disco da ricordare negli annali della musica popolare americana. L’uomo solitario, infatti, vira subito verso la classica ballata di country elettrico (“Name Of Love”), ma a non funzionare è proprio l’intesa con Stills, che non riesce a inserirsi con i suoi assoli, perso nel magma sintetizzato dei suoi ultimi dischi solisti (“Got It Made”).
Nash, da par suo, non ha remore a insistere sul piano liturgico di “Don’t Say Goodbye” e, soprattutto, sull’ormai trita ballata ecologista di “Clear Blue Skies”. Nota brillante, invece, il ritorno alla vita (artistica) di David Crosby che, disintossicato appieno, getta il piede sull’acceleratore con la grinta per tastiere di “Nighttime For The Generals”. Il baffo dalla California sembra ricordarsi improvvisamente del suo glorioso passato da songwriter, emozionando con il folk esistenzialista di “Compass”, cartolina westcoastiana firmata anche dall’armonica di Young. Lo stesso canadese rende di più quando dipinge l’acquerello acustico di “Feel Your Love” rispetto alla filastrocca corale di “This Old House”.
Ad abbellirsi in vetrina, ovviamente, Neil Young che, tuttavia, vive una fase creativa in declino dopo il nuovo apice personale di Rust Never Sleeps (1979). È lui che da il via alle ritrovate danze del supergruppo, ma l’orecchiabile ritmo di basso della title track non sembra affatto il preludio a un disco da ricordare negli annali della musica popolare americana. L’uomo solitario, infatti, vira subito verso la classica ballata di country elettrico (“Name Of Love”), ma a non funzionare è proprio l’intesa con Stills, che non riesce a inserirsi con i suoi assoli, perso nel magma sintetizzato dei suoi ultimi dischi solisti (“Got It Made”).
Nash, da par suo, non ha remore a insistere sul piano liturgico di “Don’t Say Goodbye” e, soprattutto, sull’ormai trita ballata ecologista di “Clear Blue Skies”. Nota brillante, invece, il ritorno alla vita (artistica) di David Crosby che, disintossicato appieno, getta il piede sull’acceleratore con la grinta per tastiere di “Nighttime For The Generals”. Il baffo dalla California sembra ricordarsi improvvisamente del suo glorioso passato da songwriter, emozionando con il folk esistenzialista di “Compass”, cartolina westcoastiana firmata anche dall’armonica di Young. Lo stesso canadese rende di più quando dipinge l’acquerello acustico di “Feel Your Love” rispetto alla filastrocca corale di “This Old House”.
A
soffrire più di tutti è sicuramente Stephen Stills che prova il
riff blues di “Drivin’ Thunder” prima di affondare tra i fiati
soul di “That Girl” e il rock sintetico di “Night Song”. Non
basta, quindi, la solida melodia contro la guerra di Nash (“Soldiers
Of Peace”) per scrivere ancora un grande album.
American
Dream è una delusione generale, resa più scottante dal carico di
aspettative sulle spalle di un gruppo che pare troppo sfilacciato per
durare ancora nell’immaginario della gente.
Quando
il disco arriva nei negozi, a novembre, ottiene subito un buon
successo di pubblico fino ad arrivare al disco di platino dopo appena
due mesi. La critica, tuttavia, è impietosa e spinge soprattutto
Young a rinunciare all’idea di un tour mondiale. Neil, in realtà,
non si fida poi tanto delle condizioni ritrovate di David Crosby che,
per tutta risposta, decide di concentrarsi sul serio per dare
finalmente alla luce il suo secondo, sospirato disco da solista.
ondarock.it